
Location: Tahiti, la più grande isola nel gruppo delle Isole
del Vento della Polinesia Francese. Nella prima sequenza vediamo arrivare dal
mare in un porticciolo un gommone con un gruppo di marinai insieme al loro
capitano che comanda la squadra dei militari, siamo al tramonto su quella che
ancor oggi si può definire, a ragione, un autentico paradiso terrestre. Subito
dopo, nello stesso locale notturno dove si sono recati i marinai, scopriamo un
signore elegante e inconfondibile, di cui conosceremo, nel corso del film lungo
la bellezza di 165 minuti solo il cognome, sempre vestito in maniera
impeccabile con un completo doppiopetto bianco su una camicia fantasia
hawaiana. È sicuro e calcolatore ma anche felpato e sfuggente come un gatto;
apprendiamo che si chiama De Roller (Benoît Magimel) ed è l’Alto Commissario,
il rappresentante del governo francese in loco. Un uomo che pur avendo a che
fare con persone molto diverse – tanto nelle occasioni e nei ricevimenti
ufficiali quanto nelle riunioni e/o nei luoghi appartati e sospetti – si aggira
e mantiene un aplomb assolutamente impenetrabile, senza lasciar mai trasparire
nulla dei suoi sentimenti e ancor meno di quanto realmente pensi. Il suo
compito dunque – tra il bonario e l’amichevole (quasi sempre) ma sfoderando
talvolta qualche unghia minacciosa quando serve per mostrare il suo potere (per
quanto piccolo) – consiste nel tastare il polso della situazione, capire e
placare un possibile malcontento della popolazione locale che potrebbe
esplodere in qualunque momento. Soprattutto adesso che si sta piano piano
spargendo la voce a Tahiti della presenza di un sottomarino o di una unità
navale fantasma, con la possibilità non remota che possano venir ripresi in
zona i test nucleari della Francia, dopo quelli effettuati nel 1996 nell’atollo
di Mururoa, che avevano portato a grandi proteste e poi interrotti dal
presidente Chirac.
De Roller vorrebbe calmare le acque ma lui stesso non è ben
informato sulla situazione e sulle intenzioni reali del suo governo, cerca
dunque di indagare su indizi sfuggenti, nella notte, tipo una barca con un
gruppo di donne locali, diciamo così disponibili, che si allontanerebbero
misteriosamente sul mare forse per compiacere l’equipaggio del sottomarino
fantasma. E poi si aggira furtivo ed attento, come un pesce vigile in un
acquario variegato, nel sottobosco dell’isola, fatto di lotte di galli e danze
tribali, di potenziali rivoluzionari che combattono l’indipendenza e di agenti
stranieri americani oltre ad avventurieri come il padrone della principale
discoteca dell’isola, il Paradis. Oppure si incontra con uno strambo
diplomatico (???) portoghese che ha perso passaporto e memoria, e con una
scrittrice di successo rientrata a Tahiti ma in crisi d’ispirazione, ecc. ecc.
Se un debole De Roller lo ha, è soltanto nei confronti di
Shannah, la bella receptionist di un hotel, la cui identità sessuale è fluida
come tutto il film, che piano piano avanza di ruolo, diventando collaboratrice
e probabilmente amante del nostro spregiudicato Alto Commissario – in parallelo
a quanto è accaduto a chi lo/la interpreta, cioé Pahoa Mahagafanau inizialmente
previsto/a come una comparsa e che poi ha sempre più preso peso nel film,
diventando un perfetto esempio di māhū.
La sequenza finale con cui si chiude circolarmente il film,
all’alba, vede allontanarsi in mare la squadra di marinai dell’inizio con il
comandante che spiega in macchina allo spettatore cosa stia realmente per
avvenire – una sequenza forse obbligata
e non voluta dal regista che potrebbe essere stata una concessione nei
confronti della produzione, a chiudere un’opera che invece sino a quel momento
aveva vissuto in una straordinaria atmosfera di sospensione della consecutio
narrativa, per abbondonarsi ad un mood tanto allusivo e oscuro, quanto meravigliosamente
criptico.
Ispirato all’autobiografia dell’attrice polinesiana Tarita
Tériipaia (la terza moglie di Marlon Brando), Pacifiction di Albert Serra –
autore per altro poco noto al grande pubblico ma viceversa, già da anni, un
must della cinefilia più attenta che qui però fa un grande salto di qualità
rispetto al passato – è dunque un formidabile rondò di incontri, illusioni e
allusioni. Una ronde, un girotondo in un mondo attraversato dalla crisi del
post colonialismo con tutto ciò che ciò significa, dagli interessi strategici a
quelli turistici, morali ed ecologici. Un film affascinate, ascondito e
misterioso come il suo titolo che potrebbe significare “pacificazione” o
“fiction nel Pacifico” o ancora altro. Ma non è solo il fascino esotico del
luogo a diventare in sé una calamita straordinaria di interesse – già la lunga,
ultra-spettacolare sequenza di surf è di una bellezza cinematografica e di una
forza a dir poco emozionate (pari a quelle straordinarie di un John Milius o di
una Kathryn Bigelow) e lei sola basterebbe a consigliare un film che passato
quasi in sordina negli ultimi giorni dello scorso Festival di Cannes (e in
Italia al Torino FF) non ha riscosso il successo e l’interesse che per noi
merita. Accanto alla formidabile regia del regista catalano (classe 1975) con
la passione per la Storia francese che qui per la prima volta lascia il passato
per raccontare l’oggi, oltre alla bontà della rara fotografia di Artur Tort,
l’eccellenza del risultato è gran merito dell’interpretazione a dir poco superlativa
di Benoît Magimel. A lui, a ragione, è andato di recente il Cesar 2023 per la
migliore interpretazione maschile – non meritato, meritatissimo.
Pacifiction/Tourment
sur les îles – Regia e sceneggiatura: Albert Serra; fotografia: Artur Tort;
montaggio: Albert Serra, Artur Tort, Ariadna Ribas; musica: Marc Verdaguer, Joe
Robinson; scenografia: Sebastian Vogler; interpreti: Benoît Magimel (de
Roller), Pahoa Mahagafanau (Shannah), Marc Susini (l’ammiraglio), Matahi
Pambrun (Matahi), Alexandre Mello (il portoghese), Montse Triola (Francesca),
Michael Vautor (il capitano), Cécile Guilbert (Romane Attia), Lluís Serrat
(Lois), Mike Landscape (Mr. Mike); produzione: Idéale Audience Group (France),
Andergraun Films (Spain), Tamtam Film (Germany), Rosa Filmes (Portugal);
origine: Francia/Spagna/Portogallo/Germania, 2022; durata: 165 minuti;
distribuzione: Movie Inspired.
Pubblicato su
close-up.info, 30/3/2023 di Giovanni Spagnoletti
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Albert Serra si libera delle coordinate temporali, dei
costumi, delle parrucche della Francia del Settecento di La mort de Louis XIV e
di Liberté, per viaggiare alla volta della Polinesia francese. E sembra quasi
ritrovare l’immaginario di Gauguin in fuga, alla scoperta di Tahiti, il
paradiso aurorale di un mondo prima dell’inizio della Storia. “Godo tutte le gioie della vita libera,
animale e umana. Sfuggo alla fatica, penetro nella natura: con la certezza di
un domani uguale al presente, così libero, così bello, la pace discende in me;
mi evolvo normalmente e non ho più vane preoccupazioni”.
È perfettamente logica, dunque, la rinuncia di Pacifiction a
qualsiasi inseguimento affannoso di una temporalità conseguenziale. Proprio
perché tutt’intorno è l’Eden, siamo nello spazio che precede il peccato e la
caduta. La trama non è che un’infinita divagazione, un alto commissario del
governo francese alle prese con una serie interminabile di appuntamenti,
incontri, colloqui con personaggi di vario genere. Europei, polinesiani,
politici, militari, gente comune. Un continuo discorrere senza un punto. Ma
quando non c’è la possibilità racconto, molto spesso non resta che la
contemplazione. E così, su tutto, trionfa l’immagine di una natura sublime.
Ma Serra sa benissimo che l’esperienza estetica e panica di
un mondo incontaminato non è che la versione estrema di una sofisticazione
intellettuale, l’ultima ipotesi d’evasione di una cultura ormai esausta, che ha
già sperimentato la dissoluzione organica dei suoi simboli istituzionali e
delle sue aspirazioni libertarie (o libertine). Cioè quella consunzione messa
in mostra in La mort de Louis XIV e Liberté. Oltre la quale, non rimane che la
constatazione di un mondo svuotato. Dove tutto ciò che nasce è già consumato.
Dove anche la fascinazione esotica ha compiuto il breve passo per trasformarsi
nella vacuità di un’esperienza turistica. Turismo elitario, ma pur sempre
venduto a pacchetti. E quindi, tra le meraviglie del paesaggio, è tutto un
pullulare di resort di lusso, di night club. Un paradiso da vacanzieri e da
surfisti, in cui, tra le note dei Beach Boys, attendi l’ebbrezza della grande
mareggiata. Che puntuale arriva, nella stupenda scena delle barche che
cavalcano la cresta delle onde.
Rispetto a tutto questo, il protagonista, questo incredibile
Benoît Magimel in libera decadenza fisica, col suo abito bianco, assomiglia a
una specie di Fitzcarraldo stanco. Il residuo raffinato di un colonialismo
decadente, fuori tempo massimo. La cui conversazione, arte intimamente
politica, è diventata una digressione infinita, un flusso di pensieri, appunti,
notazioni, umori. Una specie di monologo, visto che gli altri, molto spesso,
non sembrano neanche capire davvero. E a poco a poco, si va quasi alla deriva.
Che sia questo il Paradiso? Come in un esercizio estremo di liberazione
cinematografica, avvertiamo la possibilità di perdere tempo, di staccarci dagli
obblighi di una visione istituzionale, di uscire e entrare dal film, dalla
sala. Anzi, nella accurata composizione delle sue immagini concluse, verrebbe
quasi voglia di consumare il film a frammenti, magari su una spiaggia, distesi
su una sdraio, con un cocktail in mano. Per capitare distrattamente tra le
scene, sedersi ogni tanto ad ascoltare le farneticazioni di Magimel, all’ombra
di una palma. Anche se, poi, ti rendi conto di tutti quei segni inquieti, di un
sottofondo di mistero e complotto, che si nasconde sotto la superficie del
mare, per emergere sul finale, in tutta la sua forma definita e minacciosa. Il tempo
torna urgente e la storia si prepara a distruggere il paradiso. L’apocalisse
definitiva della bellezza.
Pubblicato su sentieriselvatti.it , 27 Maggio 2022 di
Aldo Spiniello
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Nell’isola di Tahiti, nella Polinesia francese, l’Alto
Commissario della Repubblica De Roller, rappresentante dello Stato francese, è
un uomo di calcolo dalle maniere perfette. Nei ricevimenti ufficiali come gli
stabilimenti loschi, prende costantemente il polso di una popolazione locale da
cui può emergere rabbia in qualsiasi momento. Tanto più che una voce si fa
insistente: è stato visto un sottomarino la cui presenza spettrale annuncerebbe
una ripresa dei test nucleari francesi. [sinossi]
Quando esordì diciannove anni fa, nel 2003, con l’oramai
dimenticato Crespià: the Film not the Village, l’allora ventottenne Albert
Serra affermò: “Volevo fare un’opera d’arte, ma non sono stato in grado di
realizzare la mia ambizione. Ho finito per fare un film d’autore”, per poi
aggiungere “Odio i documentari. Sono la scusa perfetta per le persone prive di
immaginazione. Ma se questo film è il ritratto di un mondo che è prossimo a
svanire, può essere considerato un ‘documento’”. Nonostante siano trascorsi
quasi due decenni da quelle affermazioni Serra non sembra in alcun modo aver
modificato il proprio punto di vista, continuando a rifuggire in maniera decisa
il documentario ma mettendo in fila un numero non indifferente di documenti, e
ricercando l’opera d’arte pur essendo incasellato oramai nel “film d’autore”. È
questa la nicchia in cui è stato accolto per il concorso del Festival di
Cannes, dove ha fatto la sua prima apparizione con Pacifiction (il titolo
francese è Tourment sur les îles, grondante romanticismo), dopo le precedenti
selezioni in Un certain regard (Liberté), séances spéciales (La Mort de Louis
XIV) e Quinzaine des Réalisateurs (Honor de cavaleria, El cant dels ocells).
Accolto con estrema freddezza, quasi spaesamento, Pacifiction a prima vista
sembra scrollarsi di dosso il peso del passato per tornare a confrontarsi con un
tempo presente per la prima volta dopo l’esordio: niente più Diciottesimo
Secolo, niente più Ancien Régime, ma la Francia repubblicana, senza più colonie
ma con le “collettività d’oltremare”. Il film si svolge infatti nella Polinesia
Francese, un paradiso terrestre dove ci si può lasciare cullare da onde
mostruose, sorvolare atolli da lasciare senza fiato o addormentarsi di fronte a
un tramonto da cartolina. È quella la terra che amministra De Roller, Alto
Commissario della Repubblica: lo fa muovendosi di incontro in incontro,
dialogando con i locali, con gli statunitensi, con gli europei, con chi
gestisce un’attività. Lo fa saltando di luogo in luogo, facendosi portare a un
passo dall’onda più grande, andando in discoteca, raggiungendo gli avamposti
più estremi di una terra che sembra non avere una definizione geografica
evidente.
Come ne La Mort de Louis XIV Serra si avventura in direzione
della messa in scena dell’esercizio dello Stato, ma se lì ne mostrava la
putrefazione, con il corpo del re prossimo all’ultimo respiro, qui si è già un
passo più in là, nella completa mancanza di una reale struttura da mandare
avanti. Così come non ha tecnicamente senso l’opera di De Roller, vanificata in
ogni suo scopo anche perché come sottolinea lui stesso non possiede in realtà
alcun potere concreto, allo stesso modo Serra decide di disincagliarsi dalle
secche della narrazione per procedere in modo ondivago, privo di una direzione
apparente. Lavorando quasi senza sceneggiatura, il regista spagnolo lascia che
il film vada alla deriva, si perda: il labile legaccio che ancora lo avvince
alla logica è dettato solo dal vago sentore di una spy-story che non prenderà
mai davvero corpo e che ruota attorno alla possibilità che la Marina Francese
si stia organizzando per nuovi test nucleari nelle acque della zona, come
quelli sull’atollo di Mururoa che scatenarono proteste a livello mondiale tra
l’autunno e l’inverno del 1995. Ma anche in questo caso si tratta di un giro a
vuoto (“in tondo? A spirale?”, si chiedono nel film) per il quale non può
esserci una risoluzione definitiva, né uno sviluppo. Serra segue il suo
personaggio nell’infinita rete di incontri, ufficiale o meno che siano, e lo
sente dialogare come se quelle parole, pur disincarnate da qualsiasi senso
concreto, potessero ancora testimoniare la verità dello Stato, la sua
necessità, una logica in grado di dettare i ritmi della vita pubblica. Ma De
Roller a dire il vero sembra quasi sempre parlare a se stesso, in una funzione
che è percepita quasi solo come rituale: la morte dello Stato è sopravvenuta,
ora rimane solo il suo vagare in una terra di fantasmi, un paradiso impossibile
sognato anche da Paul Gauguin.
Pacifiction, pacificazione, ma anche rimando all’Oceano
Pacifico, e volendo alla pace-finzione, quel superamento del vero dichiarato
che è la base portante del pensiero cinematografico di Serra. Un Serra che qui
forse compone il suo canto più libero e allo stesso tempo quello che richiede
la maggior volontà di ascolto, come le immagini maestose di una natura che era
lì prima dei francesi e lì sarà anche qualora i francesi non ci fossero più.
Solo la Marina, l’agente di guerra, ha ancora la forza della retorica
patriottarda, quella che a De Roller oramai manca, sfiancato da un’esistenza in
cui lo Stato si è assottigliato, ha perso i contorni netti che aveva quando era
giovane. L’Alto Commissario è uno sconfitto che ha accettato la propria perdita
in modo indolore, e si muove bolso e quasi ridicolo di spazio in spazio, di
luogo in luogo, di pensiero in pensiero. Benoît Magimel è straordinario nella
sua capacità di rendere l’indefinibile soavità della decadenza, la pesantezza
leggiadra di un colonialismo fatto a pezzi solo a parole, ma mai nella
concretezza dei fatti. Corpo cinematografico sfatto, Magimel nel suo completo
d’ordinanza è l’epitome di un film che a sua volta ha accettato la decadenza
dell’immagine, e di un tempo svuotato di senso, e ha il coraggio estremo di
mettere tutto ciò in scena. Con una minaccia di distruzione che è la catastrofe
definitiva, e su cui anche il cinema non può che chiudere andando di colpo
sullo schermo nero, senza soluzione.
Pubblicato su quinlan.it , 28/05/2022 di Raffaele Meale