Arrivato splendidamente a superare gli ottant’anni, Marco
Bellocchio sembra aver deciso di voler fare solo film “grandi”, film (o serie
TV) che affrontino di petto la storia del nostro paese in un modo così chiaro e
diretto come forse non aveva fatto mai. Già con Il traditore – presentato a
Cannes 2019 – aveva lasciato intendere che è necessario interrogarci sugli
ultimi quarant’anni di vicende italiche se vogliamo provare a ritrovare la
nostra identità, dobbiamo interrogarci su ciò che ci è successo per provare a
evitare di commettere ancora errori o, per meglio dire, orrori.
Più che a Buongiorno, notte ci pare infatti che la serie TV
Esterno notte – mostrata a Cannes 75 nella versione integrale in sei episodi,
mentre nelle sale italiane uscirà in due parti e in TV sarà in programmazione
in autunno – si ricolleghi direttamente proprio a Il traditore, in cui la
vicenda di Buscetta serviva ad ampliare lo sguardo fino a un racconto
sull’irrimedibile tentazione mafiosa delle nostre istituzioni. Qui, in Esterno
notte, la “scusa”, per così dire, è quella del rapimento di Aldo Moro, che
serve da apripista per una serie di riflessioni tutte ruotanti intorno al
conflitto tra dubbio e fermezza. E la tentazione è quella del potere, dell’idea
virile della vittoria a tutti i costi, del narcisismo del potere fine a se
stesso. È questa l’accusa che Bellocchio lancia a quella classe dirigente,
quella che – dalla DC al PCI – non fece nulla per evitare che Moro venisse
ucciso dalle BR, quella che – tra le file della DC in particolare – magari
arrivò a pensare che, tolto di mezzo Moro, diventava finalmente possibile
ipotizzare di fare un salto di carriera.
Quando, infatti, verso la fine di Esterno notte, in una
ricostruzione fittizia delle immagini di repertorio, Bellocchio ipotizza che al
funerale degli uomini della scorta via sia anche la moglie di Moro, Eleonora,
insieme a tutta la famiglia, ad un certo punto uno dei figli di lei si alza e
urla rivolto alle autorità: «Questa è la vostra guerra, non la nostra!» E
allora lì il discorso si fa chiaro: Cossiga (protagonista del secondo
episodio), il papa (terzo episodio), i brigatisti Morucci e Faranda (quarto),
la moglie Eleonora e quasi tutta la famiglia (quinto) sono in qualche modo le
vittime dell’ottusità del potere, della guerra che non conosce obiezioni, di
quel pensiero unico che si impose presto e che stabilì che Moro doveva morire.
Un discorso, questo, che è sempre di attualità e che non si fa fatica a
collegare a quanto sta succedendo in questi mesi con la guerra in Ucraina, dove
il minimo dubbio viene tacciato di disfattismo. E, allora, il dubbio non era
proprio quello del Buscetta/Favino ne Il traditore? Non era in fin dei conti
quello che lo “salvava” e gli faceva riscoprire l’umanità?
È per questo che l’episodio decisivo in tal senso è proprio
il quarto, quello con i brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, che ad un
certo punto si interrogano e si domandano: «Ma non sarebbe meglio non uccidere
Moro? Perché ucciderlo? Il gesto veramente rivoluzionario non sarebbe forse
liberarlo?». I due, magnificamente interpretati da Daniela Marra e Gabriel
Montesi, superano per complessità e stratificazione persino il personaggio
interpretato da Maya Sansa in Buongiorno, notte, già troppo roso dal dubbio
dell’idea rivoluzionaria per apparire totalmente credibile. Qui i due non sono
pentiti – o, almeno, non lo sono ancora – eppure credono che Moro vada
liberato. Si scontrano e discutono tra loro a proposito della rivoluzione con
parole credibili e non come un ciclostilato d’epoca come troppo spesso è
successo nel nostro cinema quando si è tentato di raccontare la lotta armata.
In questo episodio, insomma, Bellocchio è riuscito a raccontare dal di dentro i
dubbi rivoluzionari di alcuni dei militanti delle Brigate Rosse come forse mai
era capitato nel nostro cinema, ha finalmente spezzato un tabù che durava da
decenni.
Ma non poteva fare un film solo su questo, ci è venuto a un
tratto da pensare? Oppure non poteva fare un film solo su Cossiga, il cui
personaggio giganteggia nel secondo episodio come quello di un uomo che si
lascia autodistruggere dal potere e dai sensi di colpa? Poteva sì, ma sarebbe
stato troppo e troppo poco. Se l’avesse fatto, infatti, non sarebbe riuscito a
costruire questo mosaico complessissimo, questa apoteosi del romanzesco, non
sarebbe riuscito a raccontare appieno questo multi-universo che è stata
l’Italia della fine degli anni Settanta.
Certo, qualche dubbio c’è (a partire dai titoli di testa che
fanno eccessivamente il verso alle serie TV americane), qualche lungaggine da
qualche parte l’abbiamo trovata, e crediamo che sia dettata soprattutto da
questa forma di serialità che impone una durata uguale per ogni singolo
episodio, un tributo che – ci sembra – Bellocchio paghi soprattutto nella prima
puntata, troppo “scolastica” nel suo essere storica, troppo divulgativa e, a
tratti, troppo grottesca alla Petri di Todo modo senza riuscire ad arrivare a
quell’altezza smisurata. Ma, come dire, si tratta di dazi in qualche modo
inevitabili a fronte di un disegno di portata immenso che da Moro ci porta fino
all’oggi. Si tratta di piccole e perdonabili concessioni allo spettatore
televisivo che preludono e, in qualche modo, consentono le virate più personali
e più visionarie, come ad esempio nella sequenza in cui Moro mostra alla moglie
e ai figli la cappella di famiglia a Torrita Tiberina. Lì il leader
democristiano sembra già volersi seppellire, sembra già puntare agli allori
post-mortem, vuole già pensare ai posteri. Ed è anche per questo che lui in
Esterno notte resta, al pari di Andreotti, il personaggio più enigmatico, più
enigmatico di quanto non lo fosse in Buongiorno, notte. Intanto per via della
recitazione di Gifuni, che tende molto a imitare quella del Moro interpretato
da Volonté; quindi una recitazione mimetica, anche se più posata, comunque
completamente diversa da quella di Herlitzka in Buongiorno, notte, tutta
puntata a sottolineare l’umanità del personaggio. Qui invece Moro appare per
certi versi “disumano”, a suo modo “mostruoso”, schiavo anch’egli di quel
potere che i personaggi “positivi” di Esterno notte invece rifiutano. Non è un
caso che la moglie – interpretata da Margherita Buy, la migliore del cast
insieme ai già citati Marra e Montesi, e insieme a Fausto Russo Alesi nei panni
di Cossiga – a un certo punto dica al prete che suo marito è tanto preso dal
suo ruolo di statista da preferire chiudersi nello studio per scrivere un
discorso agli italiani piuttosto che starsene in famiglia. Per certi aspetti,
il Moro qui ritratto da Bellocchio è già icona, è già statua, è già la maschera
di se stesso. E questo forse accade anche perché Bellocchio è stato attento a
non ripetersi, è stato attentissimo a non rifare quel che aveva già fatto in
Buongiorno, notte, e anzi ha puntato a migliorarsi, per lunghi tratti
riuscendoci.
Il caso più lampante in tal senso viene dall’utilizzo che viene
fatto delle immagini di repertorio: nel primo episodio questo uso lascia
all’inizio un po’ perplessi in quanto si passa da riprese reali a riprese
invecchiate artificialmente, in cui è sin troppo chiara la falsificazione. Ma
in quel momento non si può ancora sapere quel che succderà dopo. Infatti, in
fin dei conti, il primo episodio funziona da contestualizzazione sotto ogni
aspetto: non solo narrativo, ma anche visivo. E così Bellocchio, di episodio in
episodio, piazza qua e là il ritorno al repertorio: lo fa ovviamente con la
celeberrima edizione straordinaria di Bruno Vespa in cui si annunciava il
rapimento di Moro, ma lo fa anche con le riprese del lago di Duchessa, quando
un finto comunicato delle BR spinse le autorità ad andare a scavare nel ghiaccio
per vedere se il corpo di Moro si trovasse davvero lì. E quelle riprese del
lago di Duchessa ritornano continuamente, ossessivamente, tre o quattro volte,
e ogni volta vengono lette in una nuova chiave, e ogni volta ci appaiono più
assurde e più visionarie. Lo fa poi con i funerali di stato di Aldo Moro,
spiegando quello che non spiegava – e a cui alludeva – in Buongiorno, notte, e
cioè che quei funerali si fecero in assenza del corpo del leader della DC. Ma
il vero “colpo” lo assesta quando reinventa l’archivio, lo riscrive a suo
piacimento, in funzione di ciò che vuole raccontare, e l’episodio più eclatante
in tal senso avviene proprio nel momento già citato del funerale della scorta
di Moro. Lì – e in un altro paio di momenti che però è meglio non svelare –
Bellocchio ci dà la sua personalissima rilettura della Storia, che è anche
ovviamente Storia del cinema e dello sguardo: il falso si può fare, e anzi si
deve fare, basta che sia brechtianamente dichiarato e che serva per capire
meglio le dinamiche storiche. E anche qui Esterno notte dialoga a distanza
ravvicinata con Il traditore, con il modo in cui ad esempio veniva usato
l’anatema della vedova di Vito Schifani della scorta di Falcone quando proruppe
nel tragico: «Ma tanto loro non cambiano!», un anatema che poi andava ad
assillare in loop i mafiosi in carcere.
Abbiamo cominciato con il dire che Bellocchio si sta
imponendo di fare grandi film, grandi affreschi storici. E meno male, viene da
concludere. Perché, oltre a Martone, non c’è nessun altro nel cinema italiano
contemporaneo che sia in grado di farlo, nessun altro che abbia la volontà, la
voglia e la capacità di scavare a fondo nei nostri misteri e nelle nostre
ambiguità, in quei fatti e in quegli snodi che in fin dei conti formano la
nostra identità.
Pubblicato su quinlan.it, 05/20/2022 di Alessandro Aniballi
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I rumori fuori dalle finestre raccontano di una città in
stadio di assedio, di una guerra che infuria per le strade di Roma, nel corso
dei primi due vertiginosi episodi della serie di Marco Bellocchio “intorno” al
caso Moro: sirene di ambulanze e macchine della polizia, slogan e urla che
riecheggiano dagli scontri di repressione dei cortei. Il gioco con il
repertorio non è solo quello sempre inarrivabile che ritroviamo nel Bellocchio
contemporaneo, con le immagini sgranate dell’archivio catodico che dialogano
come fessure infradimensionali con lo spaziotempo del set, esondando dai
finestrini delle automobili, dagli schermi, dalle vedute fuori dai balconi. No,
stavolta a contribuire ad un senso di fine del mondo imminente c’è anche la
sensazione costante di una società ad un passo dall’esplodere fragorosamente,
innanzitutto come detrito sonoro sullo sfondo delle “stanze dei bottoni” che la
serie attraversa – Cossiga come J. Edgar Hoover fa installare un centro
avanguardistico di intercettazioni telefoniche ma i macchinari captano
soprattutto deliri di persone costrette alla solitudine, o le teorie astruse di
visionari convinti di vedere Moro in sogno.
Anche in giro per la città regna il caos, le coppie si
bucano sugli autobus davanti agli anziani passeggeri che evocano il regime, e
mentre il nugolo di brigatisti decide il da farsi, intorno a loro è tutto uno
scippo di borsette coi motorini. Nell’episodio forse più abissale, quello
dedicato al Cossiga di Fausto Russo Alesi che si guarda ripetutamente le mani
macchiate come Macbeth ed è convinto che Moro stia fissando proprio lui dalla
celebre foto mandata ai giornali dalla cella di prigionia, il politico corre a
perdifiato per i corridoi, non dorme mai ma si rintana continuamente in uno
stanzino insonorizzato e buio, ma sembra comunque il personaggio meno esagitato
tra i generali che invocano lo stato di guerra, i medium, e gli esperti in
ostaggi mandati “dagli americani”. Sembra tutta una grande messinscena, come le
decine di false piste e depistaggi, e infatti ad un certo punto qualcuno
scambierà una rappresentazione teatrale scolastica instant sul rapimento, per
un rifugio del vero Moro.
È vero, produttivamente Esterno Notte rappresenta un nuovo
picco per la stagione d’oro della serialità italiana, attraversata com’è da
altissimi momenti di cinema abbacinante in cui Bellocchio trasla la vicenda
istituzionale in allucinazioni ancestrali, cadaveri lungo il fiume e via crucis
della classe dirigente. Nel folto gruppo di sceneggiatori c’è un po’ tutta la
squadra di 1992, sempre più il vero prodotto-spartiacque della produzione
“politica” nazionale (che ha figliato non solo Il traditore ma anche Hammamet,
per dire), anche per le invenzioni di montaggio di Francesca Calvelli, altro
trait d’union decisivo per il true crime all’italiana. E però Bellocchio tra le
righe sembra suggerire che, insomma, non è poi tutta questa novità
l’autorialità al confine tra i due formati, Moro/Gifuni parla del Pinocchio tv
di Comencini ai suoi studenti e la radio annuncia Cristo si è fermato a Eboli
di Rosi in due versioni, cinematografica e televisiva.
La radio, ancora una volta un indizio che arriva da una
fonte sonora: com’è noto, la serie segue una narrazione legata a singoli
personaggi, e non una progressione cronologica di puntata in puntata. Ecco, due
dei momenti più struggenti sono probabilmente due telefonate, a rafforzare
ancora la sensazione di un impianto in cui le voci (in sparute occasioni anche
quelle dei pensieri dei protagonisti) assumono un’importanza primaria. Nel
bellissimo episodio dedicato a Eleonora Moro/Margherita Buy, una brevissima
telefonata dove la donna, coriacea e spesso sferzante con le continue visite
ufficiali che riceve a casa, chiama la moglie del capo della scorta
all’indomani dell’attentato omicida; e un momento di umanissima indecisione di
Paolo VI/Toni Servillo quando deve scrivere il celebre discorso rivolto ai
brigatisti, e si fa consigliare per telefono in piena notte da Padre
Curioni/Paolo Pierobon.
In questa smolecolarizzazione continua di icone di cui la
Storia ha tramandato la versione infrangibile, e qui invece vanno a pezzi,
questa ricerca per l’appunto di un corpo che non si trova più gira intorno
all’immagine ritornante (e ancora una volta di repertorio) del finto
ritrovamento sui fondali ghiacciati del lago della Duchessa. Il comunicato
delle BR che indicava il luogo col cadavere di Moro era falso, ma la squadra di
sommozzatori che con grande dispiego di forze si immerge sotto la neve e le
lastre ghiacciate rivela per Bellocchio la condizione di inafferrabilità dello
spettro di Moro. Proprio come già nel celebre finale di Buongiorno, notte, Aldo
Moro forse si agita ancora subito sotto la superficie ingannatrice delle cose,
oppure è ancora incastrato, sospeso nelle profondità della Storia come le voci
di questa serie, mentre ci si affanna con grandi mezzi a cercarlo esattamente
dove non potrebbe mai davvero trovarsi.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 18 Maggio 2022 di Sergio
Sozzo
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