lunedì 3 febbraio 2020

DIAMANTI GREZZI di Ben Safdie, Joshua Safdie (2019)


Ultimo baluardo del cinema indie americano, Benny e Josh Safdie, giunti al terzo lungometraggio di finzione, proseguono ardimentosi nel loro percorso autoriale dissertando per immagini, in Diamanti grezzi (Uncut Gems), su uomo e capitalismo, cosmo e denaro, mentre esplorano, ancora una volta, il produttivo binomio tra supporto fisico (la pellicola) e performance attoriale. L’incanto visivo della loro regia fluida e precisa, l’inventiva narrativa di questa nuova odissea urbana e umana trafiggono gli occhi e stimolano le sinapsi, con un continuo rimestare tra cellule e minerali, uomini e cose, sentimenti e metafore, mentre il paradosso regna sovrano, dentro e fuori dal film: Diamanti grezzi è girato in 35mm, visibile solo su Netflix.

Colori saturi e grana bene in vista, la pellicola fotografata mirabilmente da Darius Khondji (Okja, Civiltà perduta, Amour, Midnight in Paris, per citare qualche titolo) riserva momenti di puro piacere visivo, tra improvvise tinte bluastre pronte a sprigionarsi dai neon delle gioiellerie del Diamond District newyorkese, immersioni lisergiche nella materia e una sorprendente sequenza sotto luci ultraviolette ambientata in un locale notturno. Nuovo tassello di una già brillante carriera, Diamanti grezzi prosegue l’indagine umana dei due registi ampliandone la portata metaforica, senza offrire, come d’abitudine, alcuna morale o messaggio pre-confezionato sul protagonista e le relative vicende. Se il precedente Good Time lambiva i toni del dramma sociale statunitense e concedeva a Robert Pattinson di esprimersi in una prova fisica ai limiti dello slapstick, in Diamanti grezzi la scena è stabilmente governata da Adam Sandler, la cui parlantina tonitruante in slang ebraico-newyorkese, accompagnata dall’appropriata gestualità nervosa, costituisce la vera forza centrifuga di ogni singola inquadratura. Recitando costantemente tra i denti, questo stand up comedian raffinato e brutale offre allo spettatore prova costante del suo talento attoriale, opportunamente esaltato dalla devozione che i due registi gli dedicano senza sosta, proponendosi così quali degni eredi del cinema empatico e straziante, performativo e libero, di John Cassavetes. Come il Cosmo Vittelli incarnato da Ben Gazzara in L’assassinio di un allibratore cinese anche l’Howard Ratner di Adam Sandler è uno scommettitore compulsivo, poco interessato in fondo al denaro di per sé, guidato solo dall’istinto e dal desiderio di rischiare, e vincere.

Tutto ha inizio per lui in un altro tempo e un altro luogo, nel 2010, tra gli ebrei etiopi che scavano, anche al costo della vita, in una miniera. Lì, dalle viscere delle terra, viene estratto un opale nero, ancora incastonato nella roccia, pietra millenaria ma sondabile, le cui componenti minerarie non sono affatto diverse da quelle che troviamo, pochi istanti dopo, nel corpo di Howard. Disteso su un lettino ospedaliero, mentre gli viene effettuata una colonscopia, il nostro antieroe è vulnerabile, ma pronto a rialzarsi, marionetta impazzita nelle mani dei suoi autori, galvanizzata continuamente, all’interno del racconto, dal denaro e dal suo scorrere impetuoso. Howard è così, può essere solo o inerte o scatenato, nessuna via di mezzo. È il mattatore folle e logorroico di una realtà che vuole ricacciarlo in un buco nero. È un gioielliere traffichino, un gambler made in USA senza desiderio di redenzione.
Il cognato, Arno (Eric Bogosian), rivuole indietro un prestito di 100mila dollari e gli ha scatenato contro i suoi scagnozzi, la moglie brama il divorzio, l’amante e sua dipendente lo ama follemente, lui è uno nessuno e centomila, il family man che porta via la spazzatura e presenzia alla recita della figlia, l’intrallazzatore immerso in baratti, compravendite, transazioni, interessi e strozzini, vecchie tradizioni, Storia e Geologia, Religione e Minerali, cellule e atomi, vitalità e morte.

Attraverso di lui si manifesta l’ultima frontiera del capitalismo, ipertrofico, insensato, dove il lavoro dell’uomo non produce più nulla da tempo e l’oggetto (l’opale nero), proprio come il denaro, ha il valore che l’uomo gli attribuisce. Entrambi poi non sono che “materia”, proveniente dalle viscere della terra e pronta a dissolversi in essa. Tetra eppure vitalistica metafora offerta alla nostra libera interpretazione, Diamanti grezzi è ad oggi il frutto più maturo della filmografia di Benny e Josh Safdie, la cui fascinosa estetica retrò, frutto di un manierismo mai ruffiano, mira a comporre un’elegia tonante, carnale e triviale, al corpo dell’attore, alla materia, alla grana della pellicola, al cinema.

Pubblicato su quinlan.it il 02/02/2020, di Daria Pomponio


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