Favolacce è l’opera seconda dei fratelli D’Innocenzo a due anni di distanza da La terra dell’abbastanza. Racconto corale ambientato a Spinaceto, quartiere a sud di
Roma e a una quindicina di chilometri dal mare, Favolacce mette in mostra un
cinema elegante e barbarico, e un immaginario a cui la produzione italiana non
è più abituata. Crudele racconto di una giovinezza senza speranza alcuna,
Orso d'Argento alla Berlinale 2020.
Una favola nera che
racconta senza filtri le dinamiche che legano i rapporti umani all’interno di
una comunità di famiglie, in un mondo apparentemente normale dove la rabbia e
la disperazione sono pronte ad esplodere.
Cosa sono le favolacce, se non il racconto quotidiano di
un’esistenza priva di scopo, di ragione, perfino di direzione? Se le possono
raccontare tra loro i bambini sottovoce, la notte prima di addormentarsi, o
possono condividerle attorno a un tavolo due famiglie che decidono di cenare
insieme, oppure le si possono ascoltare alla televisione, quella televisione
che non cerca più neanche di trovare il senso agli accadimenti ma lascia che la
cronaca cruda entri con la sua dirompente violenza nelle case di persone che
guardano e ascoltano distrattamente. Inizia con un tono fiabesco il secondo
film dei fratelli D’Innocenzo (gemelli trentunenni che esordirono due anni fa
con il bel noir sottoproletario La terra dell’abbastanza): un uomo, la cui voce
narrante tornerà di quando in quando a far capolino nel corso del film, afferma
di aver trovato il diario di una ragazzina, scritto con la penna blu, e di aver
deciso una volta arrivato alla sua fine, di continuarlo a sua volta. Quindi,
per dirla con le parole del narratore, Favolacce è ispirato a una storia vera,
a sua volta ispirata a una storia falsa. La storia falsa, conclude la voice
over, non è molto ispirata. Giocano da subito con le forme del linguaggio i
D’Innocenzo, quasi a sottolineare la volontà di far percepire un’evoluzione
dall’esordio; lì, nel suburbio di Ponte di Nona, grigia periferia della
Capitale, si doveva aderire al reale, o supposto tale, per poter entrare in
contatto con quell’umanità giovanile e vitale, nonostante la necessità – quasi
ineludibile – di uccidere. Nella Spinaceto che è il cuore pulsante di Favolacce
ci si può facilmente smarcare da questa adesione alla verità: da quella si
parte, in ogni caso, perché il telegiornale riporta la notizia tragica di due
genitori che hanno ucciso la figlia appena nata per poi gettarsi a loro volta
dal balcone. Ma si cambia immediatamente registro, già durante una cena tra due
famiglie amiche e vicine: dopo aver parlato del lavoro che non c’è, e che il
capofamiglia di uno dei due nuclei vorrebbe trovare (un sempre ammirevole Elio
Germano, in una prova attoriale completamente dissimile, per timbriche e
posture, a quella messa in mostra in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, a
sua volta in concorso alla Berlinale), si passa ai figli, che devono leggere in
maniera plateale, quasi teatrale, i voti delle loro pagelline. Tutti 10,
eccezion fatta per un 9 che la figlia più piccola ha preso in condotta.
Per una volta, rarità assoluta nello scenario
cinematografico dell’Italia di oggi, un luogo non serve a marcare le esistenze
che lo agitano. Anzi, la Spinaceto mostrata nel film è anonima, del tutto priva
di identità, per niente caratterizzata, se non per quella struttura fatta di
villini a schiera che poco si adegua all’immaginario capitolino e
metropolitano, e sembra semmai veleggiare dalle parti del Tim Burton degli
esordi e dei fratelli Coen (ma anche Todd Solondz, ovviamente). E non è un
caso, forse, che il registro scelto sia quello del grottesco, senza però che
questo aspetto vada in alcun modo a intaccare la sincera tragicità di un
microcosmo ebete, nevrastenico, insoddisfatto senza neanche essere in grado di
comprenderlo, invidioso dell’altro e attaccato solo agli eredi. I figli, le
nuove generazioni. Unica speranza di emancipazione di un’umanità che non ha
fatto nulla della propria vita. Non si sa che lavori facciano gli adulti di
Favolacce, se non che uno di loro è cameriere in un ristorante. Lo si ignora
perché questo aspetto non ha nulla a che vedere con la mediocrità delle
esistenze dei personaggi in scena.
Da un punto di vista narrativo i gemelli procedono in modo
ellittico, sfiorando le vite degli abitanti del quartiere nel corso dei mesi,
dall’inizio dell’estate fino al ritorno sui banchi di scuola. C’è una ragazza
giovanissima incinta e sul punto di partorire, i due fratellini che tanto vanno
bene a scuola, una ragazzina che invece tanto bene non va e per di più si
prende i pidocchi ed è costretta ad andare in giro con una parrucca à la Mia
Wallace, il figlio del cameriere che potrebbe riuscire a perdere la verginità
solo grazie al morbillo, visto che la madre di una sua amichetta (quella della
parrucca) pretende che anche sua figlia riceva in dono la malattia
esantematica.
Così come sono ordinate e all’apparenza impeccabili le
villette a schiera (ma il cameriere con il figlio vivono in una casetta
prefabbricata isolata che sembra uscita fuori dal sud degli States, quei
territori abitati dalle macchine da presa di Terrence Malick o David Gordon
Green; e infatti il padre emancipa il pargolo facendogli guidare il suo
pick-up), altrettanto sono disordinate sia le vite che vi si svolgono
all’interno sia il racconto episodico dei D’Innocenzo. Un racconto che si
riempie di turpitudini, cercando idealmente lo sposalizio tra la New Hollywood
– e quel che venne dopo – e la parte più esacerbata della commedia
all’italiana, come se i Coen, Malick e l’Ettore Scola di Brutti, sporchi e
cattivi potessero unirsi in un unico amplesso, vitale e mortifero allo stesso
tempo (nei rintocchi della colonna sonora a un certo punto pare echeggiare
anche un passaggio dello score di Stelvio Cipriani per Reazione a catena di
Mario Bava, altro film che potrebbe benissimo dare del tu a Favolacce).
All’interno di una produzione cinematografica per lo più anodina o protesa
verso l’educazione del pubblico, i giovani gemelli D’Innocenzo diseducano lo
sguardo sempre più prono verso il piccolo schermo ricordando quali siano le
potenzialità del cinema, del racconto per immagini (la messa in scena è
stordente e sempre brillante, senza mai perdere in eleganza formale), e allo
stesso tempo quanto sia necessaria la messa in mostra delle atrocità del
vivere, e di un’umanità non più vista come elemento d’analisi sociologica ma
come esseri viventi che urlano, sbraitano, e possono essere sgradevoli, sguaiati
(i commenti triviali dei due vicini di casa quando alla festa arriva una mamma
che “non si è messa le mutande” vengono spinti ben oltre il canonico, senza
censura alcuna), violenti, vili, orribili. In questa diseducazione l’unico atto
di formazione possibile è quello che passa per la (auto)distruzione. Sempre
consci che si può fuggire da Spinaceto – come ricordava Nanni Moretti in un
celeberrimo passaggio di Caro diario – ma non si deve nutrire la speranza di
trovare l’Eldorado una volta entrati nel Grande Raccordo Anulare (ma il
discorso ovviamente non varrebbe solo per Roma e neanche solo per l’Italia). E
non si può mai davvero dormire. Non si riesce più a dormire. E allora tanto
vale accendere la televisione, e ascoltare le notizie delle tragedie degli
altri.
Pubblicato su quinlan.it il 02/25/2020, di Raffaele Meale
Nessun commento:
Posta un commento