“Body’s Reality”. La scritta su una tv su sfondo nero sposta il cinema di Cronenberg dalla definizione – sempre parziale – di body horror a quella di ‘body beaty’. Perché Crimes of the Future è un cinema sulla bellezza che racchiude l’attrazione, la sessualità, la metamorfosi, la carne, gli organi. Anche la mostruosità diventa forma di seduzione: l’esibizione con il viso e gli occhi cuciti, il volto e il corpo in cui sono cosparse dappertutto le orecchie.
“Body’s Reality”. Si,
potrebbe ripartire tutto dalla tv, come quella via cavo di Videodrome da cui
non vengono però captati i segnali inquietanti che precipitano nell’incubo. Si
entra invece sotto la pelle di un cinema dove non ci sono solo più ‘demoni’ (?)
(la madre del bambino ucciso) ma soprattutto di divinità – unica sintesi
possibile biologica-tecnologica dove la vita la morte, l’organico e
l’inorganico sono solo tappe passeggere di un corpo che non si decompone ma
muta – possono davvero essere immortali nel cinema del regista canadese.
Crimes of the Future, un progetto pensato da più di 20 anni
subito dopo eXistenZ, è la sintesi più radicale (oggi) del cinema di
Cronenberg. La figura avvolta in un mantello di Viggo Mortensen rimanda a
fantasy/horror lontani, dalle origini del cinema a quelli del futuro. Il suo
personaggio Saul Tenser, celebre artista performer, è un incrocio tra Dracula e
la mosca cronenberghiana. L’estensione tecnologica del proprio corpo mostra
ancora come nella filmografia del cineasta la creazione e l’invenzione, Dr.
Frankenstein e il mostro, il soggetto e l’oggetto stesso della propria identità
sono la stessa cosa. Saul, nelle proprie performances, crea delle opere d’arte che
escono direttamente dal proprio corpo. Come Andy Warhol, oggi Cronenberg è
l’unico cineasta di cui si può dire che loro stessi sono la propria opera.
Warhol lo faceva fisicamente. Cronenberg si serve invece delle sue tante
identità, ancora della moltiplicazione dei suoi corpi che hanno attraversato
oltre 50 anni di cinema.
Nei suoi spettacoli Saul si fa assistere dalla sua partner,
Caprice (Lèa Seydoux), altro volto ma ideale doppio, gemella come i due Jeremy
Irons in Inseparabili. La loro attività attira Timlin (Kristen Stewart) e
Tippet (Don McKellar), investigatori del Registro Nazionali degli Organi e del
padre del bambino ucciso (Scott Speedman).
Come tutto Cronenberg anche Crimes of the Future va
assorbito, metabolizzato. Pezzo per pezzo, inquadratura per inquadratura. La
sua bellezza non è estetica ma prima di tutto fisica. Nelle cicatrici,
nell’elenco degli organi che Saul offre durante la sua performance, c’è il
limite ultimo di uno spettacolo (artistico, cinematografico, pittorico) che
prende forma sotto i nostri occhi. Il bello non esplode in tutta la sua forza
devastante mélo come in M Butterfly ma proprio nell’esibizione. Gli spettacoli
di Saul e Caprice hanno lo stesso impatto della simulazione delle corse
clandestine di Crash. Sono ancora le divinità che offrono i loro doni (del
cinema). Corpo/macchina, chirurgia/sesso. Potrebbe essere un film (quasi) muto
accompagnato soltanto dalla voce-off, proprio come il suo Crimes of the Future
del 1970, che ha lo stesso titolo di quel film ma non è un remake. Se il suo
cinema precedente è stato anticipatore, oggi Cronenberg parlaciò che siamo
diventati: la fluidità, l’abbattimento della separazione del genere, la
coesistenza con l’ambiente nella nave rovesciata dell’inizio e come sfondo
durante il film (ancora di una performance?) e soprattutto del bambino che
mangia la plastica.
È così denso Crimes of the Future, così indispensabile che dovrebbe essere visto come
l’Empire State Building di Andy Warhol. Ogni immagine fermata. Non analizzata
ma contemplata, goduta come puro piacere estetico e sensoriale, accesa nel suo
erotismo come pura estasi come in uno dei baci più belli degli ultimi anni tra
Kristen Stewart e Viggo Mortensen. La passione è solo uno stadio, la sessualità
è anche nel piacere singolo di mostrarsi. “Io sono sempre grande, è il cinema
che è diventato piccolo” diceva Norma Desmond in Viale del tramonto. Crimes of
the Future è film e corpo. Anzi più corpi, come quelli straordinari di Léa
Seydoux e Kristen Stewart che possono aveer abitato da sempre il cinema di
Cronenberg. Quindi può scendere quella scala come nel finale del film di Billy
Wilder. E restare immortale. Proprio come Crimes of the Future, che sarà uno
dei film fondamentali dei prossimi 100 anni.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it 24 Maggio 2022 di Simone
Emiliani
___________________________
Screen – Un film
intenzionale ma non sterile, inquietante ma troppo realistico per impaurire
realmente, sebbene si possa dire che tenta di fondere le paure del body horror
con i cambiamenti climatici.
Telegraph –
L’interpretazione migliore è quella di Sedoux. Ma al contrario di Crash di
Cronenberg, che sconvolse Cannes nel 1996, non c’è nulla che sconvolga in
Crimes of the Future – requisito necessario per qualsiasi vero film scandaloso
da festival.
TheWrap – Nei
momenti più memorabili, Cronenberg crea immagini visceralmente indipenditabili
che spaventano, sì, ma provocano anche con idee grandi e scioccanti su noi
stessi: la mostruosità della malattia, il forse inevitabile ibrido tra corporeo
e meccanico, la determinazione di sé.
THR – Il film
offre più misteri di quanti ne risolva. Tuttavia, le incredibili
interpretazioni di Viggo Mortensen e Léa Seydoux come artisti performativi le
cui tele sono gli organi interni trascineranno i curiosi al cinema.
___________________________
CRIMES OF THE FUTURE (1970)
1997. A seguito di una piaga catastrofica derivante da
prodotti cosmetici che ha ucciso l’intera popolazione di donne sessualmente
mature, il direttore della clinica dermatologica House of Skin, Adrian Tripod,
sta cercando il suo mentore, il dermatologo pazzo Antoine Rouge scomparso in
circostanze misteriose dopo aver contratto la malattia che porta il suo nome.
Nel suo vagare, Tripod incontra quel che è rimasto di un’umanità lacerata,
persone e gruppi di uomini che stanno cercando di adattarsi a un mondo
post-femminile. Si unisce a una serie di organizzazioni, fra le quali una
società di Import-Export metafisico e un misterioso Gruppo Oceanico Podologico,
fino a quando non si imbatterà in un gruppo di pedofili che tiene in braccio
una bambina di 5 anni… [sinossi]
Ogni virus ha i suoi tempi e i suoi stadi di incubazione.
Deve svilupparsi, attecchire, crescere, diffondersi, contagiare, diventare una
piaga. Ma prima ancora deve perfezionarsi, evolversi, trovare la sua forma
compiuta, procedendo per tentativi e per selezione naturale fino a vincere la
sua personale lotta per la vita. Perché un virus è un parassita che ha bisogno
delle cellule di un altro organismo per potersi riattivare, ma è al contempo
una forma vivente autonoma, con il proprio codice genetico, con la propria
capacità di riprodursi, con la propria materialità e con la propria
(nano)corporalità. Con la propria ferocia patogena, con le proprie implicazioni
fisiche, psicologiche e filosofiche, con i propri effetti sempre più
devastanti. E con, appunto, la necessità di un tempo di latenza e gestazione
prima di poter giungere alla sua definitiva maturazione e compiutezza. Un tempo
nel quale il virus sperimenta nuove forme e strategie d’attacco, un tempo nel
quale l’infezione supera difficoltà e si mette alla prova fra le difese
immunitarie da aggirare e gli antibiotici a cui imparare a sopravvivere. Un
tempo nel quale il morbo non è ancora del tutto maturo, ma già lascia
intravvedere tutto il suo potenziale ancora in fieri, tutta la veemenza che
saprà avere nelle sue successive manifestazioni, e nel frattempo si allena, si
perfeziona, mette sul piatto la propria essenza primigenia e cerca le direzioni
nelle quali spingerla.
Specialmente quando l’agente patogeno in questione è quel
virus mutaforma che scorre sotto le immagini e dentro le ossessioni di David
Cronenberg, quel virus sul quale si impernia e nel quale si identifica tutto il
suo cinema, quel virus che in un certo senso è il suo cinema, l’elemento
fondante, il linguaggio e il campo di ricerca, la forma e la sostanza, la
domanda e la risposta, l’origine e il punto di arrivo. E se il cinema di
Cronenberg è assimilabile a un virus, allora la sua opera seconda Crimes of the
future ne è l’ultimo stadio d’incubazione, è quell’ultimo gradino espressivo
che era necessario affrontare perché l’infezione potesse farsi trovare pronta a
diventare pandemia, trovando con i (pochi ma fondamentali) denari di una
produzione quella che sarà la sua prima forma compiuta ma mai definitiva ne Il
demone sotto la pelle (1975).
Perché no, al pari del precedente Stereo e a differenza dei
lavori successivi Crimes of the future, se preso da solo, non è ancora un film
pienamente compiuto e maturo. È un lavoro autoprodotto a costi risibili,
totalmente indipendente e già consapevole del talento e dell’immaginario del
suo autore, profondamente coraggioso nei suoi temi spinosi e lucidamente
intrigante ed enigmatico nell’affrontarli, orgogliosamente underground nelle
sue forme sperimentali e forte dei propri limiti, a partire dalla
trasformazione in puro linguaggio della necessità di girare ancora una volta
senza audio in presa diretta a causa del forte rumore prodotto dalla Bolex.
Eppure, fra i tanti spunti di interesse, le sequenze risultano ancora troppo
separate fra un incontro e l’altro del protagonista, mentre alla drammaturgia e
al ritmo narrativo, spesso dilatati, ancora mancava quella piena calibratura
che giungerà solo dal lavoro seguente.
È arduo provare a immaginare quale possa essere stata
l’accoglienza riservata a un UFO cinematografico come Crimes of the future nel
1970, al momento della prima presentazione. Certo, c’erano già state quelle
ossessioni cinematografiche di psico(pato)logia, solitudine, sconfitta e
apocalisse ereditate dalle letture compulsive di Ballard che Cronenberg covava
sin dai primi cortometraggi Transfer (1966) e From the Drain (1967), e c’era
già stata una loro prima evoluzione distopica e musiva nell’immaterialità
(erotica) della telepatia con il primo lungo Stereo (1969) – del quale sin da
subito e come vedremo più avanti, per la voce fuori campo che cuce le fila
narrative fra i silenzi delle riprese mute, per le location, per le atmosfere,
per i personaggi e per le soluzioni di messa in scena, questo lavoro si
configura(va) non solo come la seconda parte di un dittico sperimentale a
cavallo fra la fantascienza e l’horror, ma quasi come una sorta di secondo
tempo a colori dello stesso film.
Il reale valore di Crimes of the future però, emerso con
tutto il suo vigore nel corso degli anni, può essere capito appieno solo oggi, alla
luce di quelli che sono stati i lavori successivi dell’autore nativo di
Toronto. Per quanto il fiuto di un recensore del tempo potesse sfiorare la
chiaroveggenza, nessuno tranne, forse, lo stesso Cronenberg poteva ancora
sapere quanto Crimes of the future, con le sue innegabili intuizioni pronte a
emergere da un’altrettanto innegabile immaturità narrativa, sarebbe stato in
seguito leggibile come una sorta di manifesto di tutto il suo cinema, come un
chiaro e deciso intento programmatico, come una sorta di compendio di tutto ciò
che sarà nei successivi 40 anni, da Il demone sotto la pelle a Scanners, Rabid
a Brood, da La Mosca a Crash, da M. Butterfly a Spider, anticipati con
precisione e coerenza impressionanti. Molto più semplice è tentare un approccio
analitico fra le righe di Crimes of the future adesso, a posteriori, dopo che
la carriera dell’allora ventisettenne David Cronenberg ha portato a definitiva
maturazione tutti quei temi che, seppur in forma ancora acerba, già al tempo
costituivano tutto l’immaginario, lo sguardo e la poetica dell’autore canadese.
Ci sono la mutazione, la distopia, la carne, la morte, la
sparizione, il contagio. C’è l’aberrazione, c’è fobia, c’è l’attrazione
sessuale. C’è la malattia, c’è la depravazione, c’è l’ossessione perversa. Ci
sono le gerarchie sociali e le associazioni segrete, c’è la fascinazione nei
confronti dei maestri e delle guide carismatiche, ci sono i feticismi, le
cospirazioni e i riti esoterici, c’è il lato frustrato del desiderio e c’è una
pedofilia (in)utile e obbligata, destinata a non essere mai consumata. E
soprattutto, alla base, ci sono i brandelli di un mondo mondo post-femminile
sui quali si innesta una metafora distopica che è al contempo sociale,
esistenziale e metafisica, fatta di identità sessuale e di necessità di
adattarsi per sopravvivere, di incroci impossibili fra discipline ormai prive
di senso, di consapevolezza della fine interrotta solo da immorali illusioni.
È questo il (micro/macro)cosmo tormentato nel quale Adrian
Tripod (il sodale e iconico Ronald Mlodzik, che mantiene la stessa centralità
che aveva in Stereo guadagnando questa volta un nome e un ruolo definito), a
detta della sua stessa voce narrante direttore della clinica dermatologica
House of Skin, girovaga alla ricerca del «dermatologo pazzo» Antoine Rouge, suo
mentore scomparso nel nulla dopo avere contratto, primo uomo dopo che la
pandemia da lui stesso scoperta ha sterminato ogni donna sessualmente matura,
la malattia che porta il suo nome. Il segno definitivo della malattia,
provocata dai cosmetici e in seguito diventata una propagazione infettiva
inarrestabile, è la spuma di Rouge, una sostanza spumosa e biancastra destinata
a essere espulsa dalle orecchie dei malati e irresistibilmente invitante per
chi, sano, si ritrova a mangiarla avidamente. È l’attrazione nei confronti
della morte, del contagio, del dolore, ed esattamente all’opposto del
sostanziale mostro fecale che sarà il virus di Il demone sotto la pelle la
spuma si presenta languida, saporita, sensuale, morbida. Innocua quando il
paziente è ancora in vita, ma letale da subito dopo la sua morte con la
necessità di una cremazione il più possibile rapida.
Ma Tripod, che vede morire lentamente e agonizzando l’ultima
paziente mentre i medici, fra smalti sulle unghie e crescente intimità cercano
di ritrovare – un po’ come antesignani di M. Butterfly – una femminilità ormai
impossibile, non sa se Antoine Rouge sia effettivamente vivo o morto. Vaga alla
ricerca di un suo segno, di una sua presenza, della sensazione della sua
esistenza, o meglio ancora della sua essenza. Lo vuole “sentire”, così come
sente il freddo della montatura e delle lenti sulla lingua quando si ritrova a
leccare gli occhiali quasi come se fosse il primo germe di quella commistione
fra carne e lamiera che toccherà con Crash l’apice della sua sensualità malata,
e nel frattempo incontra altri uomini che tentano disperatamente di
sopravvivere, di non arrendersi, di adeguarsi a qualsiasi costo. O che
rinunciano apertamente a farlo. C’è chi crea e colleziona organi nuovi e
malformati all’Istituto per le Nuove Malattie Veneree, a metà strada fra una
parodia della nascita e il rapporto con la carne dall’edonismo alla metafisica
della malattia come atto creativo, c’è chi cerca di tornare al brodo
primordiale di pinne natatorie e tentacoli per curare le crisi psicologiche con
il Gruppo Oceanico Podologico impossibile rottura del confine fra due scienze difficilmente
collegabili, c’è chi si rotola nei prati fra vecchie fotografie e dita dei
piedi sindattili, c’è chi attende il proprio destino in silenzio, c’è chi
sviluppa feticismi di ogni tipo nei confronti degli oggetti per non arrendersi
alla realtà, c’è chi si limita a danzare senza proferire parola e soprattutto
c’è chi, in un impossibile Import-Export metafisico, cerca di far coincidere
idea e carne.
Ma a questo punto è necessario fare un piccolo passo
indietro. È necessario tornare a Stereo, il precedente grado di incubazione del
virus/cinema di David Cronenberg. A quel virus già latente nella società e
nella psiche, nella carne e nella mutazione, nella scienza e nella macchina,
nella realtà e nella distopia, nell’eros e nel feticcio. A quel virus da
smascherare e analizzare, da dissezionare e da temere, e al contempo dal quale
lasciarsi apertamente sedurre come unica possibile liberazione. Dove in Stereo,
a intervallare il coro di voci narranti, il silenzio era accompagnato dal solo
(amplificato) fruscio dello scorrere della pellicola, in Crimes of the Future
Cronenberg aggiunge all’unico commento del protagonista uno straordinario
lavoro sul rumore, sorta di sinfonia industrial fatta di effetti audio e di
vecchi cancelli, di vetri rotti e di cigolii ferrosi, di percussioni e di
nacchere irregolari, di motoseghe e di campionatori, di pop corn che esplodono
e di corde saltate, di robotici motori e di (non) brusche interruzioni. Ma
anche di inaspettati suoni naturali, fra i latrati dei cani e il bubolare dei
gufi. Quasi come fosse la parziale sonorizzazione noise di un film muto, il cui
effetto è straniante quanto stordente, fisico, meccanico, contagioso.
E nel frattempo il regista, insieme agli stock di pellicola
in bianco e nero, abbandona anche i vertiginosi ralenti e i repentini cambi di
punto di vista che costituivano i raccordi di montaggio più audaci di Stereo
per cercare una narrazione che iniziasse a essere più compiuta e definita,
mentre con il passaggio al colore le scelte cromatiche diventano
inevitabilmente una parte fondamentale dell’aspetto visivo. Quelle che erano la
telepatia e le percezioni extra-fisiche destinate a divenire corpo e malizia
mutano forma, si trasformano in quel bilico fra attrazione anche squisitamente
erotica e repulsione pronta a sconfinare nella paura che, giusto un anno prima
di quel 1997 messo futuristicamente e distopicamente in scena nel ’70,
troveranno nelle cicatrici, nei ferri e negli incidenti automobilistici di
Crash il loro definitivo punto di sintesi. Alla fin fine, il bollore carnale
provocato dalla spuma di Rouge e dalla malattia nient’altro è che il gradino
successivo del sublime filosofico e letterario. È una fascinazione
irresistibile nei confronti dell’orrore, dell’escrescenza, della mutazione,
della secrezione, del contagio, del dolore, della morte. È il virus, è il corpo
estraneo, o forse è la macchina, dall’automobile dei tamponamenti come
deflagrazione della sensualità e del desiderio a quel dispositivo che porterà
alla fusione fra l’uomo e La mosca, all’ibrido, al mostro. O forse, ancora, è
più semplicemente l’evoluzione, costante stimolo e modificazione genetica come
storia dalla quale non si può fare a meno di partire e a cui non si può che
tornare.
Fatto di stranianti inquadrature dal basso, vertiginosi
campi lunghi, architetture futuristiche, tempeste di colori a squarciare il
buio delle riunioni più segrete, granulosi controcampi e lunghi inseguimenti a
mano, Crimes of the future mette in scena gelosie e promiscuità, seduzioni e
secrezioni, mutazioni e feticismi, piedi mutanti che si fanno palmati e carte
stereoscopiche, oscure teorie filosofiche e contaminazioni epide(r)miche,
cospiratori pedofili e bambine ricreate dopo l’annientamento della donna ma
non/mai del femminile. Le tappe del vagare di Tripod sono uomini e vestiti,
ginnastica sacerdotale e perversione sessuale nelle immagini, espansione dei
gruppi depravati al di fuori delle leggi e rapporti maestri/allievi, nuove
guide spirituali e immersioni psicologiche nell’«acquario» delle sensazioni,
dapprima cutanee e poi sempre più profonde, intime, ancestrali. Perverse, come
le immagini alla costante ricerca di una nuova sessualità, e come gli uomini
alla costante ricerca di una nuova tecnica riproduttiva. Quegli uomini che non
si fidano più nemmeno delle proprie gambe, che temono la solitudine, che vivono
delle proprie frustrazioni, e che sfidano apertamente la natura per tentare di
tornare a uno status quo malato, perverso, fatto di desiderio ma ormai privo di
qualsiasi capacità d’amore. E ancora scosso da squilibri e lotte sociali, da
egoismi e complotti, da paure e ossessioni sempre più perverse, perché non si
può sfuggire alla propria natura.
Tanto che Tripod inizierà a parlare di se stesso in terza
persona, come per iniziare a prendere una distanza da ciò che non potrà fare a
meno di diventare. Verrà ammesso nel centro di ricerca ginecologica, in cui
idea e carne tornano a coincidere nelle forme di una nuova umanità o per lo
meno nell’illusione di una nuova umanità, e l’Import-Export metafisico della
bambina si fa fisicità pura, rapimento, altra sparizione mentre arriva la
polizia impotente, e poi ancora una volta idea, simbolo, disegno infantile.
Assenza e nuova presenza, lontano, proprio dove era sparito Rouge, proprio dove
diventa chiaro anche a Tripod che il suo mentore non tornerà mai più. Una
radice spunta come un’antenna cerebrale dal naso del portiere dell’albergo, ma
non è questa la mutazione che farà sopravvivere l’essere umano, l’unica atroce
speranza è la bambina. Che puntualmente, con la voluttuosa spuma che Tripod
perfettamente conosce, dimostra di aver contratto la malattia di Rouge. E
l’idea di una nuova umanità svanisce amara nella dolcezza nell’inevitabile
boccone di panna. O in una lacrima. Il virus di David Cronenberg aveva appena
iniziato a propagare il suo contagio, stava crescendo, si stava perfezionando.
Lo aspettava un viaggio lungo e straordinario, fatto di corpi, menti, pulsioni,
mutazioni. Un’epidemia di capolavori per sempre infetti.
Pubblicato su quinlan.it 08/05/2018 by Marco Romagna
Nessun commento:
Posta un commento