giovedì 6 febbraio 2025

The Brutalist di Brady Corbet (2024)

Come Faust di Sokurov o The Tree of Life di Malick, ci sono film che hanno un effetto dirompente all’interno di un concorso, anche quando si tratta di Venezia o Cannes. Opere-mondo che colmano di senso lo schermo, la sala, la visione. Tra queste, non numerosissime, ci sembra di poter annoverare senza troppi ripensamenti anche la terza fragorosa regia di Brady Corbet, The Brutalist, pellicola dalla grandeur straripante, fuori tempo e fuori norma. Girato in VistaVision (70 mm un po’ indigesti per le sale veneziane, in costante fuori fuoco), il film rispecchia perfettamente l’ambizione che già traspariva nei due precedenti lavori, L’infanzia di un capo e Vox Lux, qui portata alle estreme conseguenze estetiche e narrative. Una poetica brutalista quella di Corbet, capace di erigere strutture portentose e poi, improvvisamente, di andare dritto al punto con vertiginosi detour. Un film wellesiano, wagneriano, una riflessione sull’arte (anche la propria), sull’ambizione, sul potere e le sue degenerazioni. Una chiusura, forse una pietra tombale, sul Secolo breve de L’infanzia di un capo, sull’Età della catastrofe.

Di luci improvvise e di atmosfere cupe è fatto The Brutalist, fin dall’incipit stordente, con l’arrivo nella Terra dell’abbondanza, l’unica meta possibile prima della Terra promessa, quella Israele che era ai primissimi vagiti e che tornerà inevitabilmente nella storia, nella Storia. Ma la sequenza d’apertura è tutta a stelle e strisce, con quella Statua della Libertà vista da una prospettiva insolita, storta, rovesciata, eppure ancor più reale, esaltante, simbolo (in buona parte ingannevole) di quel che sarà e soprattutto di quello che ci si è lasciati alle spalle. Il prologo martellante di una narrazione espansa, incurante delle logiche distributive e della resistenza spettatoriale, con prologo, atti pantagruelici e infine un epilogo. L’ouverture di una gesamtkunstwerk, di un’opera d’arte totale, totalizzante, che mette in mostra sfrontatamente tutta la sua grandeur, sostenendola in ogni modo, dalla maiuscola performance di Adrien Brody alla spigolosa colonna sonora di Daniel Blumberg (che sostituisce Scott Walker, scomparso nel 2019, giustamente ricordato e omaggiato da Corbet).

La durata espansa di The Brutalist è indissolubilmente legata alla sua natura, all’idea di cinema di Corbet, a questa rispecchiante ricerca e messa in scena della grandiosità, espressa in tutte le direzioni artistiche possibili. La libreria costruita per Van Buren, il successivo grande progetto apparentemente interminabile, la cava dei marmi di Carrara: tutto è smisurato ma mai superfluo, segnato da una necessità che è anche – si chiarirà alla fine – personale, politica, storica. Il peso dell’architettura di László Tóth, la sua portata, è una questione intima quanto collettiva, personale quanto storica: nell’erigere questo gigante di acciaio e cemento armato (che è poi uno dei grimaldelli più subdoli del Capitale), Tóth sacrifica se stesso, il suo rapporto con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e i pochi amici, per lasciare un segno indelebile e gigantesco sul suolo statunitense. Un controcampo di quella Statua della Libertà così ingannevole, simbolo di quel sogno americano che ha ridotto in cenere le speranze di molti – resta sullo sfondo, invece, la questione dell’altra terra promessa, l’Israele della nipote Szofia: in tal senso, The Brutalist sprigiona un lucido antiamericanismo, lasciando fuori fuoco Sion e dintorni.

Il film di Corbet toglie la maschera al capitalismo yankee, al suo malcelato senso di onnipotenza, a quella barbarie che denaro e potere non possono cancellare. L’incontro-scontro tra Tóth e il magnate Van Buren, col suo mecenatismo di facciata, ostentato e volgare, si nutre di quella stessa autoanalisi che alimentava un’altra pellicola smisurata e per molti versi affine: Il petroliere. E c’è infatti, nella smisuratezza del cinema di Corbet, un’ambizione non distante da quella di Paul Thomas Anderson e di altri – non molti – registi in grado di dialogare con la grandezza del cinema classico e con le follie produttive degli anni Settanta. Pensa in grande Corbet, come Tóth, ma a differenza di autori mainstream come Nolan, destinati a scalare il box office, l’ex-attore (è fermo dal 2014) sembra muoversi come un Cimino già consapevole del disastro, di un gigantismo che servirà solo a se stesso e al Cinema. Alla purezza e alla follia del Cinema. Come sostiene lo stesso Corbet, The Brutalist è un «film impossibile». È un Megalopolis focalizzato sul passato.

Salvo improbabili sorprese, The Brutalist non solo mette in scena il punto di scontro, l’incompatibilità, tra cultura\arte e Capitale, ma ne è simbolo e al tempo stesso consapevolmente vittima, agnello sacrificale. Un film, come del resto Corbet, che non appartiene a Hollywood, a quella forma di gigantismo spesso superficiale, ma che guarda piuttosto a forme di immortalità artistica, a prescindere dal pubblico, dal consenso. Non a caso, la vera terra promessa nell’epilogo diventa la Biennale di Venezia – ma siamo negli anni Ottanta, ben prima della conta delle nomination, delle statuette e delle strizzate d’occhio alle piattaforme. L’enigma dell’arrivo (1947-1952) e Il solido nucleo di bellezza (1953-1960) tracciano la genesi di una cattedrale nel deserto, di un’opera che difficilmente può essere compresa; un’opera creata da uno sguardo altro, superiore, generata da una creatività martoriata, stuprata, discesa tra gli abissi, resa folle, ossessiva eppure fertile. Un finto biopic che racchiude idealmente un’infinità di storie. E alla fine, passata la tempesta, superato l’orrore, persino l’Olocausto, restano quantomeno le opere, il simbolo di una rivincita sul Male, sul Potere, sul Capitale.

Pubblicato su quinlan.it 05/09/2024, di Enrico Azzano

 

Se c’erano ancora dubbi sulla smodata dose di talento, arroganza, ambizione dell’americano Brady Corbet, The Brutalist serve proprio a stagliarsi davanti ai nostri occhi senza mezze misure, in 70mm Vistavision, imponente e levigato come un tempio. Al suo terzo film da regista, l’autore di Vox Lux triplica le dimensioni e la magniloquenza, firmando un’opera – nel vero senso della parola – strutturata in tre lunghi atti più un’ouverture e un epilogo, per la durata complessiva di 3 ore e 30’. (E c’è anche un intervallo di 15 minuti, che ci rimanda alle visioni in sala di un altro tempo storico, ma da considerare a tutti gli effetti parte integrante del film).

Già dalle intenzioni The Brutalist vola altissimo: l’architettura, l’Olocausto, l’esilio, il dietro le quinte della Storia e dell’Arte attraverso la vita privata. Corbet, e la compagna Mona Fastvold che con lui scrive e produce, “costruisce” il “finto” biopic di Laszlo Toth, un architetto ebreo ungherese fuggito negli Stati Uniti dai campi di sterminio. Adrien Brody è lo scheletro polanskiano che riprende vita dove Il pianista si concludeva, al termine della Seconda guerra mondiale. A Corbet interessa l’ “esperienza” americana e quindi il suo film inizia alla fine degli anni ’40, con l’arrivo a New York e il soggiorno turbolento e in povertà a Philadelphia. Fino all’incontro con l’irascibile miliardario Van Buren, che si innamora della sua opera e ingaggia con Toth un rapporto ambiguo, di stima intellettuale e sopraffazione, controllo economico e abbandono. Nel mezzo l’altrettanto turbolento rapporto sentimentale con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e la nipote Szofia, inizialmente puramente epistolare, e poi con il loro arrivo in America nella seconda parte del film, liberatorio e straziante. E qui c’è spazio per una sorta di melodramma oltre la Storia, che diventa la cartina di tornasole romantica, privata e dolorosa delle tante utopie e degli orrori che il film si porta dietro.

Il segno della Bauhaus, citata nello stile e nella formazione di Toth e nei font dei credits. La fonte meravigliosa di King Vidor. Eric von Stroheim. Buckenwald e Dachau. Ma anche la dipendenza dall’oppio, che Toth si inietta in vena, trasformandosi in un potenziale personaggio nomade di Burroughs e quindi nell’immagine/fantasma di un’altra America letteraria, lisergica e oscura. E dobbiamo ammettere che raramente avevamo visto un film così intimamente anti-americano. Lo straordinario piano sequenza iniziale, dove Toth si fa strada tra una folla di immigrati, nell’oscurità e nel caos linguistico come se fosse ancora all’interno di un campo di concentramento, si risolve con l’apparizione della Statua della Libertà rovesciata, come fosse l’epifania allucinatoria di un incubo che non è ancora finito. E infatti The Brutalist tra le altre cose si incunea in una vera e propria analisi perversa sulla dipendenza finanziaria e sui rapporti di potere tra il magnate e l’artista, grazie anche a un Guy Pierce spaventoso, perfetta incarnazione del Mito Americano scisso tra il salvatore e il demone.

Eppure, nonostante la durata del film e i tanti conflitti creativi che vengono raccontati, come nell’Andrej Rublev di Tarkovskij forse il “vero” riferimento di Corbet, l’opera compiuta dell’artista ci viene esposta solo nel finale, ambientato nel 1980. Gli edifici, che attraversiamo sempre di sfuggita nel corso di The Brutalist come progetti incompiuti, rimandati o semplici fotografie su una rivista in bianco e nero, si rivelano e si “spiegano” solo al termine del percorso di Toth, di Corbet e degli spettatori. “Non conta il viaggio ma la meta” viene detto non a caso  dalla nipote di Toth davanti a una platea nell’ultima scena, in quella che pare la dichiarazione programmatica di un cineasta ossessionato dall’idea del capolavoro, dell’opera d’arte fin(i)ta.

E quindi? Brady Corbet è un cineasta da prendere o lasciare. E forse finora con la sua filmografia siamo stati fin troppo severi. Anche qui emergono spigolosità, didascalismi ed eccessi (non privi anche di una certa ambiguità “politica”) di un cinema apertamente wagneriano, capace di saturare in modo perentorio lo schermo e il filo narrativo, sovrapponendo simbolismi e metafore, illuminazioni abbacinanti e ridondanze. Al netto di tutto, il materiale da plasmare e concettualizzare è enorme e The Brutalist si afferma come il suo film migliore. Ancora una volta problematico, certo. Ma innegabilmente straordinario.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it , 5 Febbraio 2025 di Carlo Valeri