Trent’anni dopo aver servito insieme in Vietnam, l’ex medico della
marina Larry “Doc” Shepherd incontra di nuovo i suoi compagni, l’ex
Marine Sal Nealon e il Reverendo Richard Mueller, per dare degna
sepoltura al figlio di Doc, un giovane marine rimasto ucciso nella
guerra in Iraq. Con l’aiuto dei suoi vecchi amici, Doc intraprende un
viaggio verso la East Coast per riportare il figlio a casa. Nel
tragitto, i tre ricordano il loro passato componendo un mosaico di
memorie comuni e riflessioni sul passare del tempo.
Non è ancora prevista una data di uscita in Italia
Per quanto possa sembrare paradossale, Last Flag Flying sembra una
revisione del tracciato narrativo edificato trenta anni fa da John
Hughes con Un biglietto in due. Nel 1987 la strana coppia Steve
Martin/John Candy attraversava gli Stati Uniti passando da un mezzo di
locomozione all’altro e imparava a conoscersi, a ri-conoscersi e a
provare sentimenti sperduti nell’etica yuppie quali empatia, affetto,
consapevolezza di classe; oggi Richard Linklater torna alla regia per
raccontare l’incontro nel 2003 di tre ex commilitoni, fermi alla memoria
del tempo passato insieme sotto le armi, in Vietnam: uno di loro, il
più giovane, ha ricevuto la notizia della morte dell’unico figlio in
Iraq, e vuole il conforto di quelli che un tempo erano i suoi fratelli
più cari per vivere il lutto fino alla sepoltura, nel mausoleo per e
forze armate di Arlington, in Virginia. Hughes raccontava il disperato
viaggio per raggiungere in tempo la cena del Ringraziamento, passando da
New York al Kansas, dal Missouri a Chicago: l’America profonda, quella
dei redneck che consegnarono la nazione a Reagan e più recentemente a
Donald Trump. Il viaggio di Larry Shepherd – chiamato Doc dagli amici –
con Salvatore e Mueller, diventato negli anni predicatore battista, si
muove invece tutto sulla costa est, dalla Norfolk in cui Sal gestisce
uno scalcinato pub senza troppi avventori fino alla già citata
Arlington, per poi passare dal Delaware, New York e Boston fino al New
Hampshire. Il tentativo è dunque quello di tracciare una topografia
dell’America ancora ferita dall’attentato alle Twin Towers e immerso
fino al collo nel conflitto armato in Iraq: nel clima pre-natalizio
arriva la notizia dell’arresto di Saddam Hussein, capo indiscusso di una
nazione che si rifugia in un buco di ragno per salvarsi, come commenta
con disprezzo ma non poca mestizia Sal.
Richard Linklater, e dopo diciannove lungometraggi diretti sarebbe
giunto il momento di riconoscerlo al di là di ogni dubbio, è uno dei
principali cantori contemporanei degli States: come tutti i veri cantori
non è mai agiografico, non si lascia condurre per mano dalla retorica e
non si limita mai a credere alla “versione ufficiale”. Ed è proprio sul
tema della verità negata, della necessità o meno di ricorrere alla
bugia, che Last Flag Flying gioca le sue carte: da un lato un governo
che mente spudoratamente ai propri cittadini, inventando prove per poter
giustificare una guerra, guerra in cui verranno mandati a morire i
figli delle classi meno abbienti, ovviamente. Dall’altra parte della
barricata c’è però una verità che non può essere detta a cuor leggero,
perché è una verità che riguarda la morte di un figlio, del migliore
amico, di qualcuno che era parte integrante della vita. E una bugia può
essere l’unica verità raccontabile, come testimonia la straziante
sequenza che vede i tre ex commilitoni rintracciare la madre oramai
anziana (e bisnonna) di un ragazzo che avevano visto morire in Vietnam
tra mille dolori perché la morfina era stata finita proprio da loro, per
sballarsi al punto da non capire più dove erano, in quale inferno si
erano cacciati, un inferno in cui l’area posticcia dei bordelli era
chiamata amichevolmente Disneyland per cercare di evadere da una realtà
che nessuno avrebbe potuto reggere a lungo.
La memoria di quell’incubo è in qualche modo anche l’unica àncora di
salvezza di tre uomini che non sono mai stati davvero in grado di
integrarsi nel paese nel quale hanno fatto ritorno: conservano
l’orgoglio per la Marina, anche se Larry è stato congedato con disonore
per essersi caricato la colpa condivisa con Mueller e Sal, e conservano
l’idea di un corpo che dovrebbe difendere l’America dalla minaccia
nemica, prima il comunismo e poi l’islam. Ma il condizionale è
d’obbligo, perché a San Diego i rossi non sono mai sbarcati, e lo stesso
sta avvenendo con i popoli del medio-oriente. L’America di Last Flag
Flying è un’America spaventata, traumatizzata da una guerra dopo
l’altra, costretta a vivere in una paura che non ha alcuna ragion
d’essere, se non per la preservazione di un organismo statale che per il
resto sembra sfaldarsi sempre di più. Come già in Fast Food Nation e a
ben vedere in Boyhood, Linklater si interroga anche sul concetto stesso
di patria, sul valore che un termine simile può acquistare a seconda
delle diverse storie personali e delle diverse sensibilità. Tutti in
Last Flag Flying amano in maniera viscerale gli States, ma di volta in
volta il corpo di questi States si fa diverso, mutevole, come un profilo
che si cerca di disegnare a mente, e si ha davvero chiaro solo quando
si chiudono gli occhi: l’America di Sal – lo stesso nome del Sal
Paradise/Kerouac di On the Road – è ancorata a ideali che sono stati
smentiti da troppi corpi, da troppi cadaveri con il volto sfigurato come
il ragazzo di Larry; quella di Mueller è rinchiusa nel piccolo e forse
anche pacifico mondo della sua chiesa, e della sua famiglia devota e
religiosa; è Doc a essere il più sfiduciato e indifferente, scioccato
dalla perdita della moglie per cancro e solo pochi mesi dopo del figlio
sul campo di battaglia. Anzi, del figlio inevitabilmente eroe (come
altro si potrebbe giustificare una guerra, altrimenti?) ma in realtà
morto per una fucilata alla nuca mentre andava a comprare un po’ di coca
per i suoi amici.
In un film costruito come un piccolo miracoloso puzzle di dialogo in
dialogo, Linklater ha la fortuna di potersi affidare a un trio d’attori
in forma smagliante, con un trattenuto e dolorosissimo Steve Carell a
spadroneggiare la scena: attraverso loro, e lo script scritto dal
regista insieme a Darryl Ponicsan (di quest’ultimo dopotutto il
materiale di partenza, un romanzo pubblicato nel 2005: non è la prima
volta che il novellista si “ricicla” nelle vesti di sceneggiatore, visto
che nel 1973 scrisse per Mark Rydell Un grande amore da 50 dollari),
prendono vita tre psicologie tutt’altro che semplificate o banali,
complesse, costruite a strati come le diverse esistenze che hanno
affrontano nei loro decenni sulla Terra. Uomini in fuga da loro stessi,
prima di tutto, fuori dal tempo: gli sketch che riguardano la scoperta
della telefonia mobile non solo non sono fini a loro stessi, ma
tranciano la realtà in due metà, ponendo i tre nella zona più oscura,
liminare, sconfinata – nel senso di fuori dai confini. Per quanto siano i
primi a non esserne consapevoli, Sal Doc e Mueller sono tre figure
borderline, tre reietti che non hanno più nulla tra le mani: gli
affetti, anche quelli, gli vengono strappati via.
Il loro ostinato viaggio contro la volontà dell’esercito – che vorrebbe
il cadavere del figlio di Larry sepolto con tutti gli onori del caso ad
Arlington, in quel cimitero bianco come la colomba della pace e privo di
ombreggiature di qualsiasi tipo – è una forma di resistenza che ha il
sapore del tempo andato, e che possiede un furore classico che lo pone
in ogni modo fuori dal moderno, dall’odierno, da contemporaneo. Dopo
aver narrato generazioni che ambivano ancora a un sogno da poter rendere
materiale (ma non è certo un caso che Dazed and Confused e Everybody
Wants Some!! siano entrambi ambientati nel passato), Linklater racconta
coloro che possono solo volgere indietro lo sguardo e cercare di capire
dove si è interrotto quel viaggio che li avrebbe dovuti condurre a quel
maledetto sogno, diventato sempre più un incubo. Lo fa con un tono
crepuscolare e ironico, in grado di penetrare in profondità nello
spettatore e condurlo per mano, con la nettezza e la pulizia di un
tracciato lineare, privo di sbavature, brillante e dominato da
un’intelligenza non comune. Sui titoli di coda un altro mesto
edificatore di sogni, Bob Dylan, canta: «Well my sense of humanity has
gone down the drain, behind every beautiful thing there’s been some kind
of pain; She wrote me a letter and she wrote it so kind, She put down
in writing what was in her mind. I just don’t see why I should even
care… It’s not dark yet, but it’s getting there». Anche l’umanità dei
tre protagonisti di Last Flag Flying è anno dopo anno scivolata nella
fogna, e se da quella fogna possono di nuovo uscire è solo contando su
quella che un tempo, mentre i proiettili volavano sulla loro testa,
poteva essere chiamata “una vera amicizia”. Quella che ti fa prendere la
macchina per viaggiare insieme a un uomo che non vedi da oltre trenta
anni, che ti fa pentire dei tuoi sbagli, che ti fa indossare un’uniforme
che avevi dimenticato nell’armadio. E che te la fa indossare sgualcita,
come fa Sal, perché l’ordine geometrico e impeccabile è dei rituali.
Rituali vuoti, privi dell’uomo. Bare viventi, simili a quelle che a
migliaia riportano indietro cadaveri di ragazzi morti – chissà perché,
chissà per cosa – dall’altra parte del mondo.
Pubblicato su quinlan.it il 29/10/2017 da Raffaele Meale
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