That's entertainment…il brano
dei Jam di Paul Weller, purtroppo, c’entra poco o nulla con queste tre diverse
interpretazioni di action movie, anzi due e mezza, dato che il film di Affleck,
oltre che basarsi su un fatto storico, ha un registro decisamente diverso dai
film di Stone e Mendes.
“Skyfall (2012)” lo attendevo
con una certa curiosità, proprio per aver affidato alla mani dell’autore di “American
Beauty (1999)” (soprattutto dello splendido “Revolutionary Road (2008)”, cosi
come dell’ottima commedia “Away we go (2009)” da noi passata praticamente in
sordina) la nuova avventura di 007, reincarnato
per la terza volta in Daniel Craig. Il
risultato rimane inalterato, non fatevi trarre in inganno da roboanti
recensioni che lo annunciano come una rivoluzione della saga bondiana. A parte
il villain, per la prima volta gay,
di Javier Bardem e la sete di vendetta personale, gli acciacchi e l’incalzare
dell’età che porta fino alle lacrime
l’agente segreto meno segreto del mondo,
umanizzandolo rispetto ai precedenti Connery/Moore/Brosnan, “Skyfall”
rimane il solito film infarcito di spari, sbadigli (miei), inseguimenti, belle fighe e paesaggi più o meno esotici.
Il film di Stone vede
muoversi, sugli sfondi assolati e perennemente vacanzieri della California del
Sud, la coppia di giovani e ricchi commercianti della “migliore marijuana del mondo”, Ben e Chon. Amici fraterni, condividono tutto, dalla villa
all’amore per la concubina Ophelia; Chon, ex marine, ha riportato i primi semi
dall’Afghanistan, e Ben, botanico e buddista, ne ha ricavato un prodotto
eccellente, viatico per ricavarne migliaia di dollari, così come per alleviare
il dolore dei malati terminali. La vita idilliaca del trio viene interrotta quando
un brutale cartello di trafficanti messicani non decide di fare affari con
loro, che lo vogliano o meno. Il rifiuto dei due di collaborare con il
cartello, guidato dalla Regina (Salma
Hayek), darà il via ad una serie di ricatti, violenze più o meno efferate per liberare Ophelia, rapita dai messicani
proprio per farli cedere ed accettare la joint-venture criminosa. Tra agenti
della Dea corrotti (John Travolta) e killer spietati (Benicio Del Toro), “Le
Belve (Savages, 2012)” riporta Stone ai tempi di “Natural Born Killers (‘94)” e
“U Turn ( con Sean Penn e Nick Nolte, ‘97)”, alla propria rilettura del noir,
infarcita dei soliti personaggi borderline e spesso sopra le righe. Se “Assasini nati-Natural Born Killers”, per
quanto sopravvalutato, utilizzasse un linguaggio che vent’anni fa poteva essere
interessante, per “Le Belve” la domanda che mi è sorta spontanea appena
terminata la visione è stata quanto
abbiamo bisogno di questi film, diventati ormai una sorta di (in)volontario
stereotipo del genere. Dai citati film di Stone alle eccezionali opere di
esordio di Tarantino, lo pseudo-noir (almeno così mi piace definirlo) si è
avvinghiato su se stesso, diventando, non necessariamente, iperadrenalico come
in questo caso o, cosa assai peggiore, clonando situazioni, personaggi e
dialoghi che non colpiscono più nessuno
– da “Slevin (di P. McGuigan, ’07)” per arrivare al “Killer Joe”
di Friedkin. Per quanto riguarda Don Winslow, lo scrittore assurto a star
del genere, dal cui libro è
stato tratto, consigliatissimo “Il Potere Del Cane (Einaudi, ‘09”)”, durissima
e avvicente saga sui cartelli messicani della droga. Per gli altri libri vale, ovviamente per il sottoscritto, la stessa considerazione espressa per il film di Stone.L’opera migliore del lotto è indubbiamente “Argo (2012)”, pur palesando quel gusto retorico del comunquenoisiamoimigliori di cui ogni americano sembra essere intriso fino al midollo, anche quando denuncia episodi sporchi e scottanti della recente storia statunitense.
Nel 1979,
l'ambasciata americana in Iran viene invasa dai rivoluzionari iraniani e gli americani sono presi in ostaggio. Tuttavia sei riescono a scappare e nascondersi
nella residenza ufficiale dell'ambasciatore
canadese e la CIA è incaricata di farli uscire dal paese. Con poche
opzioni e tempo a disposizione, l’esfiltratore (se siete
curiosi del termine, cercatavelo…) Tony Mendez (Affleck)
escogita un piano curioso e audace:
creare un film canadese di fantascienza, Argo, da girare in Iran, e far
passare i sei come
il suo team di produzione. Con
l'aiuto di alcuni contatti di
Hollywood, come il premio Oscar per gli effetti speciali
John Chambers (John Goodman) e il produttore Lester Siegel (Alan Arkin),
Mendez crea l'inganno
e procede verso l'Iran come produttore associato. Nonostante i due giorni di tempo disponibili a
Teheran, con le forze di
sicurezza iraniane sempre più vicine alla scoperta di
dove siano nascosti i sei terrorizzati fuggitivi, e i dubbi della Casa Bianca sull’annullamento
dell’operazione, Mendez riesce nell’impresa sul filo del rasoio.
Alla terza
prova da regista, che segue il successo del notevole poliziesco “The
Town” di due anni fa, Affleck azzecca anche questa volta volti e ritmi,
romanzando un’operazione (Argo per l’appunto) resa nota al mondo, solo anni
dopo dall’accaduto, dall’amministrazione Clinton. I pregi sono quelli
dell’ottima messa in scena, sia quando si tratta di descrivere la parte
hollywodiana della realizzazione del finto film, con interventi ironici
stranamente non fuori luogo, che della suspense della fuga, tra le incertezze e
la tensione dei fuggitivi e i controlli ai checkpoint dell’aeroporto da parte
della Guardia islamica.
Come spesso
accade per questo tipo di progetti, rimane comunque in bocca quel gusto amaro
per non aver osato di più, come in certa cinematografia aggressiva della
Hollywood degli anni '70 fatta da registi come Sidney Lumet (gli
eccellenti “Quel pomeriggio di un giorno da cani” del ‘75 o “Quinto potere” 1976,
solo per citarne alcuni) o Alan Pakula (“Perché un assassinio” del ’74 e “Tutti
gli uomini del presidente, ‘76).
Dato che di denuncia
della politica estera degli Stati Uniti si tratta, allora valeva la pena di
arrivare fino in fondo. L’assalto all’ambasciata americana fu generato, dopo un
anno dall’instaurazione di Khomeini e dal rovesciamento dello scià Pahlavi, dal
rifugio che gli USA offrirono a quest’ultimo e che loro stessi, insieme alla
Gran Bretagna, aiutarono nell’insediamento alla guida dell’Iran per circa 30
anni, dopo il rovesciamento del laico M. Mossadeq. Il tutto, ovviamente, per
riprendersi gli impianti di petrolio nazionalizzati da Mossadeq e lasciare
spazio al regime del terrore di Pahlavi, fatto di polizia segreta e torture. Per carità, questo viene quasi urlato nell'ottimo incipit, ma nel finale si avverte comunque il messaggio che l'America e gli americani sono sempre in grado di farcela, a scapito del fondamentalismo come nel rimediare ai propri, terribili, errori e disastri.
Affleck
suscita l’impressione delle prime
prove di Eastwood da regista, toccando diversi generi con sapienza, alla
ricerca di una propria identità autoriale, ma la strada intrapresa sembra
quella ottimale.
p.s. : That's Entertainment! è anche il titolo di un film del 1974 , una compilation dei musical prodotti dalla M.G.M. per la celebrazione del proprio 50° anno...ho sempre odiato i musical...
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