Si tratta di quello che Bruno Latour (nel suo volume
postumo, il bellissimo Dove sono?) chiama ‘il disgelo del paesaggio’. “Questo
cambiamento di forma si basa su una constatazione molto semplice: noi umani non
abbiamo mai fatto l’esperienza di incontrare le ‘cose inerti’ che a quanto pare
componevano il mondo ‘materiale’. È evidente se abitate in città, dato che ogni
millimetro del vostro ambiente di vita è stato fabbricato da esseri umani,
vostri simili, ma è altrettanto evidente se state in campagna, dato che ogni
singolo particolare del territorio è opera di un essere vivente, talvolta anche
molto lontano nel tempo. Questa sensazione che le cose abbiano una consistenza
vale per l’intera estensione della zona critica. Le ‘cose inerti’ esistono solo
per un’esperienza del pensiero che vi trasporterebbe, con l’immaginazione, in
un mondo in cui nessuno ha mai vissuto. Di qui sorge la domanda: la sensazione
di questa evidenza modifica oggi il vostro modo di essere, di guardare al
futuro, di situarvi nello spazio, di capire quella che chiamate libertà di
movimento?”
Ecco perché i personaggi di Here guardano spesso davanti a
loro e raramente alle loro spalle, con un espediente rubato al linguaggio delle
soap opera (chi ha familiarità con le telenovele sa che spesso i protagonisti
guadagnano il primo piano avvicinandosi all’obiettivo della camera fissa, con
le altre figure in scena che parlano loro da dietro le spalle o dal fondo del
quadro): la portata dei quesiti che queste storie portano con sé travalica il
gonfio aspetto mélo delle vicende familiari di Richard e Margaret, e anche la
sperimentazione su deaging e velocità di rendering dell’AI, per farsi
riflessione su uno dei problemi centrali del nostro tempo – la nostra posizione
nel campo d’azione dell’immagine, ora che ogni finestra sull’esterno, come
accade decine di volte nel film, si è frammentata in una quantità di schermi
più piccoli che si affastellano gli uni sugli altri davanti ai nostri occhi. Le
volte in cui i protagonisti guarderanno attraverso la grande finestra che
sovrasta il salone si contano sulle dita di una mano, quell’apertura serve
soprattutto per far entrare il fuori nell’interno (i pompieri, gli archeologi)
– e infatti nell’incipit le due sedie vuote voltano le spalle alla finestra,
guardano verso di noi, come un invito a sedersi agli spettatori, per guardarsi
allo specchio (quanto Harold Pinter c’è in tutto questo dispositivo?).
No non ora non qui questa pingue immane frana
È un problema di quadro prospettico, cioè una delle
questioni cruciali delle rappresentazioni artistiche sin dalla notte dei tempi:
non è un caso se Here, nello stesso istante in cui attraversa la cosmogonia di
Terrence Malick e le invenzioni da camera di Michel Gondry, di fatto riparte
dalle origini frontali del dispositivo, e perciò dalla struttura della sit-com,
inquadratura fissa sul salone di casa, il divano come protagonista nascosto,
gli attori che crescono e invecchiano col passare degli episodi e delle
stagioni (la stessa intuizione che aveva avuto il vicino WandaVision, a
pensarci bene). “Come sottolineare una simile mutazione?”, si chiede al
riguardo sempre Latour: “Affermando che i terrestri non si trovano più davanti
a un paesaggio” (la sequenza cruciale in cui rivediamo al contrario i filmini
familiari del capofamiglia Al proiettati sul lenzuolo bianco del quale lo spettatore
si trova alle spalle….).
Ecco allora che la natura prepotentemente immersiva di
questo piano fisso riconnette tutta questa parabola con il destino sempre più
installativo del cinema-che-verrà (Here come La zona d’interesse apparentemente
senza l’Olocausto?), la visione di un panel che interagisce con i nostri occhi
mentre muta e si apre “in diretta” con noi. Esiste ancora la possibilità di un
punto di fuga? Perché i personaggi di Here tutto sembrano volere, tranne che
starci, in questo qui e ora (un’altra delle grandi questioni del
contemporaneo…) – ma le case natali pretendono il loro tributo (come ben sa il
fantasmino di A ghost story), e così Margaret cercherà di andarsene per una
vita intera, il padre di Richard sarà destinato a tornarci per i suoi ultimi
giorni, Richard stesso resterà intrappolato in quel salone da solo, i suoi
sogni infranti come quelli di suo padre.
Alla stregua del fumetto da cui è tratto, Here vuole essere
anche un compendio di come il progresso tecnologico abbia influito sulla nostra
concezione di spazio domestico (l’entrata in scena del televisore, della super8
casalinga, delle poltrone reclinabili, fino alle mascherine da Covid…). In
questo, nella malattia del personaggio di Margaret è contenuta anche
un’indicazione (come già facevano The Father di Zeller e Vortex di Noé) su
quanto la ricostruzione virtuale “aumentata” di ambienti familiari potrà
aiutarci in futuro (a quanto dicono diversi esperti come Federico Faggin e
altri) con la comprensione del deperimento neurologico, di cui conosciamo
ancora molto poco. In altre parole, sempre prese in prestito da Bruno Latour:
“che cosa succederebbe se i protagonisti di questa storia riprendessero a
camminare, voltandosi di nuovo di 90 gradi, stavolta però nella direzione
giusta, per rituffarsi nel flusso delle cose, che a loro volta riprenderebbero
il cammino smettendo così di permettere ad altri di limitarsi a rappresentarle?
Dalla parte degli ‘oggetti’ si produrrebbe un allegro trambusto. […] Anche qui,
di nuovo, è come il disgelo di un fiume. Fine del naturalismo”. Ecco.
Regia:
Robert Zemeckis
Interpreti:
Tom Hanks, Robin Wright, Kelly Reilly, Michelle Dockery, Paul Bettany, Ophelia
Lovibond, Jonathan Aris, Nikki Amuka-Bird, David Fynn, Lilly Aspell, Mitchell
Mullen
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 104′
Origine: USA, 2024
Pubblicato su
sentieriselvaggi.it , 8 Gennaio 2025 di Sergio Sozzo
Pochi metri quadri eletti a casa da una popolazione
indigena nel XV secolo, poi terreno della tenuta di William Franklin, sulla
quale viene eretta una casa all’inizio del XX secolo. La stessa casa che
ospiterà ben tre differenti famiglie nel corso del ‘900, l’ultima delle quali
la abiterà per due generazioni fino alla vendita a dei nuovi abitanti a ridosso
degli anni ’20 del XXI secolo, che la occuperanno nel periodo del covid per
lasciarla nuovamente, nel 2024, ai precedenti proprietari ormai anziani.
Ma, ovviamente, Here non è solo progresso tecnologico,
così come non lo sono stati Chi ha incastrato Roger Rabbit?, Forrest Gump,
Polar Express ed altri titoli importanti nella carriera di Zemeckis che hanno
affrontato a muso duro l’innovazione tecnica.
E non è un caso, dal momento che Here è l’adattamento cinematografico di un graphic novel dallo stesso titolo scritto e illustrato da Richard McGuire nel 2014 come ampliamento di un’opera a fumetti del 1989. Proprio dal linguaggio del fumetto riprende il montaggio a finestre dove nella stessa inquadratura si incontrano diverse epoche.
E qui, in questo audace montaggio, si trova la seconda prova che Zemeckis ha voluto affrontare, ovvero scardinare il linguaggio classico del montaggio cinematografico reinventandolo a favore dell’inquadratura unica. Perché Here utilizza, appunto, una sola inquadratura per 105 minuti, facendo sì che la vita dei personaggi si svolga davanti a quell’obiettivo, almeno nei momenti salienti. Questo implica qualche forzatura nel far collimare luogo ed eventi, ma è necessario alla stessa grammatica intrinseca all’operazione.
Quello che possiamo rimproverare a Here è l’eccessivo affollamento di vite che occupano nel tempo quello spazio. Non adottando una narrazione cronologica e avendo la necessità di spostarsi di continuo da una finestra all’altra, il film di Zemeckis finisce per peccare in affezione. Cioè, è la famiglia Young a spiccare all’interno della varietà di personaggi, ma si ha la sensazione che ci sia sempre troppo poco tempo per raccontarne la storia e per far affezionare lo spettatore a quei personaggi. Per di più, ci sono momenti di fortissima emotività nel film, in cui si affrontano lutti improvvisi, malattie, ma anche la gioia della nascita e alcune belle notizie, solo che c’è sempre una finestra pronta ad aprirsi su un altro momento, magari lontanissimo nel tempo, che interrompe l’intensità di quello che si sta vedendo.
Dopo diversi passi falsi (cerchiamo ancora di dimenticare il suo Pinocchio disneyano), Zemeckis con Here torna a lasciare il segno, a sperimentare un nuovo modo di pensare e portare in scena il cinema. E lo fa riunendo la squadra di Forrest Gump che non si limita a riavere uno a fianco all’altra Tom Hanks e Robin Wright, ma riunisce dopo 30 anni anche lo sceneggiatore Eric Roth, il direttore della fotografia Don Burgess e il musicista Alan Silvestri.
Here non è esente da difetti, anzi è un “esperimento” altamente migliorabile, ma proprio in quanto tale è destinato a farsi ricordare e ribadire come il cinema sia un mezzo dalle possibilità espressive praticamente illimitate.
Pubblicato su darksidecinema.it
il 10 Gennaio 2025
La premessa è nota: McGuire, classe 1957, creò nel 1989, con sole 36 vignette in bianco e nero sulla rivista Raw, quello che viene considerato un capolavoro e un’opera rivoluzionaria nel mondo del fumetto, capace di cambiarne per sempre la prospettiva. Il fumetto racconta eventi accaduti in un singolo angolo di una stanza in Pennsylvania durante diversi momenti della storia. La prospettiva temporale copre praticamente tutta la storia del pianeta o quasi. E la versione espansa di oltre 300 pagine pubblicata da McGuire nel 2014 rende giustizia all’ambizione iniziale dell’opera, portandola su un livello ancora più alto.
Zemeckis, nato invece nel 1952, regista rivoluzionario e pluripremiato (dagli Oscar ai Golden Globe fino agli Emmy), ha girato grandi successi come Ritorno al futuro e Forrest Gump, ma anche film meno apprezzati come The Polar Express, Monster House, Beowulf e Pinocchio. Avido sperimentatore e innamorato perso degli effetti speciali, per Here Zemeckis ha usato una tecnologia basata sulla AI mai sperimentata prima, che consente di invecchiare o ringiovanire gli attori in tempo reale durante le riprese.
Cominciamo dal tempo della narrazione, che è la chiave visiva dell’opera di McGuire: Zemeckis e il suo co-sceneggiatore Eric Roth (Forrest Gump, Dune, Killers of the Flower Moon) lo hanno compresso, sfrondato, intessuto in maniera più stretta attorno a pochi archi narrativi, ridotto nella durata temporale e reso più discorsivo rispetto al fumetto. L’operazione non ha snaturato il testo originale ma ne ha reso visibile un “trucco” che McGuire gestisce con più eleganza (e che poi è il problema maggiore del film).
Si tratta della trama, costruita attorno all’intreccio di storie normali, piccolo-borghesi di poche persone che vivono vite anonime nella provincia americana attraverso i secoli (pure tra gli indiani). Queste storie, se rimangono solo alluse e intrecciate per giustapposizione silenziosa, sono più misteriose, evocative e quindi universali. Se invece vengono esplicitate, si trasformano in una serie di storie americane “piccole piccole”. O, meglio, dal punto di vista dello spettatore, di una clamorosa crisi di mezza età. Un rendersi conto del cambiamento del tempo e della mortalità di tutti, inclusi noi stessi. Dato che a quanto pare lo spettatore tipo di questo film per Zemeckis è una persona di mezza età, l’operazione risulta particolarmente “esclusiva” per le altre categorie. Ma anche su questo torniamo tra un attimo.
La seconda leva che Zemeckis ha usato per risolvere il suo problema è stata quella della recitazione del suo cast. Un cast che ha cercato evidentemente una propria chiave di lettura per personaggi che sono stereotipi di alto livello. Non a caso c’è anche Michelle Dockery, donna di fine Ottocento ma che è anche un volto estremamente conosciuto dal grande pubblico per il ruolo di Lady Mary Crawley nello sceneggiato Downton Abbey. La ricerca del cast è andata in una sola direzione: quella della messa in scena teatrale (sul perché ci torniamo anche qui tra un attimo), e questo ha portato alla rigidità e platealità delle mosse di Hanks e Wright a cui facevo cenno prima e a un generale modo di entrare e uscire dalla scena che è artificiale e costruito, così come molti dialoghi.
Arriviamo alla cinematografia, terza leva per Zemeckis. La scelta di avere la stessa inquadratura fissa, come nel fumetto, sciogliendo però nei dialoghi lo scorrere parallelo e silenzioso, ondivago e allusivo del fumetto, ha un effetto positivo e uno negativo. Quello positivo è che rende il film esteticamente molto gradevole, e la sua sperimentazione risuona facilmente comprensibile anche a chi non ha mai letto il fumetto. Questo rafforza, insieme alla struttura della storia (anche questa presa dal fumetto) la coerenza del lavoro di Zemeckis. Invece, introduce uno spazio unico in cui per di più si gioca una specie di Morte di un commesso viaggiatore in minore, che tocca un riflesso condizionato di quasi tutti gli attori verso una recitazione teatrale molto spinta.
Si salvano da questo soprattutto Paul Bettany, come dicevo sopra, che è un attore secondo me eccezionale e non ancora sfruttato al meglio. E poi Kelly Reilly, che nel film recita la parte di sua moglie. Forse, a ben guardare, è la sua recitazione quella più intensa e credibile del film, seguita di misura da quella di Bettany.
C’è già in rete un certo piglio negativo riguardo al film. Perché il lavoro di Zemeckis è difficile da decodificare da chi si aspetta trame più “mosse” e convenzionali, oltre che molto rigido e stereotipato (la storia “spiegata” dai dialoghi un po’ banali rispetto ai silenzi allusivi del fumetto) e in parte anche sepolto vivo dagli effetti speciali. Siamo a tutt’altro livello rispetto a The Polar Express, ma la critica va in quella direzione.
A mio avviso, il film può risultare noioso, confuso e privo di coinvolgimento emotivo soprattutto per chi non ha una empatia con quella che è la chiave di lettura più profonda: è un film sui boomer che invecchiano, un arco che lega due crisi. Da un lato c’è quella della mezza età degli spettatori di riferimento di Zemeckis, che da ragazzini avevano visto Ritorno al futuro e poi un po’ dopo Forrest Gump e poi Castaway. Dall’altro c’è quella di fin de vie che aleggia nel film, perché si invecchia, il tempo passa e poi alla fine ce ne andremo via tutti.
Può risultare un film poco empatico anche se si considera un altro aspetto, e cioè la maggiore “americanità” della pellicola rispetto al fumetto: ci sono tanti riferimenti culturali alle epoche americane, oltre a numerose citazioni dei film precedenti di Zemeckis. Questo rende il film profondamente alieno a chi invece l’America la conosce non direttamente ma solo mediante serie e film. Se manca un lessico famigliare e dei ricordi generazionali di quel Paese, l’opera di Zemeckis risulta più fredda, distante.
E poi, diciamocelo francamente, il film è anche un po’ stanco, lento, perché la trama non è particolarmente coinvolgente. Manca completamente, ad esempio, la dimensione del dramma famigliare: la vita è fatta di tradimenti e di orientamenti sessuali diversi, non solo di frustrazioni e di sacrifici auto-penalizzanti.
Se aggiungo anche che, mentre il graphic novel è stato celebrato come un’opera d’arte innovativa, il film è un esperimento non perfettamente riuscito, che non cattura l’essenza e l’impatto dell’opera originale, tutto questo potrebbe sembrare una stroncatura. Invece, non è questa l’intenzione. Here è un film molto ricco dal punto di vista visivo e molto intimo, quasi minimalista, declinato soprattutto per una certa demografia (i boomer). È un film che parla a tutti? No. È un film che vale la pena di vedere? Certo che si.
Pubblicato su fumettologica.it di Antonio Dini , 9
Gennaio 2025
Nessun commento:
Posta un commento