giovedì 30 marzo 2023

PACIFICTION di Albert Serra (2022)


Location: Tahiti, la più grande isola nel gruppo delle Isole del Vento della Polinesia Francese. Nella prima sequenza vediamo arrivare dal mare in un porticciolo un gommone con un gruppo di marinai insieme al loro capitano che comanda la squadra dei militari, siamo al tramonto su quella che ancor oggi si può definire, a ragione, un autentico paradiso terrestre. Subito dopo, nello stesso locale notturno dove si sono recati i marinai, scopriamo un signore elegante e inconfondibile, di cui conosceremo, nel corso del film lungo la bellezza di 165 minuti solo il cognome, sempre vestito in maniera impeccabile con un completo doppiopetto bianco su una camicia fantasia hawaiana. È sicuro e calcolatore ma anche felpato e sfuggente come un gatto; apprendiamo che si chiama De Roller (Benoît Magimel) ed è l’Alto Commissario, il rappresentante del governo francese in loco. Un uomo che pur avendo a che fare con persone molto diverse – tanto nelle occasioni e nei ricevimenti ufficiali quanto nelle riunioni e/o nei luoghi appartati e sospetti – si aggira e mantiene un aplomb assolutamente impenetrabile, senza lasciar mai trasparire nulla dei suoi sentimenti e ancor meno di quanto realmente pensi. Il suo compito dunque – tra il bonario e l’amichevole (quasi sempre) ma sfoderando talvolta qualche unghia minacciosa quando serve per mostrare il suo potere (per quanto piccolo) – consiste nel tastare il polso della situazione, capire e placare un possibile malcontento della popolazione locale che potrebbe esplodere in qualunque momento. Soprattutto adesso che si sta piano piano spargendo la voce a Tahiti della presenza di un sottomarino o di una unità navale fantasma, con la possibilità non remota che possano venir ripresi in zona i test nucleari della Francia, dopo quelli effettuati nel 1996 nell’atollo di Mururoa, che avevano portato a grandi proteste e poi interrotti dal presidente Chirac.

De Roller vorrebbe calmare le acque ma lui stesso non è ben informato sulla situazione e sulle intenzioni reali del suo governo, cerca dunque di indagare su indizi sfuggenti, nella notte, tipo una barca con un gruppo di donne locali, diciamo così disponibili, che si allontanerebbero misteriosamente sul mare forse per compiacere l’equipaggio del sottomarino fantasma. E poi si aggira furtivo ed attento, come un pesce vigile in un acquario variegato, nel sottobosco dell’isola, fatto di lotte di galli e danze tribali, di potenziali rivoluzionari che combattono l’indipendenza e di agenti stranieri americani oltre ad avventurieri come il padrone della principale discoteca dell’isola, il Paradis. Oppure si incontra con uno strambo diplomatico (???) portoghese che ha perso passaporto e memoria, e con una scrittrice di successo rientrata a Tahiti ma in crisi d’ispirazione, ecc. ecc.

Se un debole De Roller lo ha, è soltanto nei confronti di Shannah, la bella receptionist di un hotel, la cui identità sessuale è fluida come tutto il film, che piano piano avanza di ruolo, diventando collaboratrice e probabilmente amante del nostro spregiudicato Alto Commissario – in parallelo a quanto è accaduto a chi lo/la interpreta, cioé Pahoa Mahagafanau inizialmente previsto/a come una comparsa e che poi ha sempre più preso peso nel film, diventando un perfetto esempio di māhū.

La sequenza finale con cui si chiude circolarmente il film, all’alba, vede allontanarsi in mare la squadra di marinai dell’inizio con il comandante che spiega in macchina allo spettatore cosa stia realmente per avvenire – una sequenza forse obbligata  e non voluta dal regista che potrebbe essere stata una concessione nei confronti della produzione, a chiudere un’opera che invece sino a quel momento aveva vissuto in una straordinaria atmosfera di sospensione della consecutio narrativa, per abbondonarsi ad un mood tanto allusivo e oscuro, quanto meravigliosamente criptico. 

Ispirato all’autobiografia dell’attrice polinesiana Tarita Tériipaia (la terza moglie di Marlon Brando), Pacifiction di Albert Serra – autore per altro poco noto al grande pubblico ma viceversa, già da anni, un must della cinefilia più attenta che qui però fa un grande salto di qualità rispetto al passato – è dunque un formidabile rondò di incontri, illusioni e allusioni. Una ronde, un girotondo in un mondo attraversato dalla crisi del post colonialismo con tutto ciò che ciò significa, dagli interessi strategici a quelli turistici, morali ed ecologici. Un film affascinate, ascondito e misterioso come il suo titolo che potrebbe significare “pacificazione” o “fiction nel Pacifico” o ancora altro. Ma non è solo il fascino esotico del luogo a diventare in sé una calamita straordinaria di interesse – già la lunga, ultra-spettacolare sequenza di surf è di una bellezza cinematografica e di una forza a dir poco emozionate (pari a quelle straordinarie di un John Milius o di una Kathryn Bigelow) e lei sola basterebbe a consigliare un film che passato quasi in sordina negli ultimi giorni dello scorso Festival di Cannes (e in Italia al Torino FF) non ha riscosso il successo e l’interesse che per noi merita. Accanto alla formidabile regia del regista catalano (classe 1975) con la passione per la Storia francese che qui per la prima volta lascia il passato per raccontare l’oggi, oltre alla bontà della rara fotografia di Artur Tort, l’eccellenza del risultato è gran merito dell’interpretazione a dir poco superlativa di Benoît Magimel. A lui, a ragione, è andato di recente il Cesar 2023 per la migliore interpretazione maschile – non meritato, meritatissimo. 

Pacifiction/Tourment sur les îles – Regia e sceneggiatura: Albert Serra; fotografia: Artur Tort; montaggio: Albert Serra, Artur Tort, Ariadna Ribas; musica: Marc Verdaguer, Joe Robinson; scenografia: Sebastian Vogler; interpreti: Benoît Magimel (de Roller), Pahoa Mahagafanau (Shannah), Marc Susini (l’ammiraglio), Matahi Pambrun (Matahi), Alexandre Mello (il portoghese), Montse Triola (Francesca), Michael Vautor (il capitano), Cécile Guilbert (Romane Attia), Lluís Serrat (Lois), Mike Landscape (Mr. Mike); produzione: Idéale Audience Group (France), Andergraun Films (Spain), Tamtam Film (Germany), Rosa Filmes (Portugal); origine: Francia/Spagna/Portogallo/Germania, 2022; durata: 165 minuti; distribuzione: Movie Inspired.

Pubblicato su close-up.info, 30/3/2023 di Giovanni Spagnoletti

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Albert Serra si libera delle coordinate temporali, dei costumi, delle parrucche della Francia del Settecento di La mort de Louis XIV e di Liberté, per viaggiare alla volta della Polinesia francese. E sembra quasi ritrovare l’immaginario di Gauguin in fuga, alla scoperta di Tahiti, il paradiso aurorale di un mondo prima dell’inizio della Storia.  “Godo tutte le gioie della vita libera, animale e umana. Sfuggo alla fatica, penetro nella natura: con la certezza di un domani uguale al presente, così libero, così bello, la pace discende in me; mi evolvo normalmente e non ho più vane preoccupazioni”.

È perfettamente logica, dunque, la rinuncia di Pacifiction a qualsiasi inseguimento affannoso di una temporalità conseguenziale. Proprio perché tutt’intorno è l’Eden, siamo nello spazio che precede il peccato e la caduta. La trama non è che un’infinita divagazione, un alto commissario del governo francese alle prese con una serie interminabile di appuntamenti, incontri, colloqui con personaggi di vario genere. Europei, polinesiani, politici, militari, gente comune. Un continuo discorrere senza un punto. Ma quando non c’è la possibilità racconto, molto spesso non resta che la contemplazione. E così, su tutto, trionfa l’immagine di una natura sublime.

Ma Serra sa benissimo che l’esperienza estetica e panica di un mondo incontaminato non è che la versione estrema di una sofisticazione intellettuale, l’ultima ipotesi d’evasione di una cultura ormai esausta, che ha già sperimentato la dissoluzione organica dei suoi simboli istituzionali e delle sue aspirazioni libertarie (o libertine). Cioè quella consunzione messa in mostra in La mort de Louis XIV e Liberté. Oltre la quale, non rimane che la constatazione di un mondo svuotato. Dove tutto ciò che nasce è già consumato. Dove anche la fascinazione esotica ha compiuto il breve passo per trasformarsi nella vacuità di un’esperienza turistica. Turismo elitario, ma pur sempre venduto a pacchetti. E quindi, tra le meraviglie del paesaggio, è tutto un pullulare di resort di lusso, di night club. Un paradiso da vacanzieri e da surfisti, in cui, tra le note dei Beach Boys, attendi l’ebbrezza della grande mareggiata. Che puntuale arriva, nella stupenda scena delle barche che cavalcano la cresta delle onde.

Rispetto a tutto questo, il protagonista, questo incredibile Benoît Magimel in libera decadenza fisica, col suo abito bianco, assomiglia a una specie di Fitzcarraldo stanco. Il residuo raffinato di un colonialismo decadente, fuori tempo massimo. La cui conversazione, arte intimamente politica, è diventata una digressione infinita, un flusso di pensieri, appunti, notazioni, umori. Una specie di monologo, visto che gli altri, molto spesso, non sembrano neanche capire davvero. E a poco a poco, si va quasi alla deriva. Che sia questo il Paradiso? Come in un esercizio estremo di liberazione cinematografica, avvertiamo la possibilità di perdere tempo, di staccarci dagli obblighi di una visione istituzionale, di uscire e entrare dal film, dalla sala. Anzi, nella accurata composizione delle sue immagini concluse, verrebbe quasi voglia di consumare il film a frammenti, magari su una spiaggia, distesi su una sdraio, con un cocktail in mano. Per capitare distrattamente tra le scene, sedersi ogni tanto ad ascoltare le farneticazioni di Magimel, all’ombra di una palma. Anche se, poi, ti rendi conto di tutti quei segni inquieti, di un sottofondo di mistero e complotto, che si nasconde sotto la superficie del mare, per emergere sul finale, in tutta la sua forma definita e minacciosa. Il tempo torna urgente e la storia si prepara a distruggere il paradiso. L’apocalisse definitiva della bellezza.

Pubblicato  su sentieriselvatti.it , 27 Maggio 2022 di Aldo Spiniello

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Nell’isola di Tahiti, nella Polinesia francese, l’Alto Commissario della Repubblica De Roller, rappresentante dello Stato francese, è un uomo di calcolo dalle maniere perfette. Nei ricevimenti ufficiali come gli stabilimenti loschi, prende costantemente il polso di una popolazione locale da cui può emergere rabbia in qualsiasi momento. Tanto più che una voce si fa insistente: è stato visto un sottomarino la cui presenza spettrale annuncerebbe una ripresa dei test nucleari francesi. [sinossi]

Quando esordì diciannove anni fa, nel 2003, con l’oramai dimenticato Crespià: the Film not the Village, l’allora ventottenne Albert Serra affermò: “Volevo fare un’opera d’arte, ma non sono stato in grado di realizzare la mia ambizione. Ho finito per fare un film d’autore”, per poi aggiungere “Odio i documentari. Sono la scusa perfetta per le persone prive di immaginazione. Ma se questo film è il ritratto di un mondo che è prossimo a svanire, può essere considerato un ‘documento’”. Nonostante siano trascorsi quasi due decenni da quelle affermazioni Serra non sembra in alcun modo aver modificato il proprio punto di vista, continuando a rifuggire in maniera decisa il documentario ma mettendo in fila un numero non indifferente di documenti, e ricercando l’opera d’arte pur essendo incasellato oramai nel “film d’autore”. È questa la nicchia in cui è stato accolto per il concorso del Festival di Cannes, dove ha fatto la sua prima apparizione con Pacifiction (il titolo francese è Tourment sur les îles, grondante romanticismo), dopo le precedenti selezioni in Un certain regard (Liberté), séances spéciales (La Mort de Louis XIV) e Quinzaine des Réalisateurs (Honor de cavaleria, El cant dels ocells). Accolto con estrema freddezza, quasi spaesamento, Pacifiction a prima vista sembra scrollarsi di dosso il peso del passato per tornare a confrontarsi con un tempo presente per la prima volta dopo l’esordio: niente più Diciottesimo Secolo, niente più Ancien Régime, ma la Francia repubblicana, senza più colonie ma con le “collettività d’oltremare”. Il film si svolge infatti nella Polinesia Francese, un paradiso terrestre dove ci si può lasciare cullare da onde mostruose, sorvolare atolli da lasciare senza fiato o addormentarsi di fronte a un tramonto da cartolina. È quella la terra che amministra De Roller, Alto Commissario della Repubblica: lo fa muovendosi di incontro in incontro, dialogando con i locali, con gli statunitensi, con gli europei, con chi gestisce un’attività. Lo fa saltando di luogo in luogo, facendosi portare a un passo dall’onda più grande, andando in discoteca, raggiungendo gli avamposti più estremi di una terra che sembra non avere una definizione geografica evidente.

Come ne La Mort de Louis XIV Serra si avventura in direzione della messa in scena dell’esercizio dello Stato, ma se lì ne mostrava la putrefazione, con il corpo del re prossimo all’ultimo respiro, qui si è già un passo più in là, nella completa mancanza di una reale struttura da mandare avanti. Così come non ha tecnicamente senso l’opera di De Roller, vanificata in ogni suo scopo anche perché come sottolinea lui stesso non possiede in realtà alcun potere concreto, allo stesso modo Serra decide di disincagliarsi dalle secche della narrazione per procedere in modo ondivago, privo di una direzione apparente. Lavorando quasi senza sceneggiatura, il regista spagnolo lascia che il film vada alla deriva, si perda: il labile legaccio che ancora lo avvince alla logica è dettato solo dal vago sentore di una spy-story che non prenderà mai davvero corpo e che ruota attorno alla possibilità che la Marina Francese si stia organizzando per nuovi test nucleari nelle acque della zona, come quelli sull’atollo di Mururoa che scatenarono proteste a livello mondiale tra l’autunno e l’inverno del 1995. Ma anche in questo caso si tratta di un giro a vuoto (“in tondo? A spirale?”, si chiedono nel film) per il quale non può esserci una risoluzione definitiva, né uno sviluppo. Serra segue il suo personaggio nell’infinita rete di incontri, ufficiale o meno che siano, e lo sente dialogare come se quelle parole, pur disincarnate da qualsiasi senso concreto, potessero ancora testimoniare la verità dello Stato, la sua necessità, una logica in grado di dettare i ritmi della vita pubblica. Ma De Roller a dire il vero sembra quasi sempre parlare a se stesso, in una funzione che è percepita quasi solo come rituale: la morte dello Stato è sopravvenuta, ora rimane solo il suo vagare in una terra di fantasmi, un paradiso impossibile sognato anche da Paul Gauguin.

Pacifiction, pacificazione, ma anche rimando all’Oceano Pacifico, e volendo alla pace-finzione, quel superamento del vero dichiarato che è la base portante del pensiero cinematografico di Serra. Un Serra che qui forse compone il suo canto più libero e allo stesso tempo quello che richiede la maggior volontà di ascolto, come le immagini maestose di una natura che era lì prima dei francesi e lì sarà anche qualora i francesi non ci fossero più. Solo la Marina, l’agente di guerra, ha ancora la forza della retorica patriottarda, quella che a De Roller oramai manca, sfiancato da un’esistenza in cui lo Stato si è assottigliato, ha perso i contorni netti che aveva quando era giovane. L’Alto Commissario è uno sconfitto che ha accettato la propria perdita in modo indolore, e si muove bolso e quasi ridicolo di spazio in spazio, di luogo in luogo, di pensiero in pensiero. Benoît Magimel è straordinario nella sua capacità di rendere l’indefinibile soavità della decadenza, la pesantezza leggiadra di un colonialismo fatto a pezzi solo a parole, ma mai nella concretezza dei fatti. Corpo cinematografico sfatto, Magimel nel suo completo d’ordinanza è l’epitome di un film che a sua volta ha accettato la decadenza dell’immagine, e di un tempo svuotato di senso, e ha il coraggio estremo di mettere tutto ciò in scena. Con una minaccia di distruzione che è la catastrofe definitiva, e su cui anche il cinema non può che chiudere andando di colpo sullo schermo nero, senza soluzione.

Pubblicato  su quinlan.it , 28/05/2022 di Raffaele Meale

 

 

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