Opera totale, che discioglie in un unico flusso dramedy
d’epoca, musical e horror, I peccatori di Ryan Coogler segna il ritorno del
regista a un cinema più personale, in cui sembrano amalgamarsi le sue
esperienze più recenti nel mainstream americano con un disegno autoriale e
politico. Film che ragiona su cultura black e industria, su libertà e
omologazione, conservando un robusto impianto di entertainment intelligente e
critico. Michael B. Jordan protagonista in un doppio ruolo.
Primi anni Trenta,
Delta del Mississippi. I gemelli neri Smoke e Stack ritornano nella propria
città d’origine dopo essersi arricchiti a Chicago tramite esperienze nella
malavita. I due sono intenzionati ad aprire un juke joint, locale adibito a
liberatori intrattenimenti di musica e danze per una clientela esclusivamente
nera. Smoke e Stack assoldano i migliori musicisti black della zona, fra i
quali il giovane cugino Sammie, prodigio della chitarra. Nella zona però si
aggirano strani esseri assetati di carne umana, che la sera dell’inaugurazione
del locale si presentano minacciosi alla porta. [sinossi]
Diciamolo subito. Le metafore e allegorie di I peccatori,
quinta regia in lungometraggio per il non prolificissimo Ryan Coogler, non sono
esattamente inedite. Vi è una nuova scia creativa di black cinema USA che
nell’ultimo decennio è impegnata a riflettere sulla storia degli afroamericani
contaminando, spesso con esiti più che positivi, riflessioni d’autore e cinema
di consumo. In tale direzione Jordan Peele ci ha dato opere molto apprezzabili.
Dopo un ottimo esordio (Prossima fermata Fruitvale Station, 2013) Ryan Coogler
si è fatto tentare volentieri dal cinema mainstream, prima con Creed (2015),
poi con il dittico Marvel di Black Panther (2018 e 2022). A ben vedere, pure la
riproposizione della saga di Rocky Balboa, con spostamento del focus
sull’universo black del nuovo protagonista Adonis Creed, assume intenzioni più
autoriali di quanto poi effettivamente realizzato. Al di là del Mito tutto
americano del self-made-man riletto dal basso del proletario Rocky, la saga
ideata da Sylvester Stallone è anche piantata fino al tallone in un universo
indubitabilmente bianco – dove peraltro, almeno nei primi capitoli, il black
Apollo Creed impersonato da Carl Weathers assume i tratti di antagonista
ribaldo, arrogante e antipatico. Con Creed invece Ryan Coogler rovescia la
prospettiva, inserendo in una consueta struttura di quest americana il trionfo
sociale, grazie allo sport, di un giovane black dall’infanzia complicata. La
rilettura operata da Coogler è robustamente industriale e commerciale, ma anche
frutto di una cosciente riflessione e di una sotterranea provocazione.
Corpo cinematografico, in senso proprio e figurato, della
filmografia di Coogler è Michael B. Jordan, attore dagli esiti altalenanti che
tuttavia, nelle sue collaborazioni con l’amico regista, enfatizza fino allo
spasimo l’accento sulla propria fisicità. Il corpo black c’è, si impone in
tutta la sua evidenza. È anche un’implicita rivendicazione di esistenza.Alle
ultime battute di I peccatori il gioco si fa pure platealmente
autoreferenziale. Nell’abbattimento del tempo e dello spazio innescato dalla
musica indiavolata protagonista del film, ci vuole un attimo a dismettere i
panni dei due gemelli Smoke e Stack, azzimati black anni Trenta socialmente
emancipati a suon di denaro non pulitissimo, e a trasformarsi in un eroe action
che sembra provenire direttamente dal cinema anni Ottanta – e non mancano
richiami al cinema di Romero, Carpenter e Dante, compreso il rudimentale
aspetto visivo dei mostri che si palesano lungo il racconto. I peccatori
sceglie infatti, prima di tutto, la via della contaminazione. È dramma d’epoca,
musical e horror, saldamente intrecciati in una sceneggiatura di solida e
intelligente costruzione. E quantomeno dimostra – vivaddio – che nel sempre più
omologato cinema mainstream americano c’è ancora qualcuno che prima di ogni
altra cosa si preoccupa ancora di scrivere bene. Dopo varie esperienze con
prodotti convenzionali Ryan Coogler sembra compiere una sorta di ritorno a se
stesso, innestando in una consueta macchina produttiva hollywoodiana un
progetto filmico decisamente personale. I peccatori ha tutto l’aspetto di un
film sentito, intimo, che si fa forte dei ricchi strumenti dello spettacolo
americano resi funzione di un disegno autoriale. Il film di Coogler è meno
algido ed estetizzante rispetto alle opere di Jordan Peele, ma lavora molto più
sulla parola, mostrando una cura particolare nel ricamo dei dialoghi e dei
personaggi. È vero, come qualcuno ha detto, che spesso è arduo distinguere i
due gemelli Smoke e Stack, non fosse che per gli eleganti abiti rispettivamente
indossati e caratterizzati da differenti dettagli cromatici. Michael B. Jordan
li incarna quasi allo stesso modo, uno e bino, ma alla resa dei conti non è
importante.
Chi sono i peccatori? Sono i musicisti black dell’America
anni Trenta, che secondo antiche credenze, direttamente filiate dalle
ancestrali discendenze africane, possono infrangere tramite le infuocate
tonalità del blues gli steccati fra vita e morte, fra aldilà e aldiquà, fra
passato e presente. La forza esoterica della musica, del resto, non attiene
soltanto all’ambito africano. Da sempre, fin dagli antichi greci, musica e
danza fanno parte integrante del rito e del dialogo con il sovrannaturale. I
peccatori prende le mosse alla lontana dalla vicenda di Robert Johnson, figura
fondamentale del delta blues anni Trenta, morto in circostanze misteriose a
soli ventisette anni, che, come leggenda narra, vendette l’anima al diavolo in
cambio di prodigiose capacità musicali. Johnson è adombrato nella figura di
Sammie, giovane coprotagonista del film, assoldato dai gemelli Smoke e Stack,
insieme ad altri musicisti black, per inaugurare un juke joint, luogo di libera
e scatenata festosità esclusivamente riservata a clientela di colore. Una sorta
di zona franca all black, dove poter dare sfogo a orgiastiche sarabande in
implicita reazione alla quotidiana oppressione bianca operata su masse di
lavoratori neri ed emarginati. Per una buona metà I peccatori ha tutto
l’aspetto di un consueto dramedy d’epoca, in cui gli scaltri gemelli Smoke e
Stack sono riusciti ad arricchirsi ed emanciparsi soltanto tramite esperienze
malavitose nella Chicago anni Venti di Al Capone. Coogler sceglie i tempi
lunghi di introduzione al racconto, attardandosi distesamente nei rapporti di
forza fra i numerosi personaggi e dando vita in tal senso a una crescente
suspense in attesa dell’esplosione dell’horror. Ma chi saranno i portatori di
horror? Strani vampiri bianchi, in parte apparentati con il Ku Klux Klan,
contaminanti e affamati di carne umana. Come si sa, il morso di vampiro
assimila la vittima allo stesso destino di non-morto. Il morso di vampiro è
contagioso. La musica indiavolata del juke joint ha rotto gli argini fra vita e
morte, fra aldilà e aldiquà. I vampiri si presentano alla porta e attendono di
essere invitati a entrare. È il primo passo verso l’assimilazione. Piegando a
intenti fortemente politici sia la ricchezza mainstream del cinema americano
sia le risorse spettacolari del cinema di genere, Coogler sembra voler
riflettere sull’operazione di assimilazione culturale e artistica che
l’universo black ha subito nell’ultimo secolo di storia, vittima di intensa
vampirizzazione da parte dell’industria bianca che ne ha anche neutralizzato
l’enorme potenziale di disgregante provocazione. Al di là delle regole di
genere, i vampiri devono essere invitati a entrare, scenario che evoca una
sorta di errore primario nella comunità black ad aver permesso l’invasione bianca
nel loro mondo espressivo.
Dal canto loro, i vampiri bianchi alla porta tracimano di
invidia e desiderio di possesso. Nulla deve sfuggire al loro controllo, nemmeno
gli sparuti territori di libertà garantiti da un juke joint, che peraltro
assumono tutti i tratti di una finta libertà strettamente condizionata a una
desolante autoghettizzazione. L’integrazione è una truffa, pare voglia dire I
peccatori fra le righe. L’integrazione è l’anticamera di una nuova forma di
prigionia, che sostituisce le catene alle caviglie con la neutralizzazione di
un’intera cultura. A un certo punto, nella guerra fra musiche contrapposte,
Coogler non disdegna nemmeno note grottesche – i balletti di matrice irlandese
sono a tratti esilaranti. E certo, a metà del racconto si apre con impeto
maestoso l’ariosa sequenza, già ampiamente celebrata, in cui la musica rompe
qualsiasi confine spazio-temporale – in un piano sequenza sostenuto dal
digitale ballano e suonano insieme le epoche più disparate. La potenza
sovrannaturale della musica squarcia pure i confini temporali degli stili
cinematografici. Cosicché, alle ultime battute della feroce battaglia con i
vampiri, Michael B. Jordan abbandona rapidamente i panni dei gemelli anni
Trenta per trasformarsi in eroe action anni Ottanta, canottiera e armi in
spalla. Un ulteriore gioco, di fatto, con le retoriche di un cinema industriale
che ha imposto precise convenzioni anche ad attori black impegnati sui set
d’azione. Assimilati in tutto, pure nella possente fisicità di eroi alla
Schwarzenegger. Del resto, si è peccatori rispetto alla cultura bianca del
cristianesimo, calata dall’alto sulla popolazione di colore e a sua volta
assimilata come incarnazione dell’ideologia dominante. La musica blues è
sacrilega, è rottura viscerale e ancestrale, letteralmente indiavolata.In tempi
come quelli attuali, segnati dal secondo mandato di Donald Trump alla
presidenza americana, I peccatori si delinea quindi per una vibrante risposta
alle neo-retoriche suprematiste che negli ultimi anni hanno trovato una via
allo sdoganamento tramite un più o meno velato processo di
istituzionalizzazione.
Con il fondamentale contributo della colonna musicale di
Ludwig Göransson (un vero e proprio connubio espressivo fra cinema e musica),
Coogler riflette in sostanza su società e industria. Nella progressiva
integrazione sociale degli afroamericani è avvenuto anche, pare voglia dire I
peccatori, un graduale processo di cooptazione e addomesticamento della loro
cultura, affascinata dal miraggio di una maggiore visibilità e accettabilità a
spese della propria carica dirompente. Fra le righe Ryan Coogler sembra parlare
anche di se stesso, autore dagli esordi improntati a una solida sensibilità
sociale (Prossima fermata Fruitvale Station) e in seguito ammaliato da
esperienze mainstream fino alle incursioni nell’universo Marvel. Una sincera
messa in discussione del proprio vissuto cinematografico, interpretato come
ulteriore compromesso con un sistema produttivo che non lascia molte vie di
scampo. Nella mirabile sequenza finale, posizionata infra-titoli di coda,
Michael B. Jordan ritorna in scena con un ennesimo camuffamento mainstream, con
capigliatura e abbigliamento modaiolo da black inizio anni Novanta, altro
costume di scena scaturito da un compromesso con l’industria addomesticante
dell’epoca. Per una sera siamo stati liberi. Una sola serata, in una vicenda
umana di secoli, in cui ha brillato un barlume di vera autodeterminazione
culturale.
Pubblicato su quinlan.it, 21/04/2025 by Massimiliano Schiavoni
Di chitarre, vampiri e armonie blues. Gli strumenti qui,
così come i brani, mutano improvvisamente in veri e propri portali, permettendo
ai vivi di danzare coi morti e viceversa, fino a rompere irrimediabilmente
regole ed equilibri di un nuovo (e vecchio) mondo, mai così accecato dalla
violenza e dall’impossibilità del perdono. L’America degli anni ’30 de I
peccatori, quinto lungometraggio da regista del Ryan Coogler di Creed – Nato
per combattere e The Black Phanter, non è altro che un limbo. Una terra sospesa
che appartiene a tutti e nessuno, nella quale ancora vige la legge del più
forte e il debole, o presunto tale cerca rifugio dove può. Chi nel lavoro, chi
nella famiglia e chi, come il giovane Sammie nella musica.
Cos’è però che determina la forza? Il passato, il presente
oppure il futuro? Quello che è certo, è che la forza qui non appare
incontrastata; al contrario, è messa alla prova dalle conseguenze estremamente
scomode e dolorose della perdita, dell’abbandono e del ritorno. Tanto alle
terre che un tempo sono state “casa”, quanto ai ricordi che ancora pulsano
sotto pelle, nel sangue, tenuti a bada da ferite ormai rimarginate e cicatrici
dure a svanire. Per i gemelli Smoke e Stack – Michael B. Jordan alle prese con
un doppio ruolo di indubbia intensità e fisicità – crescere in Mississippi è
stato un vero calvario, tanto da costringerli alla fuga.
Sappiamo poco del loro passato. Immerso in una nube di
polvere che nessuno mai potrà diradare. Figlia dell’America dell’odio, incapace
di tollerare e sempre più sedotta dal sangue e dalla rabbia. Eppure qualcuno
può ancora farsi carico dello svelamento, cioè chi è rimasto. Gli abitanti di
Clarksdale infatti non mentono, portando con sé i segni del tempo e di tutto
ciò che è stato, quando chi ha potuto è fuggito, convincendosi ingenuamente di
seppellire il passato, che inevitabilmente torna. Torna sempre.
Di chitarre, vampiri e armonie blues. Gli strumenti qui,
così come i brani, mutano improvvisamente in veri e propri portali, permettendo
ai vivi di danzare coi morti e viceversa, fino a rompere irrimediabilmente
regole ed equilibri di un nuovo (e vecchio) mondo, mai così accecato dalla
violenza e dall’impossibilità del perdono. L’America degli anni ’30 de I
peccatori, quinto lungometraggio da regista del Ryan Coogler di Creed – Nato per
combattere e The Black Phanter, non è altro che un limbo. Una terra sospesa che
appartiene a tutti e nessuno, nella quale ancora vige la legge del più forte e
il debole, o presunto tale cerca rifugio dove può. Chi nel lavoro, chi nella
famiglia e chi, come il giovane Sammie nella musica.
Cos’è però che determina la forza? Il passato, il presente
oppure il futuro? Quello che è certo, è che la forza qui non appare
incontrastata; al contrario, è messa alla prova dalle conseguenze estremamente
scomode e dolorose della perdita, dell’abbandono e del ritorno. Tanto alle
terre che un tempo sono state “casa”, quanto ai ricordi che ancora pulsano
sotto pelle, nel sangue, tenuti a bada da ferite ormai rimarginate e cicatrici
dure a svanire. Per i gemelli Smoke e Stack – Michael B. Jordan alle prese con
un doppio ruolo di indubbia intensità e fisicità – crescere in Mississippi è
stato un vero calvario, tanto da costringerli alla fuga.
Sappiamo poco del loro passato. Immerso in una nube di
polvere che nessuno mai potrà diradare. Figlia dell’America dell’odio, incapace
di tollerare e sempre più sedotta dal sangue e dalla rabbia. Eppure qualcuno
può ancora farsi carico dello svelamento, cioè chi è rimasto. Gli abitanti di
Clarksdale infatti non mentono, portando con sé i segni del tempo e di tutto
ciò che è stato, quando chi ha potuto è fuggito, convincendosi ingenuamente di
seppellire il passato, che inevitabilmente torna. Torna sempre.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 17 Aprile 2025 di Eugenio
Grenna
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