Lo avevano già fatto Coppola (Sulle ali dell’arcobaleno, Un sogno lungo un giorno), Scorsese (New York, New York), De Palma (Il fantasma del palcoscenico), Altman (Nashville, Radio America). Lo ha fatto tutta la vita Demme. Del gruppo dei più grandi cineasti emersi tra la seconda metà degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, all’appello mancava solo Spielberg. Ma West Side Story è davvero il suo primo musical? Forse lo è integralmente se guardiamo alle forme classiche del genere a partire dagli anni Venti del secolo scorso. Ma tranne Scorsese e Coppola, negli altri casi ci sono travolgenti imperfezioni, contaminazioni. Tra Broadway e il film-concerto, tra il palcoscenico e la strada. Il cinema di Spielberg in passato è stato pieno di impurità musical: la comunicazione tra gli umani e gli extraterrestri di Incontri ravvicinati del terzo tipo, i movimenti danzanti di Harrison Ford nei quattro film su Indiana Jones e di Leonardo DiCaprio in Prova a prendermi, i sogni impossibili con le luci dell’aldilà di Always.
West Side Story ha il look del remake fedelissimo. In parte
lo è, in parte no. E in parte Spielberg se ne è impossessato con una
grandissima, incontrollata, immensa dichiarazoone d’amore al genere. Come nel
musical del 1961 dell’accoppiata Robert Wise-Jerome Robbins che ha avuto un
grandissimo successo e ha vinto 10 Oscar che è arrivato poco prima della grande
crisi del genere e l’arrivo della New Hollywood, al centro della vicenda si
frontaggiano sempre due bande rivali per il controllo del territorio. Da una
parte ci sono i Jets, immigrati europei di seconda generazione. Dall’altra gli
Sharks, un gruppo di portoricani arrivati a New York di recente. Mentre i
quartieri della città sono in piena trasformazione urbanistica, ad alimentare
ancora di più lo scontro tra le due gang c’è l’incontro tra Tony e Maria. Lui è
il co-fondatore dei Jets da cui si è allontanato dopo essere stato in carcere e
ora lavora da Doc’s, il negozio gestito da Valentina. Lei è la sorella di
Bernardo, aspirante pugile e leader degli Sharks che ha già pensato di
accasarla con il timido Chino da cui non è attratta. Si vedono al ballo e tra
loro scatta subito il colpo di fulmine. Come Romeo e Giulietta, il loro è
subito un amore contrastato. Ma si amano alla follia e faranno di tutto per raggiungere
la felicità.
West Side Story è un film sulla memoria. Del cinema, dello
stesso Spielberg. Comincia come il musical del 1961 con l’inquadratura della
metropoli dall’alto. Stavolta c’è l’immagine delle gru e gli edifici in
demolizioni in uno spazio dove stanno per sorgere nuovi quartieri. È il 1957.
Un altro viaggio nel tempo, come quelli che hanno segnato gran parte del suo
cinema, da 1941. Allarme ad Hollywood a Il colore viola, da L’impero del sole,
a Schindler’s List, Salvate il soldato Ryan e Munich. Ma è anche un viaggio nella memoria di Spielberg, da quando
aveva ascoltato per la prima volta le canzoni sul disco quando il regista aveva
10 anni. “West Side Story – ha detto il regista- è stato il primo album di musica popolare
entrato in casa. Non riuscivo a smettere di ascoltarlo”
Gli occhi di Spielberg oggi sono ancora quelli di un
ragazzino incantato. Il musical di Broadway del 1957 viene rivisto attraverso i
suoi occhi con la stessa sorpresa, lo stesso incanto dei protagonisti di E.T.
davanti all’alieno o di Jurassic Park e Il mondo perduto davanti ai dinosauri.
La sua versione è insieme un melodramma disperato e un film politico che
racconta molto dell’America di oggi sull’immigrazione dell’era Trump e sulle
violenze della polizia. Innanzitutto, contrariamente al film del 1961, ci sono
molti giovani attori di origine ispanica. Poi
c’è il personaggio transessuale di Anybodys interpretato da Iris Menas.
Infine c’è un nuovo numero musical, La Borinqueña, che è l’inno portoricano
scritto nel 19° secolo dopo una delle prime grandi rivolte popolari per
l’indipendenza del paese nel 1868. Ma è anche, e soprattutto, una danza, di
suoni, musica e colori, dove la fotografia di Janusz Kaminski crea uno
spettacolo pirotecnico tra riflessi sul pavimento, le ombre sul lenzuolo nel
bacio tra Bernardo e Anita (il cinema dietro lo schermo), le luci che si
riflettono nell’acqua o l’immagine di Maria (bravissima Rachel Zegler, al suo
primo film, nel ruolo che è stato di Natalie Wood) davanti allo specchio mentre
si mette il rossetto.
West Side
Story è pura magia. Violento ed emozionante. C’è la versione originale
con tutto il cuore di Spielberg con la passione che, nei celebri numeri Maria e
Tonight – con Tony che si arrampica sul balcone e tutta la seduzione e la
passione sono filmati con i volti separati dalla griglia della scala che li
tiene separati – divampa e diventa incontrollabile. Spielberg mostra lo stupro
e la morte come in un film di guerra, dialoga continuamente con il film
precedente anche con il il corpo di Rita Moreno che nel film di Wise-Robbins
era stata premiata come miglior attrice non protagonista per il personaggio di
Anita e qui invece interpreta Valentina, la proprietaria del negozio dove
lavora Tony che sostituisce il personaggio di Doc nella versione del 1961. Ma
poi lascia riemergere la storia dall’ombra come Lincoln, ritrova l’euforia del
genere con i cocomeri sganciati dal camion dove gli oggetti giocano e ballano
come in un film di Gene Kelly e Stanley Donen.
I protagonisti potrebbero uscire dallo schermo e ballare con
noi, a cominciare da Ansel Elgort che ci sposta da una direzione all’altra come
al volante di Baby Driver. Tra ombra e
luce, desiderio e malinconia, West Side Story è uno dei più bei musical di
sempre. Non è più un omaggio al genere, non si tratta di nessuna esercitazione.
Sono tutti i sogni di Spielberg bambino che si mescolano con quelli dei suoi
personaggi bambini. Così il cinema più serio e politico del regista e quello
più giocoso e infantile trovano stavolta l’abbraccio più bello.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 20 Dicembre 2021 di
Simone Emiliani
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