Arrivare a S. Margherita Ligure e ritrovarsi in una piazzetta
sul mare, pur se stretta tra uno dei numerosi hotel 4 stelle della località
ligure, e posta comunque al di sotto della strada trafficata e rumorosa del
periodo estivo, dovrebbe già mettere di buon umore, specialmente se quello
spazio viene dedicato ad un concerto jazz.
Il concerto era quello di un nuovo duo, composto da
Stefano Bollani, assurto, sicuramente per meriti propri, nell’olimpo delle
jazz-star internazionali, insieme al musicista Hamilton De Holanda, considerato
uno dei nuovi talenti della musica brasiliana, e “rivoluzionario” della choro (una piccola chitarra o mandolino, cui De
Holanda ha aggiunto una quinta doppia corda. Se volete notizie sul musicista brasiliano, la rete è pronta per deliziarvi).
Ero emotivamente ed acusticamente
ben preparato a ciò che mi si sarebbe prospettato dal punto di vista musicale,
ma quasi due ore di repertorio di Gilberto Gil, dell'immenso Morricone, brani dei due
autori, tutti filtrati attraverso una rilettura del suono brasiliano spesso più
facile, sono stati, concedetemelo, entusiasmanti sopratutto per le due anziane ed arzille
signore che dietro di me applaudevano come tarantolate.
Purtroppo non ho mai avuto la fortuna di vedere il
talento live di Bollani , espresso insieme ad artisti del calibro di C. Corea o
di Enrico Rava, ma solo di assistere a spettacoli molto ruffiani, pur non
avendo nulla da ridire sul tecnicismo di questo, credo, nuovo duo.
Ritornando sullo snobismo
e delle malefatte che può combinare, esprimo quello che ritengo anche, ma
non solo, dovrebbe essere la “missione” che un musicista di tale bravura e
talento dovrebbe avere il coraggio di fare: portare alla gente suoni meno noti
ai più ( e lo si è sentito in una rilettura al limite del free, fuori dal
contesto sonoro della serata, di un brano di B. Powell, che ha comunque
strappato gli applausi del pubblico), e non perdersi soltanto in un repertorio
da piano bar.
Trovo, a volte, più snobistico andare sul sicuro di ciò che il pubblico si aspetta (anche se ciò dipende da molti fattori, il luogo del concerto, ad esempio), piuttosto che azzardarsi verso percorsi inediti per la propria fedele platesa. È ovvio che spesso un musicista di tale rango sia portato, magari
anche dalla propria indole, dalla propria voglia di esprimersi, a non voler
andare a scavare nel repertorio del jazz d’avanguardia o di ricerca, cui peraltro
nessuno lo obbliga. Rimanere fedele, giustamente, alla musica popolare non
vuole dire essere solo ruffiani, ma a chi cerca qualcosa di “diverso” non può
rimanere soddisfatto di una esibizione, nutrita comunque da tantissimi applausi,
espressi per altro anche dal sottoscritto, soprattutto perchè il repertorio
della musica pop-olare mondiale, sia jazz o meno, è vasto e praticamente infinito.
Il jazz, che personalmente definisco da tappezzeria, stile Blue Note milanese, impera da anni a questa
parte, e fortunatamente non mi ritrovo da solo a voler sempre fare l’ipercritico
verso sonorità che di per se nascono già scontate.
Qualche anno fa, ad un concerto “solo” di Bollani, nella
cornice del nostro bistrattato teatro genovese Carlo Felice, ricordo che scappammo in molti, inorriditi, da
ciò che il jazzista milanese aveva incominciato a proporre, come un novello
bravo pianista della sala di una nave da crociera: cover a comando del pubblico,
da caroselli a sigle di cartoni animati.
Se un musicista jazz “’d’avanguardia” come William Parker,
ha inciso nel 2010 uno strepitoso e piacevolissimo live “I Plan To Stay A
Believer”, interamente dedicato al repertorio di Curtis Mayfield, pieno di
funky, allegria danzereccia, supportata anche da una fantastica e nutrita band,
non vedo il motivo perché altri non debbano esporsi a migrare il proprio sapere
verso un pubblico che li segue per altre
gesta musicali.
Da parte di Bollani, ma il paragone è valido anche per
altri nomi anche al di fuori della sfera jazzistica, non credo si debba avere
il timore o la classica diffidenza verso
tutto ciò che è nuovo e lontano da consolidate abitudini, quanto attingere ad
una riflessione verso il proprio pubblico, far conoscere loro qualcosa di
distante dallo standard cui li si è abituati. Credo che questo sia proprio il
reale significato di non essere snobistici, ma comunicare agli altri, che
esiste un mondo nuovo di sonorità
fino ad allora sconosciute, e che potrebbero rivelarsi ancora più entusiasmanti
per i padiglioni auricolari ed il cuore di chi non ha mai avuto la fortuna o la
voglia di avvicinarcisi. Se qualcuno avesse avuto la fortuna di ascoltare il
jazzista milanese in contesti ben diversi da quelli cui ho avuto la sfortuna di
inciampare, me lo faccia sapere, anche se questo non cambierà il mio giudizio
sullo spettacolo di ieri.
Non ricordo quale musicista classico si era espresso
in questo modo sul concetto della musica: non esiste bella o brutta musica, esiste solo buona o cattiva
musica.
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