È forse ozioso, ma inevitabile, pensare che On the Rocks sia un aggiornamento di Lost in Translation. O meglio ancora, una sua versione letterale che esplicita il rapporto padre/figlia là solamente vagheggiato.
Diciassette anni dopo, il legame fra la protagonista Laura
(Rashida Jones), scrittrice benestante di Manhattan, madre e moglie in crisi
creativa convinta che il marito rampante la tradisca, e Felix (Bill Murray), gallerista e bon vivant
che aiuta la figlia a indagare con fin troppa solerzia, non ha nulla di ambiguo
o incerto. Nel film le parole sono scandite chiaramente, nulla viene sussurrato
all’orecchio e negato allo spettatore. Semmai avviene il contrario, perché a
cadere nel silenzio sono i personaggi, incapaci di fischiare o convinti di
perdere l’udito per le frequenze più lievi, dunque per le voci femminili.
Nella sua evidente superficialità, come tutti i film di Sofia Coppola, anche On the Rocks sa
benissimo di essere sospeso sul vuoto, di raschiare il barile e di rischiare il
nulla. On the rocks, per l'appunto, espressione che può indicare un probabile e
imminente fallimento, come se Sofia Coppola ammettesse una volta per tutte, nel
modo più semplice, intimo e lineare possibile, i limiti del suo mondo di
riferimento e del suo sguardo.
Non c’è nemmeno straniamento, nell’esperienza di madre
alto-borghese della protagonista Laura; né tantomeno alterità, follia o
surrealismo nel cazzeggio compiaciuto di suo padre Felix. On the Rocks esprime
solamente consapevolezza del proprio privilegio e, a fianco o mezzo passo
indietro, un sentore di disagio persistente, come la colpa per un peccato non
commesso. Il senso del plot praticamente inesistente è fin troppo chiaro: il
problema di Laura non sono il marito che la lascia sovente sola o la crisi
creativa che innesca quella familiare; il problema sono il vuoto che circonda
la sua vita in un appartamento da sogno a Soho, in una città che ormai non
esiste più per nessuno, nemmeno per quei pochi che ne possono ancora godere;
sono l’egoismo autoassolutorio nel quale il padre l’ha cresciuta o la bellezza
indiscutibile e mai messa in discussione dei suoi vestiti, delle sue abitudine,
dei locali che frequenta, degli oggetti che maneggia. Anche la fuga da
Manhattan, verso una splendida località turistica del Messico, si rivela uno
sbaglio come un altro, con Laura sempre immersa in contesti di bellezza senza
riverbero, tra luci curate e colori calibrati, ripresa da inquadrature
semplice, perfette, sostanzialmente piatte.
Viene in mente un paragone con il cinema di Guadagnino, e in particolare con il
corto The Staggering Girl: il
regista italiano con la bellezza e la ricchezza ha un rapporto di raffinata
passione, di decadente voluttuosità; Sofia Coppola, invece, dà per scontato il
proprio mondo e per questo non sa cosa farsene. E di fronte alle ninfee di
Monet (che Laura e Felix osservano nell’appartamento di una novantenne
milionaria) lo sguardo resta come sempre incerto: non indifferente, nemmeno
inerme, bensì offuscato. Poi, nell'inquadratura successiva, Laura è immersa
nelle strade di New York attorniata da una luce bellissima, perché Sofia
Coppola ha un talento enorme - e su questo non si discute. Ma come per la sua
vita, anche di quello non ha saputo bene cosa farsene.
On the Rocks è la forma più onesta del cinema di Sofia
Coppola, l’unica che la regista conosca. Un film ripetuto e ripetitivo. Un film
vuoto su un vuoto, senza che tutto questo basti per farne un film bello. Un
film, ancora, che si sostituisce a un altro, come l’orologio del marito, nel
finale, sostituisce quello del padre...
Oggetti, scene, regali, silenzi, film, vita: tutto sullo
stesso piano, tutto in superficie. Niente che vada perduto, niente da
conservare veramente.
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