Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022,
Armageddon Time è il film più piccino e personale di James Gray, all’ennesima
prova più che convincente, altro prezioso tassello di una parabola autoriale
che non conosce confini di genere e che guarda al cinema con una profondità e
consapevolezza oramai rarissima. Ambizioso, figlio e discepolo degli anni
Settanta, Gray scrive e dirige un coming of age dai contorni fortemente
autobiografici e dall’afflato sorprendentemente politico. Memorabile Anthony
Hopkins, ma sono le esili spalle del giovanissimo Michael Banks Repeta a
caricarsi il peso dell’intero film.
When Jewish Eyes Are Smiling
1980. Secondogenito undicenne di una
famiglia borghese del Queens, Paul si mette ripetutamente nei guai a scuola,
stringe una sincera amicizia con un ragazzo afroamericano, di estrazione
sociale completamente diversa dalla sua, e si scontra coi genitori quando
decidono di trasferirlo in una esclusiva scuola privata. Molto legato al nonno
materno, Paul scopre l’arte, come purtroppo funziona il mondo e le gioie e i
dolori del diventare grande. Sullo sfondo, minacciosa, incombe la prima
presidenza del repubblicano Ronald Reagan…
I prodromi della presidenza Reagan, ma anche le prime tracce
di Trump; la comunità ebraica e la comunità afroamericana; le classi sociali,
l’istruzione, le aspirazioni e le reali prospettive. Insomma, come funziona il
mondo, come funzionano gli Stati Uniti. D’ispirazione autobiografica, scritto e
diretto da James Gray, Armageddon Time è un coming of age ma è anche – forse
soprattutto – un film politico. Lucidissimo, trattenuto come si conviene nella
messa in scena, quasi spietato nel ritrarre gli States tra il 1980 e il 1981,
anni non casuali, la vera fine dell’utopia degli anni Sessanta\Settanta. Arriva
quasi tutto da lì, da quella sconfitta, da quel riflusso. Cast superbo, da
Anthony Hopkins al giovanissimo Michael Banks Repeta.
Di padri e figli, di famiglie, di crescita e cambiamenti,
James Gray ci ha già raccontato molte volte, declinando questi temi su più
fronti, dai bassifondi newyorchesi fino allo spazio profondo, tra le stelle e
l’infinito. È sempre stato ambizioso il cinema di Gray, dalla scrittura alla
messa in scena: si vedano, ad esempio, le poche sequenze action di Ad Astra,
veri e propri giochi di prestigio. Oppure la grandeur produttiva di Civiltà
perduta, inno a un cinema sempre più raro da scovare, forse in via d’estinzione.
Adesso, poco dopo un altro splendido film generazionale, Licorice Pizza di Paul
Thomas Anderson (altro autore che sembra aver viaggiato nel tempo), Gray
apparentemente arretra sul piano produttivo, parlando (in)direttamente di se
stesso, degli anni della sua formazione, di un decennio che è stato sconfitto.
Un racconto pre-adolescenziale, sentimentale, ancor più minimalista del dolente
e disilluso Two Lovers.
Armageddon Time mette in scena alcuni decisivi spartiacque,
connessi tra loro, anche se di dimensioni e con conseguenze di divergenti
proporzioni. Il passaggio dalla fanciullezza all’età delle responsabilità per
Paul e un percorso non dissimile per la sua famiglia e per il padre, uomo forse
inadatto a essere un nuovo punto di riferimento. E, decisamente su un’altra
scala, lo spartiacque degli Stati Uniti, la fine di quello che è stato e
l’inizio di quello che sarà – anche nel cinema, tra l’altro, con il traumatico
tonfo della New Hollywood e il rapido affermarsi di un decennio segnato nel mainstream
da un evidente disimpegno etico ed estetico.
La regia che appare così classica, quasi invisibile, si
sposa con questo preciso momento storico, con questa chiusura: l’assenza di
evidenti virtuosismi, pur in una messa in scena assolutamente perfetta e
calibrata, è la chiave di lettura di questo tramonto, è l’ultimo vagito di un
modo di essere, di un’eleganza formale che verrà travolta e sconquassata dal
rombante cinema degli anni Ottanta. L’eleganza formale è anche il veicolo
ideale per la statura morale di Aaron Graff (Hopkins), il nonno di Paul,
baluardo di una moralità capace di scavalcare classi sociali e appartenenze –
lui è, al contempo, ebreo e giusto per le nazioni, è la pietra di paragone che
smaschera le fragilità di Irving (Jeremy Strong), il padre di Paul, e l’esempio
da seguire ma forse impossibile da replicare. Perché i tempi, appunto, sono
irrimediabilmente cambiati.
Ed è, il nonno di Paul, la bilancia tra aspirazioni e
necessità, tra sogni e vita reale, tra fanciullezza ed età adulta. Grazie a una
scrittura che abbonda di chiaroscuri, Gray riesce a racchiudere nel microcosmo
della famiglia Graff un ampio ventaglio di umanità, di punti di vista, di
esperienze: come in una eterna lotta tra il Bene e il Male, il piccolo Paul
dovrà capire e capirsi, prendere decisioni non facili per la sua età. Da che
parte stare? Potrà davvero essere amico di Johnny Davis (Jaylin Webb),
ragazzino afroamericano che sogna la NASA?
Armageddon Time ci mette di fronte al tradimento sistematico
dell’american dream, trascinandoci nel nido del capitalismo cannibale, tra le
mura linde e pinte e i danarosi computer della Kew-Forest School, la scuola
preparatoria foraggiata dai Trump. La scuola dei divoratori di sogni.
Pubblicato su quinlan.it 05/21/2022 di Enrico Azzano
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È da anni che cerchiamo di raccontare la grandezza di James
Gray, forse riuscendoci solo in parte. Perché la verità è che ogni suo film ha
il potere di smuovere un nucleo di emozioni sepolte, di far venire a galla
qualcosa che vorremmo tenere segreto, al riparo dallo sguardo degli altri,
persino dalla nostra effettiva comprensione. Qualcosa che riguarda l’incapacità
di dare espressione e rendere realtà il flusso dei desideri e delle
aspirazioni. La difficile necessità di scendere a patti con i limiti e le mancanze.
Quelle ferite della coscienza che si aprono a ogni rinuncia e compromesso,
tutte le volte che siamo costretti a misurare la distanza da un modello ideale
o immaginario, che siamo presi nel groviglio conflittuale dei rapporti più
intimi. Tutto ciò che vorremmo rimuovere e dimenticare.
Quindi, con Gray è come se si spalancasse ogni volta una
voragine. E non fa eccezione il suo film all’apparenza più piccolo, semplice,
che rinuncia alle avventure di genere e si ritrova quasi costretto nella
dittatura dei ricordi e nei canoni del racconto di formazione. Perché non è
molto difficile riconoscere gli elementi della autobiografia nella figura
dell’undicenne Paul Graff. A cominciare dai capelli rossi dello straordinario
protagonista, Banks Repeta. E, ovviamente, dal ritratto di questa complicata
famiglia ebrea ucraina, terreno in cui affondano le radici del cinema di Gray,
sin dai tempi di Little Odessa. Paul frequenta la sesta in una scuola pubblica
del Queens. Ha un’immaginazione vivida, ama il disegno e sogna di diventare un
artista. Ma, come direbbe il padre, vive tra le nuvole, sopravvaluta la sua
intelligenza e forse non ha nemmeno il talento per riuscire in qualcosa. Magari
è davvero lento, come sostengono gli insegnanti, stanchi della sua
indisciplina. Si preparano, dunque, decisioni importanti sul suo futuro. E la
situazione peggiora quando Paul stringe amicizia con un ragazzo nero, John
Davis, dalla vita familiare disastrata.
C’era una volta a New York, 1980… Gray torna alla Babele
americana. Che da un lato è l’immagine fondativa dell’immigrant sbarcato a
Ellis Island, in cerca della Terra delle opportunità. E dall’altro è
l’esperienza particolare di un ragazzino che scopre l’esistenza della Storia
nei racconti dei grandi o nel brusio indistinto dell’attualità. La Storia che
si infiltra tra gli spazi vuoti dell’immaginazione, fino a divorarne i margini
di libertà. Con la verità di cicatrici familiari e di conflitti sociali
profondi. La persecuzione e la diaspora, i rapporti complicati tra la comunità
ebraica e quella afroamericana, l’essenza razzista e classista di un sistema
sociale. Tutto inasprito dallo spirito dei tempi, di Reagan che TV prepara la
sua affermazione elettorale, o dei Trump che sostengono economicamente le
scuole dell’élite e predicano la filosofia della lotta e dell’affermazione
personale. L’Armagideon Time della canzone dei Clash, che ispira il titolo e
che riecheggia più volte nell’austera partitura musicale del film. A lot of people won’t get no justice
tonight.
Ecco. Se
davvero per Gray il punto cruciale è il momento in cui si incrinano i sogni, è
ovvio come tutto si rifletta in un discorso politico sul grande sogno
d’America. Però sempre a partire da una sensazione di non appartenenza, dalla
percezione di un’estraneità profonda, radicale. Ed è proprio sulla comprensione
di questa radice, che Gray cerca una riconciliazione con il passato. Disegnando
la splendida figura del nonno Aaron (Anthony Hopkins), amorevole punto di
riferimento morale. E ancor più del padre Irving (un magnifico Jeremy Strong),
anch’egli alla ricerca di riferimenti, di esempi, di una dirittura morale
sempre più difficile.
Sarà per questo che anche la forma sembra farsi più delicata
e pacificata, cercare un’invisibilità classica che rinunci a quei residui
d’eccesso, d’entropia quasi ciminiana dei film precedenti. Addirittura, forse
per la prima volta nel cinema di Gray, emergono i riferimenti a un cinema dei
padri, come quei continui rimandi a I 400 colpi, che funziona da specie di
filtro immaginario al libero flusso dei ricordi personali. Ma non c’è,
comunque, un’inquadratura che non abbia una sua necessità di forma e di senso,
in cui non emergano tutte le stratificazioni di un pensiero e di una visione. È
solo il meraviglioso punto di congiunzione tra la semplicità e la densità. Dove
si dissolve la rabbia. Ma resta un senso dolente di frustrazione e disincanto.
L’impasse della reazione, la protesta che muore in gola e che può farsi solo
gesto. Inutile forse, ma comunque un segno di qualcosa. Della necessità e della
difficoltà di essere mensch, di essere umani.
Regia: James Gray
Interpreti: Banks Repeta, Jaylin Webb, Anthony
Hopkins, Anne Hathaway, Jeremy Strong, Ryan Sell, Tovah Feldshuh, Marcia
Haufrecht, Teddy Coluca, Dane West, Richard Bekins, Landon James Forlenza, John
Diehl, Jessica Chastain, Lauren Yaffe, Andrew Polk
Distribuzione: Universal Pictures Italia
Durata: 115′
Origine: USA, 2022
Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 22 Marzo 2023 di Aldo Spiniello
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