Spesso è difficile essere credibili quando si
parla di film thriller od horror, perché si tratta di un genere considerato di
puro intrattenimento, senza alcuna velleità autoriale. Sarà pur vero, ma in
fondo chi se ne frega, il cinema è anche intrattenimento, e i thriller e
l’horror hanno sempre recitato una parte importante, generi coadiuvati anche da
registi di grande talento come Cronenberg (lo so, lo cito sempre…), Hitchcock,
John Carpenter. Registi che ne hanno alzato la qualità e il contenuto,
utilizzandoli molto spesso come furiose
parabole della contemporaneità, del disfacimento sociale; George Romero e
la saga infinita degli “zombie” ne è forse il più fulgido esempio.
Il francese Pascal Laugier tenta, con
una lettura molto più efferrata, di
accodarsi a questo gruppo di autori; sale infatti alla ribalta internazionale con
“Martyrs” del 2008, durissima e violenta storia di vendetta al femminile,
apologia al limite del vedibile, della morte
vista come stato mentale e “filosofico”, dell’insana violenza animale che
alberga nell’Uomo: una donna si vendica di una apparentemente normale famiglia
borghese, in realtà sadici torturatori e feroci aguzzini di innocenti
fanciulle.
L’innocenza perduta è il tema
predominante di “I bambini di Cold Rock”, che inizia e si snoda apparentemente
come un thriller, molto distante dall'efferratezze rosso sangue di "Martyrs", per mettere a nudo in realtà l’incapacità della società
odierna di far fronte alle proprie debolezze, alla fragilità nascosta dentro
ognuno di noi, mascherata dai riti della quotidianità da cui in pochi sembrano
essere esenti, al disfacimento economico e conseguentemente morale delle
società moderne.
Cold Rock è il paese delle più classiche
province americane, messe in ginocchio dalla crisi economica, dove la chiusura
della miniera ha ridotto i suoi abitanti in un coacervo di “sopravvissuti” che
vivono tra violenza domestica e alcool, terrorizzati ma omertosi di fronte alla
scomparsa di decine di bambini avvenute negli ultimi anni, ad opera di un non
indentificato uomo nero (il Tall Man del titolo originale). L’ infermiera
Julia, interpretata da Jessica Biel, è apparentemente il faro che tenta di
illuminare la tristezza, la paura e la povertà che regnano sugli abitanti e le
famiglie di Cold Rock, fino a quando il rapimento del figlio non farà
precipitare gli eventi in una spirale da cui nemmeno le forze di polizie, dello
Stato, riusciranno a risalire.
La parte più interessante del film di
Laugier è l’ultima mezz’ora, che ne capovolge completamente la trama,
sovvertendo i più classici stereotipi del genere attraverso la solitaria
ricerca di Julia del figlio e dell’Uomo Nero,
tra inseguimenti notturni nei boschi e
fabbriche abbandonate. Il finale vuole essere un’apologia dell’attuale
incapacità di essere, vivere, se non spesso recitare, i ruoli di genitori e
guide dell’apparente innocenza dei propri figli, per aiutarli a vivere un mondo
irreversibilmente cambiato nella sua transizione alla modernità, lontana anni
luce dal ruolo cardine che il nucleo famigliare sapeva rivestire in tempi non
così distanti dai nostri.
L’amaro epilogo con velleità
intellettuali alla Z. Baumann per una dura riflessione sul presente, sulla catastrofe
economica verificatasi alla fine della fase «solida» della società e sull’incapacità
di adattamento ad essa, risulta comunque frettoloso per essere efficace e
rimanere impresso. Merita comunque un plauso per ridare un minimo di lustro
ad un genere, non solo
cinematografico, che spesso fa riflettere e pensare più di tante immagini e
parole patinate, fintamente colte e
prive di quella carica emotiva dirompente nel tentativo di destare una
riflessione sulla contemporaneità.
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