venerdì 28 ottobre 2011

“My life in the bush of ghost” di Brian Eno & David Byrne, 1981

La visione dell’ultimo film di Sorrentino - che ho trovato personalmente stucchevole, e di cui attendo una vostra recensione/giudizio - con la presenza, fin dal titolo stesso, di un brano dei Talking Heads di David Byrne, mi ha spinto a ricordare un opera musicale fondamentale. Non solo a giudizio del sottoscritto, "My life in the bush of ghosts" è (sicuramente-forse-probilmente-senza dubbio...) il DISCO fondamentale degli anni ’80, partorito da due delle menti più lucide e importanti per la musica tutta, Brian Eno e appunto Byrne. Disco che avrebbe contaminato, e che continua in moto perpetuo, a contaminare suoni, generi, artisti.
Tralasciando le incredibili carriere personali dei due autori, dalla ri-invenzione di Eno dell’ambient music (Discreet Music, Music for Airports o  capolavori “rock” quali Taking Tiger Mountain o Another Green World), e la folgorante carriera del leader dei Talking Heads e della successiva versione solista, “My life in the bush of ghost” era e rimane un catalogo inimitabile, un collage unico e fino ad allora sconosciuto, che assembla voci e suoni rubati da paesi e contesti tra i più diversi: omelie di predicatori radiofonici americani, canti tradizionali orientali, field-recordings, il rito di un esorcismo (The Jezebel Spirit), linee di basso di white funky di un’altra icona quale Bill Laswell. L’idea geniale, l’ingegnerizzazione e la realizzazione di brani, che oggi hanno compiuto oltre 30 anni, avvenne ben prima dell’avvento di campionatori sofisticati e software con il quale, oggi, si producono centinaia di produzioni elettroniche, soprattutto in ambito dancefloor. Un disco fuori dal tempo, che ha aiutato, forse incosciamente nella mente dei due artisti, a dare una scossa, fondendoli, ai movimenti musicali successivi (hip-hop, world e musica elettronica) per il quale ha avuto la funzione di pura avanguardia. Un catalizzatore che è divento sempre più importante col senno di poi, considerando che nel 1981 la world music non era ancora entrata nel mercato globale della musica mainstream, ma era solo un semplice interesse etnografico ed isolato, mentre oggi, come i campionamenti utilizzati nell’hip-hop, nella techno, nella house è universalmente accettata e ascoltata da un vasto pubblico. L'ascolto di “My Life in the Bush of Ghosts”, in una nuova versione di qualche anno fa ristampata dalla Nonesuch con otto nuove bonus track (con demo dei brani presenti nella versione originale), peraltro oggi rintracciabile per meno di 5 euro, continua a sorprendere, a respirare nuovo e contemporaneo, pur essendo certi suoni diventati terribilmente familiari, utilizzate anche nelle peggiori produzioni mainstream. L’andamento meccanico, ma ritmico e quasi danzabile, con suoni provenienti da chissà quale emittente radiofonica di "America is Waiting" (inserita da Oliver Stone come brano di apertura di “Wall Street”), le ritmiche africane, come quelle di un rito, tracciate con la linea funk di "Mea Culpa" , trovano oggi la loro influenza sia nell’elettronica IDM (un acronimo per un genere che mi ha sempre fatto sorridere, Intelligent Dance Music) di artisti quali Plaid o Autechre, fino ai brani di Missy Elliot. Si merita davvero un posto nella vostra collezione o nei vostri ascolti; registrandosi sul sito BushofGhosts.com si può scaricare l'album completo, in licenza Creative Commons, e grazie a un'interfaccia web curata da Byrne in persona, si possono scaricare le multitracce originali, lavorarle a propria volta e rimettere online i propri remix. Con un acquisto della comoda versione cd, per meno di 5 €, vi porterete comunque a casa un opera indelebile, che la stessa accoppiata non ha più saputo ripetere con “Every that happens will happen today” nel 2008 (prescindibile album che si fa ascoltare con una propria versione, etichettata dagli stessi Eno e Byrne, di “gospel elettronico”) che non lascia nessuna traccia di imprevedibilità o futuro. I miracoli musicali difficilmente si ripetono, anche se la statura degli Artisti, dell’Artista rimane tale, omaggiata anche in una brevissima scena di “This is must be the place”. Una breve clip dove il decaduto artista rock,  intepretato da un Sean Penn stranamente sopra le righe, rivolgendosi a Byrne (nel ruolo di se stesso) gli dice “Tu sei un artista, io ero solo un mediocre scrittore di brani per adolescenti frustrati”. La differenza tra “My life in the bush of ghost” e simili opere successive è perfettamente racchiusa in quella frase.

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