Ultimo baluardo del cinema indie americano, Benny e Josh
Safdie, giunti al terzo lungometraggio di finzione, proseguono ardimentosi nel
loro percorso autoriale dissertando per immagini, in Diamanti grezzi (Uncut
Gems), su uomo e capitalismo, cosmo e denaro, mentre esplorano, ancora una
volta, il produttivo binomio tra supporto fisico (la pellicola) e performance
attoriale. L’incanto visivo della loro regia fluida e precisa, l’inventiva
narrativa di questa nuova odissea urbana e umana trafiggono gli occhi e
stimolano le sinapsi, con un continuo rimestare tra cellule e minerali, uomini
e cose, sentimenti e metafore, mentre il paradosso regna sovrano, dentro e
fuori dal film: Diamanti grezzi è girato in 35mm, visibile solo su Netflix.
Colori saturi e grana bene in vista, la pellicola
fotografata mirabilmente da Darius Khondji (Okja, Civiltà perduta, Amour,
Midnight in Paris, per citare qualche titolo) riserva momenti di puro piacere
visivo, tra improvvise tinte bluastre pronte a sprigionarsi dai neon delle
gioiellerie del Diamond District newyorkese, immersioni lisergiche nella
materia e una sorprendente sequenza sotto luci ultraviolette ambientata in un
locale notturno. Nuovo tassello di una già brillante carriera, Diamanti grezzi
prosegue l’indagine umana dei due registi ampliandone la portata metaforica,
senza offrire, come d’abitudine, alcuna morale o messaggio pre-confezionato sul
protagonista e le relative vicende. Se il precedente Good Time lambiva i toni
del dramma sociale statunitense e concedeva a Robert Pattinson di esprimersi in
una prova fisica ai limiti dello slapstick, in Diamanti grezzi la scena è
stabilmente governata da Adam Sandler, la cui parlantina tonitruante in slang
ebraico-newyorkese, accompagnata dall’appropriata gestualità nervosa,
costituisce la vera forza centrifuga di ogni singola inquadratura. Recitando
costantemente tra i denti, questo stand up comedian raffinato e brutale offre
allo spettatore prova costante del suo talento attoriale, opportunamente
esaltato dalla devozione che i due registi gli dedicano senza sosta,
proponendosi così quali degni eredi del cinema empatico e straziante,
performativo e libero, di John Cassavetes. Come il Cosmo Vittelli incarnato da
Ben Gazzara in L’assassinio di un allibratore cinese anche l’Howard Ratner di
Adam Sandler è uno scommettitore compulsivo, poco interessato in fondo al
denaro di per sé, guidato solo dall’istinto e dal desiderio di rischiare, e
vincere.
Tutto ha inizio per lui in un altro tempo e un altro luogo,
nel 2010, tra gli ebrei etiopi che scavano, anche al costo della vita, in una
miniera. Lì, dalle viscere delle terra, viene estratto un opale nero, ancora
incastonato nella roccia, pietra millenaria ma sondabile, le cui componenti
minerarie non sono affatto diverse da quelle che troviamo, pochi istanti dopo,
nel corpo di Howard. Disteso su un lettino ospedaliero, mentre gli viene
effettuata una colonscopia, il nostro antieroe è vulnerabile, ma pronto a
rialzarsi, marionetta impazzita nelle mani dei suoi autori, galvanizzata
continuamente, all’interno del racconto, dal denaro e dal suo scorrere
impetuoso. Howard è così, può essere solo o inerte o scatenato, nessuna via di
mezzo. È il mattatore folle e logorroico di una realtà che vuole ricacciarlo in
un buco nero. È un gioielliere traffichino, un gambler made in USA senza
desiderio di redenzione.
Il cognato, Arno (Eric Bogosian), rivuole indietro un
prestito di 100mila dollari e gli ha scatenato contro i suoi scagnozzi, la
moglie brama il divorzio, l’amante e sua dipendente lo ama follemente, lui è
uno nessuno e centomila, il family man che porta via la spazzatura e presenzia
alla recita della figlia, l’intrallazzatore immerso in baratti, compravendite,
transazioni, interessi e strozzini, vecchie tradizioni, Storia e Geologia,
Religione e Minerali, cellule e atomi, vitalità e morte.
Attraverso di lui si manifesta l’ultima frontiera del
capitalismo, ipertrofico, insensato, dove il lavoro dell’uomo non produce più
nulla da tempo e l’oggetto (l’opale nero), proprio come il denaro, ha il valore
che l’uomo gli attribuisce. Entrambi poi non sono che “materia”, proveniente
dalle viscere della terra e pronta a dissolversi in essa. Tetra eppure
vitalistica metafora offerta alla nostra libera interpretazione, Diamanti
grezzi è ad oggi il frutto più maturo della filmografia di Benny e Josh Safdie,
la cui fascinosa estetica retrò, frutto di un manierismo mai ruffiano, mira a
comporre un’elegia tonante, carnale e triviale, al corpo dell’attore, alla
materia, alla grana della pellicola, al cinema.
Pubblicato su quinlan.it il 02/02/2020, di Daria Pomponio
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