Di luci improvvise e di atmosfere cupe è fatto The
Brutalist, fin dall’incipit stordente, con l’arrivo nella Terra
dell’abbondanza, l’unica meta possibile prima della Terra promessa, quella
Israele che era ai primissimi vagiti e che tornerà inevitabilmente nella
storia, nella Storia. Ma la sequenza d’apertura è tutta a stelle e strisce, con
quella Statua della Libertà vista da una prospettiva insolita, storta,
rovesciata, eppure ancor più reale, esaltante, simbolo (in buona parte
ingannevole) di quel che sarà e soprattutto di quello che ci si è lasciati alle
spalle. Il prologo martellante di una narrazione espansa, incurante delle
logiche distributive e della resistenza spettatoriale, con prologo, atti
pantagruelici e infine un epilogo. L’ouverture di una gesamtkunstwerk, di
un’opera d’arte totale, totalizzante, che mette in mostra sfrontatamente tutta
la sua grandeur, sostenendola in ogni modo, dalla maiuscola performance di
Adrien Brody alla spigolosa colonna sonora di Daniel Blumberg (che sostituisce
Scott Walker, scomparso nel 2019, giustamente ricordato e omaggiato da Corbet).
La durata espansa di The Brutalist è indissolubilmente
legata alla sua natura, all’idea di cinema di Corbet, a questa rispecchiante
ricerca e messa in scena della grandiosità, espressa in tutte le direzioni
artistiche possibili. La libreria costruita per Van Buren, il successivo grande
progetto apparentemente interminabile, la cava dei marmi di Carrara: tutto è
smisurato ma mai superfluo, segnato da una necessità che è anche – si chiarirà
alla fine – personale, politica, storica. Il peso dell’architettura di László
Tóth, la sua portata, è una questione intima quanto collettiva, personale
quanto storica: nell’erigere questo gigante di acciaio e cemento armato (che è
poi uno dei grimaldelli più subdoli del Capitale), Tóth sacrifica se stesso, il
suo rapporto con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e i pochi amici, per
lasciare un segno indelebile e gigantesco sul suolo statunitense. Un
controcampo di quella Statua della Libertà così ingannevole, simbolo di quel
sogno americano che ha ridotto in cenere le speranze di molti – resta sullo
sfondo, invece, la questione dell’altra terra promessa, l’Israele della nipote
Szofia: in tal senso, The Brutalist sprigiona un lucido antiamericanismo,
lasciando fuori fuoco Sion e dintorni.
Il film di Corbet toglie la maschera al capitalismo yankee,
al suo malcelato senso di onnipotenza, a quella barbarie che denaro e potere
non possono cancellare. L’incontro-scontro tra Tóth e il magnate Van Buren, col
suo mecenatismo di facciata, ostentato e volgare, si nutre di quella stessa
autoanalisi che alimentava un’altra pellicola smisurata e per molti versi affine:
Il petroliere. E c’è infatti, nella smisuratezza del cinema di Corbet,
un’ambizione non distante da quella di Paul Thomas Anderson e di altri – non
molti – registi in grado di dialogare con la grandezza del cinema classico e
con le follie produttive degli anni Settanta. Pensa in grande Corbet, come
Tóth, ma a differenza di autori mainstream come Nolan, destinati a scalare il
box office, l’ex-attore (è fermo dal 2014) sembra muoversi come un Cimino già
consapevole del disastro, di un gigantismo che servirà solo a se stesso e al
Cinema. Alla purezza e alla follia del Cinema. Come sostiene lo stesso Corbet,
The Brutalist è un «film impossibile». È un Megalopolis focalizzato sul
passato.
Salvo improbabili sorprese, The Brutalist non solo mette in
scena il punto di scontro, l’incompatibilità, tra cultura\arte e Capitale, ma
ne è simbolo e al tempo stesso consapevolmente vittima, agnello sacrificale. Un
film, come del resto Corbet, che non appartiene a Hollywood, a quella forma di
gigantismo spesso superficiale, ma che guarda piuttosto a forme di immortalità
artistica, a prescindere dal pubblico, dal consenso. Non a caso, la vera terra
promessa nell’epilogo diventa la Biennale di Venezia – ma siamo negli anni
Ottanta, ben prima della conta delle nomination, delle statuette e delle
strizzate d’occhio alle piattaforme. L’enigma dell’arrivo (1947-1952) e Il
solido nucleo di bellezza (1953-1960) tracciano la genesi di una cattedrale nel
deserto, di un’opera che difficilmente può essere compresa; un’opera creata da
uno sguardo altro, superiore, generata da una creatività martoriata, stuprata,
discesa tra gli abissi, resa folle, ossessiva eppure fertile. Un finto biopic
che racchiude idealmente un’infinità di storie. E alla fine, passata la
tempesta, superato l’orrore, persino l’Olocausto, restano quantomeno le opere,
il simbolo di una rivincita sul Male, sul Potere, sul Capitale.
Pubblicato su quinlan.it 05/09/2024, di Enrico Azzano
Se c’erano ancora dubbi sulla smodata dose di talento,
arroganza, ambizione dell’americano Brady Corbet, The Brutalist serve proprio a
stagliarsi davanti ai nostri occhi senza mezze misure, in 70mm Vistavision,
imponente e levigato come un tempio. Al suo terzo film da regista, l’autore di
Vox Lux triplica le dimensioni e la magniloquenza, firmando un’opera – nel vero
senso della parola – strutturata in tre lunghi atti più un’ouverture e un
epilogo, per la durata complessiva di 3 ore e 30’. (E c’è anche un intervallo
di 15 minuti, che ci rimanda alle visioni in sala di un altro tempo storico, ma
da considerare a tutti gli effetti parte integrante del film).
Già dalle intenzioni The Brutalist vola altissimo:
l’architettura, l’Olocausto, l’esilio, il dietro le quinte della Storia e
dell’Arte attraverso la vita privata. Corbet, e la compagna Mona Fastvold che
con lui scrive e produce, “costruisce” il “finto” biopic di Laszlo Toth, un
architetto ebreo ungherese fuggito negli Stati Uniti dai campi di sterminio.
Adrien Brody è lo scheletro polanskiano che riprende vita dove Il pianista si
concludeva, al termine della Seconda guerra mondiale. A Corbet interessa l’
“esperienza” americana e quindi il suo film inizia alla fine degli anni ’40,
con l’arrivo a New York e il soggiorno turbolento e in povertà a Philadelphia.
Fino all’incontro con l’irascibile miliardario Van Buren, che si innamora della
sua opera e ingaggia con Toth un rapporto ambiguo, di stima intellettuale e
sopraffazione, controllo economico e abbandono. Nel mezzo l’altrettanto
turbolento rapporto sentimentale con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e la
nipote Szofia, inizialmente puramente epistolare, e poi con il loro arrivo in
America nella seconda parte del film, liberatorio e straziante. E qui c’è
spazio per una sorta di melodramma oltre la Storia, che diventa la cartina di
tornasole romantica, privata e dolorosa delle tante utopie e degli orrori che
il film si porta dietro.
Il segno della Bauhaus, citata nello stile e nella
formazione di Toth e nei font dei credits. La fonte meravigliosa di King Vidor.
Eric von Stroheim. Buckenwald e Dachau. Ma anche la dipendenza dall’oppio, che
Toth si inietta in vena, trasformandosi in un potenziale personaggio nomade di
Burroughs e quindi nell’immagine/fantasma di un’altra America letteraria,
lisergica e oscura. E dobbiamo ammettere che raramente avevamo visto un film
così intimamente anti-americano. Lo straordinario piano sequenza iniziale, dove
Toth si fa strada tra una folla di immigrati, nell’oscurità e nel caos
linguistico come se fosse ancora all’interno di un campo di concentramento, si
risolve con l’apparizione della Statua della Libertà rovesciata, come fosse
l’epifania allucinatoria di un incubo che non è ancora finito. E infatti The
Brutalist tra le altre cose si incunea in una vera e propria analisi perversa
sulla dipendenza finanziaria e sui rapporti di potere tra il magnate e
l’artista, grazie anche a un Guy Pierce spaventoso, perfetta incarnazione del
Mito Americano scisso tra il salvatore e il demone.
Eppure, nonostante la durata del film e i tanti conflitti
creativi che vengono raccontati, come nell’Andrej Rublev di Tarkovskij forse il
“vero” riferimento di Corbet, l’opera compiuta dell’artista ci viene esposta
solo nel finale, ambientato nel 1980. Gli edifici, che attraversiamo sempre di
sfuggita nel corso di The Brutalist come progetti incompiuti, rimandati o
semplici fotografie su una rivista in bianco e nero, si rivelano e si
“spiegano” solo al termine del percorso di Toth, di Corbet e degli spettatori.
“Non conta il viaggio ma la meta” viene detto non a caso dalla nipote di Toth davanti a una platea
nell’ultima scena, in quella che pare la dichiarazione programmatica di un
cineasta ossessionato dall’idea del capolavoro, dell’opera d’arte fin(i)ta.
E quindi? Brady Corbet è un cineasta da prendere o lasciare.
E forse finora con la sua filmografia siamo stati fin troppo severi. Anche qui
emergono spigolosità, didascalismi ed eccessi (non privi anche di una certa
ambiguità “politica”) di un cinema apertamente wagneriano, capace di saturare
in modo perentorio lo schermo e il filo narrativo, sovrapponendo simbolismi e
metafore, illuminazioni abbacinanti e ridondanze. Al netto di tutto, il
materiale da plasmare e concettualizzare è enorme e The Brutalist si afferma
come il suo film migliore. Ancora una volta problematico, certo. Ma
innegabilmente straordinario.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it , 5 Febbraio 2025 di Carlo
Valeri
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