venerdì 24 marzo 2023

ARMAGEDDON TIME di James Gray (2022)

 

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, Armageddon Time è il film più piccino e personale di James Gray, all’ennesima prova più che convincente, altro prezioso tassello di una parabola autoriale che non conosce confini di genere e che guarda al cinema con una profondità e consapevolezza oramai rarissima. Ambizioso, figlio e discepolo degli anni Settanta, Gray scrive e dirige un coming of age dai contorni fortemente autobiografici e dall’afflato sorprendentemente politico. Memorabile Anthony Hopkins, ma sono le esili spalle del giovanissimo Michael Banks Repeta a caricarsi il peso dell’intero film.

When Jewish Eyes Are Smiling

1980. Secondogenito undicenne di una famiglia borghese del Queens, Paul si mette ripetutamente nei guai a scuola, stringe una sincera amicizia con un ragazzo afroamericano, di estrazione sociale completamente diversa dalla sua, e si scontra coi genitori quando decidono di trasferirlo in una esclusiva scuola privata. Molto legato al nonno materno, Paul scopre l’arte, come purtroppo funziona il mondo e le gioie e i dolori del diventare grande. Sullo sfondo, minacciosa, incombe la prima presidenza del repubblicano Ronald Reagan…

I prodromi della presidenza Reagan, ma anche le prime tracce di Trump; la comunità ebraica e la comunità afroamericana; le classi sociali, l’istruzione, le aspirazioni e le reali prospettive. Insomma, come funziona il mondo, come funzionano gli Stati Uniti. D’ispirazione autobiografica, scritto e diretto da James Gray, Armageddon Time è un coming of age ma è anche – forse soprattutto – un film politico. Lucidissimo, trattenuto come si conviene nella messa in scena, quasi spietato nel ritrarre gli States tra il 1980 e il 1981, anni non casuali, la vera fine dell’utopia degli anni Sessanta\Settanta. Arriva quasi tutto da lì, da quella sconfitta, da quel riflusso. Cast superbo, da Anthony Hopkins al giovanissimo Michael Banks Repeta.

Di padri e figli, di famiglie, di crescita e cambiamenti, James Gray ci ha già raccontato molte volte, declinando questi temi su più fronti, dai bassifondi newyorchesi fino allo spazio profondo, tra le stelle e l’infinito. È sempre stato ambizioso il cinema di Gray, dalla scrittura alla messa in scena: si vedano, ad esempio, le poche sequenze action di Ad Astra, veri e propri giochi di prestigio. Oppure la grandeur produttiva di Civiltà perduta, inno a un cinema sempre più raro da scovare, forse in via d’estinzione. Adesso, poco dopo un altro splendido film generazionale, Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson (altro autore che sembra aver viaggiato nel tempo), Gray apparentemente arretra sul piano produttivo, parlando (in)direttamente di se stesso, degli anni della sua formazione, di un decennio che è stato sconfitto. Un racconto pre-adolescenziale, sentimentale, ancor più minimalista del dolente e disilluso Two Lovers.

Armageddon Time mette in scena alcuni decisivi spartiacque, connessi tra loro, anche se di dimensioni e con conseguenze di divergenti proporzioni. Il passaggio dalla fanciullezza all’età delle responsabilità per Paul e un percorso non dissimile per la sua famiglia e per il padre, uomo forse inadatto a essere un nuovo punto di riferimento. E, decisamente su un’altra scala, lo spartiacque degli Stati Uniti, la fine di quello che è stato e l’inizio di quello che sarà – anche nel cinema, tra l’altro, con il traumatico tonfo della New Hollywood e il rapido affermarsi di un decennio segnato nel mainstream da un evidente disimpegno etico ed estetico.

La regia che appare così classica, quasi invisibile, si sposa con questo preciso momento storico, con questa chiusura: l’assenza di evidenti virtuosismi, pur in una messa in scena assolutamente perfetta e calibrata, è la chiave di lettura di questo tramonto, è l’ultimo vagito di un modo di essere, di un’eleganza formale che verrà travolta e sconquassata dal rombante cinema degli anni Ottanta. L’eleganza formale è anche il veicolo ideale per la statura morale di Aaron Graff (Hopkins), il nonno di Paul, baluardo di una moralità capace di scavalcare classi sociali e appartenenze – lui è, al contempo, ebreo e giusto per le nazioni, è la pietra di paragone che smaschera le fragilità di Irving (Jeremy Strong), il padre di Paul, e l’esempio da seguire ma forse impossibile da replicare. Perché i tempi, appunto, sono irrimediabilmente cambiati.

Ed è, il nonno di Paul, la bilancia tra aspirazioni e necessità, tra sogni e vita reale, tra fanciullezza ed età adulta. Grazie a una scrittura che abbonda di chiaroscuri, Gray riesce a racchiudere nel microcosmo della famiglia Graff un ampio ventaglio di umanità, di punti di vista, di esperienze: come in una eterna lotta tra il Bene e il Male, il piccolo Paul dovrà capire e capirsi, prendere decisioni non facili per la sua età. Da che parte stare? Potrà davvero essere amico di Johnny Davis (Jaylin Webb), ragazzino afroamericano che sogna la NASA?

Armageddon Time ci mette di fronte al tradimento sistematico dell’american dream, trascinandoci nel nido del capitalismo cannibale, tra le mura linde e pinte e i danarosi computer della Kew-Forest School, la scuola preparatoria foraggiata dai Trump. La scuola dei divoratori di sogni.

Pubblicato su quinlan.it 05/21/2022 di Enrico Azzano

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È da anni che cerchiamo di raccontare la grandezza di James Gray, forse riuscendoci solo in parte. Perché la verità è che ogni suo film ha il potere di smuovere un nucleo di emozioni sepolte, di far venire a galla qualcosa che vorremmo tenere segreto, al riparo dallo sguardo degli altri, persino dalla nostra effettiva comprensione. Qualcosa che riguarda l’incapacità di dare espressione e rendere realtà il flusso dei desideri e delle aspirazioni. La difficile necessità di scendere a patti con i limiti e le mancanze. Quelle ferite della coscienza che si aprono a ogni rinuncia e compromesso, tutte le volte che siamo costretti a misurare la distanza da un modello ideale o immaginario, che siamo presi nel groviglio conflittuale dei rapporti più intimi. Tutto ciò che vorremmo rimuovere e dimenticare.

Quindi, con Gray è come se si spalancasse ogni volta una voragine. E non fa eccezione il suo film all’apparenza più piccolo, semplice, che rinuncia alle avventure di genere e si ritrova quasi costretto nella dittatura dei ricordi e nei canoni del racconto di formazione. Perché non è molto difficile riconoscere gli elementi della autobiografia nella figura dell’undicenne Paul Graff. A cominciare dai capelli rossi dello straordinario protagonista, Banks Repeta. E, ovviamente, dal ritratto di questa complicata famiglia ebrea ucraina, terreno in cui affondano le radici del cinema di Gray, sin dai tempi di Little Odessa. Paul frequenta la sesta in una scuola pubblica del Queens. Ha un’immaginazione vivida, ama il disegno e sogna di diventare un artista. Ma, come direbbe il padre, vive tra le nuvole, sopravvaluta la sua intelligenza e forse non ha nemmeno il talento per riuscire in qualcosa. Magari è davvero lento, come sostengono gli insegnanti, stanchi della sua indisciplina. Si preparano, dunque, decisioni importanti sul suo futuro. E la situazione peggiora quando Paul stringe amicizia con un ragazzo nero, John Davis, dalla vita familiare disastrata.

C’era una volta a New York, 1980… Gray torna alla Babele americana. Che da un lato è l’immagine fondativa dell’immigrant sbarcato a Ellis Island, in cerca della Terra delle opportunità. E dall’altro è l’esperienza particolare di un ragazzino che scopre l’esistenza della Storia nei racconti dei grandi o nel brusio indistinto dell’attualità. La Storia che si infiltra tra gli spazi vuoti dell’immaginazione, fino a divorarne i margini di libertà. Con la verità di cicatrici familiari e di conflitti sociali profondi. La persecuzione e la diaspora, i rapporti complicati tra la comunità ebraica e quella afroamericana, l’essenza razzista e classista di un sistema sociale. Tutto inasprito dallo spirito dei tempi, di Reagan che TV prepara la sua affermazione elettorale, o dei Trump che sostengono economicamente le scuole dell’élite e predicano la filosofia della lotta e dell’affermazione personale. L’Armagideon Time della canzone dei Clash, che ispira il titolo e che riecheggia più volte nell’austera partitura musicale del film. A lot of people won’t get no justice tonight.

Ecco. Se davvero per Gray il punto cruciale è il momento in cui si incrinano i sogni, è ovvio come tutto si rifletta in un discorso politico sul grande sogno d’America. Però sempre a partire da una sensazione di non appartenenza, dalla percezione di un’estraneità profonda, radicale. Ed è proprio sulla comprensione di questa radice, che Gray cerca una riconciliazione con il passato. Disegnando la splendida figura del nonno Aaron (Anthony Hopkins), amorevole punto di riferimento morale. E ancor più del padre Irving (un magnifico Jeremy Strong), anch’egli alla ricerca di riferimenti, di esempi, di una dirittura morale sempre più difficile.

Sarà per questo che anche la forma sembra farsi più delicata e pacificata, cercare un’invisibilità classica che rinunci a quei residui d’eccesso, d’entropia quasi ciminiana dei film precedenti. Addirittura, forse per la prima volta nel cinema di Gray, emergono i riferimenti a un cinema dei padri, come quei continui rimandi a I 400 colpi, che funziona da specie di filtro immaginario al libero flusso dei ricordi personali. Ma non c’è, comunque, un’inquadratura che non abbia una sua necessità di forma e di senso, in cui non emergano tutte le stratificazioni di un pensiero e di una visione. È solo il meraviglioso punto di congiunzione tra la semplicità e la densità. Dove si dissolve la rabbia. Ma resta un senso dolente di frustrazione e disincanto. L’impasse della reazione, la protesta che muore in gola e che può farsi solo gesto. Inutile forse, ma comunque un segno di qualcosa. Della necessità e della difficoltà di essere mensch, di essere umani.

Regia: James Gray

Interpreti: Banks Repeta, Jaylin Webb, Anthony Hopkins, Anne Hathaway, Jeremy Strong, Ryan Sell, Tovah Feldshuh, Marcia Haufrecht, Teddy Coluca, Dane West, Richard Bekins, Landon James Forlenza, John Diehl, Jessica Chastain, Lauren Yaffe, Andrew Polk

Distribuzione: Universal Pictures Italia

Durata: 115′

Origine: USA, 2022

Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 22 Marzo 2023 di Aldo Spiniello


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