Gli allori della fama sono
forse i più dannosi per un artista, e Friedkin ne è un caso emblematico.
Il successo internazionale,
raggiunto prima con una nuova lettura
del cinema poliziesco de “Il braccio violento della legge (1971)” con Gene
Hackman, poi con l’eccellente e traumatizzante parabola sul rapporto tra uomo e
fede de “L’Esorcista (1973)”, indicarono
Friedkin come un importante e fondamentale tassello del cinema hollywodiano.
Autore non molto prolifico,
mostrò ancora una volta il proprio enorme talento con l’oscura discesa nei
meandri più bui della violenza e della sessualità nel poliziotto interpretato da Al
Pacino in “Cruising (1980), fino al capolavoro “Vivere e morire a Los Angeles (1985)”,
una versione aggiornata e radicale del poliziotto interpretato nel ’71 da Gene
Hackman, che si spinge ben oltre ai limiti imposti dalla legge pur di arrivare
alla cattura del proprio bersaglio, creando la figura dell’anti-eroe con il
distintivo. Da lì in avanti avrebbe sovvertito le leggi del cinema
poliziesco, non solo americano, in cui la labile differenza tra il buono e il cattivo sarà destinata a confondersi o annullarsi per sempre.
Da allora in poi il buio, con
tremende cadute come la favola horror de “L’albero del male (1990) o perdibili
film come “Jade (1995)” o il Rambo versione noir di “The Hunted-La preda (2003)”.
“Killer Joe”, presentato all’ultimo
festival di Venezia con plausi di tanta critica non solo nostrana, mette a nudo
i limiti del Friedkin attuale, perso tra una visione cinica e a tratti ridocolmente violenta della provincia, influenzata dall’ormai vituperato stile “pulp” alla Tarantino, con personaggi
sempre sopra le righe che ormai, più che divertire o incuriosire per le loro
follie, annoiano.
Il giovane spacciatore (Emile
Hirsch), in combutta con il padre, cerca un killer per uccidere la madre e
incassare i soldi dell’assicurazione. Killer Joe (un buon Matthew McConaughey),
che di mestiere fa il poliziotto a Dallas e nel tempo libero arrotonda con
lavoretti extra, accetta l’incarico, pretendendo il pagamento in anticipo, e dato
che i contanti non ci sono, inserisce nel patteggiamento la presunta illibatezza
della giovanissima Dottie, la sorellastra carina e un po’ svanita. Tutto è
stato previsto, nulla andrà come pronosticato, in una sorta di violenta rilettura
di Cenerentola e del suo folle principe azzurro.
Black comedy grottesca, ma noiosa
e quasi inutile, “Killer Joe” è stato definito in conferenza stampa da Friedkin,
come un film che oggi Hollywood non vuole più fare, impegnata in produzioni,
che per bocca dello stesso regista, sono indirizzate agli adolescenti,
divoratori di fumetti e videogiochi.
Tratto da una piccola pièce
teatrale dello sceneggiatore e drammaturgo Tracy Letts, che ha fatto innamorare
Friedkin dopo averla vista in un piccolo teatro-off di Los Angeles, “Killer Joe”
fallisce nel ripristinare su grande schermo i dialoghi, la storia e le scene di
personaggi borderline, che probabilmente sul palcoscenico riuscivano a
collocarsi in una dimensione più consona, ma che su pellicola vengono trasformati in
pupazzi che nulla hanno a vedere con quelli manovrati magistralmente dai fratelli Coen di “Fargo” o “Blood
simple”.
Classica occasione perduta, e
forse ultima prova di appello mancata per Friedkin.
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