Parte come uno conflitto tra popoli diversi. Francesi da una
parte, spagnoli da una parte. La separazione in As Bestas diventa ancora più
netta rispetto al precedente film di Rodrigo Sorogoyen, Madre, che era
ambientato a Vieux-Boucau-les-Bains, comune francese della Nuova Aquitania.
L’estraneità, il disagio di non far parte del luogo viene ulteriormente
accentuata nel sesto lungometraggio del cineasta spagnolo che di svolge a
Bierzo, un piccolo villaggio nella campagna della Galizia. Antoine (Denis Ménochet)
e Olga (Marina Foïs) si sono trasferiti lì da tempo, praticano un’agricoltura
ecoresponsabile e si occupano della ristrutturazione di case abbandonate per
incrementare il ripopolamento e il turismo sul territorio. Attorno a loro però
si crea un clima ostile soprattutto da quando hanno deciso di ostacolare un
progetto che prevede l’installazione di altre pale eoliche. A rendergli la vita
impossibile sono soprattutto due fratelli, i loro vicini di casa.
La guerra è aperta in As Bestas, proprio come nell’esplosiva
serie poliziesca Antidisturbios, e comincia già dall’incrocio delle tre lingue:
spagnolo, francese, galiziano. Il cavallo bloccato all’inizio del film in
ralenti è già un segno premonitore di quello che accadrà. L’inospitalità del
luogo richiama la ricerca della violenza come legge personale delle relazioni
umane per non farsi sopraffare del cinema di Peckinpah e il paragone più facile
va a Cane di paglia. Ma Sorogoyen, rispetto al cineasta statunitense non
accumula le situazioni fino a farle esplodere. Lascia piccoli segnali, ma mette
già in una situazione di continuo pericolo. Ad Antoine ed Olga può accadere di
tutto in qualsiasi momento. Ci sono tentativi di avvicinamento e appianamento
dei conflitti e poi una sempre maggiore distanza. È un cinema d’impatto
immediato, scritto benissimo (la sceneggiatura, come in tutti gli altri film, è
sempre dello stesso regista in coppia con Isabel Peña) in cui vengono a galla
gli istinti primordiali come nella caccia al serial killer di Che Dio ci
perdoni o nella figura del politico caduto in disgrazia di Il regno. As Bestas
crea una tensione pazzesca in un pezzo di territorio, dal bar frequentato da
Antoine e i due fratelli allo spazio che divide le abitazioni dei vicini. Una
scena di notte, con l’automobile che blocca la strada, conferma tutta la
potenza del cinema del regista che non cerca mai inutili soluzioni visionarie o
improvvise accelerazioni. Al contrario, tende spesso a ritardare lo scontro
fisico. In quel momento lascia la coppia francese con la paura addosso, così
come con la figlia della coppia in tutte le sequenze in cui cammina da sola con
il cane e incrocia uno dei due fratelli. Non c’è il fiume ma la natura
impassibile che diventa una trappola (il bosco) ha più di un eco che rimanda a
Boorman in Un tranquillo weekend di paura. In più prosegue il discorso sul
concetto di legalità che ha spesso attraversato il suo cinema. In As Bestas la
polizia non lascia Antoine ed Olga da soli ma non può intervenire. Una piccola
telecamera diventa così l’unica arma possibile.
La follia non è mai esplicitata. Resta lì nel limbo, nei
silenzi, nelle facce stranianti, nelle tracce di una malattia sotterranea.
Sorogoyen mantiene altissima la temperatura emotiva, sempre surriscaldata
proprio perché non spinge mai il piede sull’acceleratore. Anzi rallenta e fa
respirare la scena dove è proprio il fatto che non succede niente ad alimentare
ulteriormente il crescente nervosismo. Nella seconda parte, anche con le immagini
del paesaggio innevato, l’atmosfera si immobilizza senza mai distendersi e
Marina Foïs si prende il film, anzi no, glielo affida Sorogoyen, con il suo
personaggio spesso in silenzio dove aspetta la prima mossa dell’altro
personaggio per agire o reagire. Il litigio in cucina con la figlia è un
grandissimo momento di As Bestas e una grande lezione di recitazione. Non sono
solo i dialoghi. Ogni singola parola è una lama appuntita. Tutte feriscono.
L’ultima uccide?
Pubblicato su sentieriselvaggi.it 12 Aprile 2023 di Simone
Emiliani
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Con As bestas Rodrigo Sorogoyen indaga ancora l’animo umano,
la sua progressiva discesa verso la follia più inarrestabile, con i barbarici
istinti primordiali che affiorano dal subconscio. Thriller tesissimo, sempre
sul punto di esplodere, As bestas è la conferma del grande talento del regista
spagnolo. Tra le première di Cannes, ma avrebbe meritato il concorso.
I francesi Antoine e Olga si sono trasferiti da alcuni anni
in un paesino della Galizia, con lo scopo di praticare agricoltura
eco-sostenibile e di ristrutturare le vecchie case abbandonate in modo da
favorire il ripopolamento della zona, che soffre di una diaspora dovuta alla
povertà e al fatto che le giovani generazioni non vogliono seguire le
precedenti nel lavoro della terra, o nella pastorizia. La maggior parte della
popolazione locale ha accolto bene i due francesi, i cui ortaggi sono anche
particolarmente apprezzati (“quelli di Antoine sono i migliori pomodori in
circolazione”, dice una signora a Olga durante il mercatino settimanale di
frutta e verdura). Fanno eccezione due fratelli, Xan e Lorenzo – quest’ultimo
rimasto offeso allo sviluppo cerebrale in seguito a un incidente, ma un tempo
pare fosse un ragazzo bellissimo –, che non perdono occasione per provocare
Antoine, in particolar modo quando l’uomo si presenta all’unico bar del paese
per bersi un bicchiere di vino rosso. Il motivo è presto detto: Antoine e Olga
si sono fieramente opposti al progetto di installare nell’area delle pale
eoliche, che avrebbe portato agli abitanti un indennizzo economico perché
costretti ad abbandonare definitivamente il villaggio. È questa la base
portante attorno alla quale ruotano le vicende di As bestas, quarantenne
regista spagnolo giunto al sesto lungometraggio e divenuto nel giro di un pugno
di film e serie (tra queste ultime in particolar modo la recente
Antidisturbios) uno dei nomi più amati dai cinefili europei: titoli come Che
Dio ci perdoni, Il regno, e Madre testimoniano quanto siano giustificate le
speranze di aver “scoperto” un autore in grado di rinnovare l’immaginario
cinematografico continentale. Anche per questo è apparsa in qualche modo
irrituale la collocazione che As bestas ha trovato al Festival di Cannes,
inserito tra le Première quando avrebbe meritato a detta di tutti di prendere
parte al concorso principale: perfino il delegato generale del festival Thierry
Frémaux, presentando il film in sala, è parso giustificarsi asserendo che la
produzione avesse sottoposto tardi l’opera al comitato di selezione, quando il
concorso era già praticamente chiuso. Che ciò sia o meno vero è indiscutibile
come la visione di As bestas resterà come uno dei momenti topici dell’edizione
2022 della kermesse francese.
Sorogoyen apre il suo film riprendendo degli “aloitadores”
che catturano e domano dei cavalli selvaggi potendo contare esclusivamente
sulle loro mani nude: una volta sottomesso al cavallo viene rasata la criniera
e apposto un marchio. La ripresa è al ralenti, da un lato per rimandare a una
dimensione epica, dall’altro per sottolineare l’irrealtà del momento in cui
l’uomo crede di poter dominare e gestire la natura, solo ricorrendo alla
propria forza bruta. Senza aver ancora mostrato i suoi personaggi il regista
spagnolo ha già delineato di fronte agli occhi dello spettatore ciò che accadrà
in scena, vale a dire la progressiva follia umana che retrocede alla bestialità
più ancestrale per paura e desiderio: paura dell’altro, e desiderio di
sottomissione, di conquista. Le montagne brulle della Galizia, le fattorie
quasi irraggiungibili, le mandrie al pascolo, la quasi totale mancanza di
tecnologia, tutto riconduce alla wilderness del western, e d’altro canto As
bestas è la rappresentazione crudele, perfino spietata, di un duello senza
fine, ma che potrebbe esplodere in qualsiasi momento e deflagrare con tutta la
sua dirompente violenza, vale a dire quello che oppone il corpulento ma ben
disposto Antoine ai fratelli Xan e Lorenzo. Il primo è lo straniero, che è
venuto a spezzare l’ordine naturale delle cose, i secondi sono il frutto della
terra – non a caso Xan è un nome tipico galiziano, Lorenzo il nome di uno dei
santi più venerati e amati in Spagna –, anche se non i “migliori”. Sorogoyen è
bravissimo a gestire una tensione latente ma sempre percepibile, e ogni
inquadratura sembra sul punto di conflagrare, come se l’immagine non potesse
essere contenuta all’interno di un quadro: in tal senso appare quantomai
puntuale ed evocativa la splendida locandina approntata per il film, e che
rimanda idealmente a un punto chiave della narrazione, dove non a caso il
movimento di macchina è uno zoom in avanti che chiude sempre di più le
possibilità allo sguardo, rendendo impossibili vie di fuga o d’aria di ogni
tipo.
Se è impossibile, durante la visione di As bestas, non far
correre la mente in direzione del Peckinpah di Cane di paglia o del Boorman di
Un tranquillo weekend di paura, film in cui la natura aspra e barbarica dei
luoghi penetra in profondità nell’animo dei personaggi, fino a guidarli alla
disfatta che è anche trionfo – trionfo dell’immagine come unica
rappresentazione legittima della violenza –, si possono trovare punti di
contatto anche con Il vento fa il suo giro, il film con cui esordì alla regia
Giorgio Diritti e che resta tutt’oggi il parto migliore e più convincente del
cineasta bolognese. Ma la vera forza di As bestas sta nella capacità di
Sorogoyen di non lasciarsi andare al medesimo istinto bestiale che affligge i
suoi personaggi: mentre la slavina avanza la regia non diventa rapsodica ma
continua a trattenere in sé quella violenza, rifiutandosi di mostrarla o di
farla montare in modo definitivo e irreparabile (e infatti i video con cui
Antoine documenta i dispetti sempre più feroci cui è vittima restano quasi del
tutto invisibili, e la polizia non interviene mai in modo concretamente
risolutore). Si resta così continuamente in una situazione sospesa, senza
fiato, angosciati da un thriller che rinnega i punti cardine del genere per
annichilire lo spettatore, sfiancandolo esattamente come si fa con i cavalli
selvaggi. Poi, senza entrare nel dettaglio della trama, c’è un improvviso
cambio di ritmo, di prospettiva, di aria. E Sorogoyen pone al centro dello
sguardo un personaggio rimasto fino a quel momento nelle retrovie, per
dimostrare come esistesse un fuori campo. Esiste sempre un fuori campo,
qualcosa che è distante dal quadro e non si riesce a mettere a fuoco, o forse
non lo si vuole farlo. In quel campo sempre più ristretto invece permane la
violenza, che non può far altro che sclerotizzarsi, fino alle estreme
conseguenze. Lezione di regia e di narrazione, As bestas è la definitiva
consacrazione di un regista sorprendente. L’intero cast è straordinario, ma merita un
plauso particolare Denis Menochet, a dir poco superlativo nel ruolo di Antoine.
Pubblicato su quinlan.it 28/05/2022 di Raffaele Meale
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