Che fine ha fatto
Bernadette?, il ventesimo lungometraggio di Richard Linklater, è stato accolto
negli Stati Uniti come un flop (con conseguenti pessimi incassi). In realtà,
con la giusta distanza, la storia di una donna di successo che vive senza aiuti
esterni la propria depressione, appare come un ulteriore e doveroso tassello
nella ramificata filmografia di uno dei più affascinanti e completi autori
della produzione statunitense dell’ultimo trentennio.
Seattle. Elgie e Bernadette sono una
coppia con figlia (Bee), benestante e apparentemente felice. Elgie, però, è
sempre più occupato a sviluppare il proprio progetto per Microsoft, mentre
Bernadette vive con difficoltà crescente i rapporti con il vicinato e la sua
condizione di casalinga. Perché Bernadette, anche se nessuno lo sa, era uno dei
più brillanti architetti d’America. Quando l’equilibrio tra le tensioni
contrapposte sembra cedere, Elgie decide di correre ai ripari e di intervenire,
prima che la depressione della moglie abbia il sopravvento.
Quando Che fine ha fatto Bernadette? è uscito in sala
negli Stati Uniti, lo scorso agosto, la critica ha decisamente storto il naso,
arrivando a definire il film come “il più deludente del 2019”; affermazioni che
lasciano molto poco spazio al dibattito, perentorie come oramai è divenuta
abitudine in un sistema critico sempre più polarizzato – un argomento che torna
valido anche su altri piani, a partire ovviamente da quello politico. Opinioni,
quelle della stragrande maggioranza della critica a stelle e strisce, che si
sono mosse di pari passo con le scelte del pubblico, che non ha premiato il
ventesimo lungometraggio di Richard Linklater: a fronte di un budget
complessivo stimato attorno ai 18 milioni di dollari la storia della crisi
umana e professionale di Bernadette Fox ha raggranellato in patria appena 10
milioni di dollari. Un insuccesso commerciale che per Linklater fa seguito a
quello di Last Flag Flying (neanche 2
milioni di dollari, ma è giusto precisare come il film sia ben presto finito
sulla piattaforma di Amazon) e anche di Everybody Wants Some!!. In
realtà se si escludono Boyhood e il terzo capitolo
delle avventure sentimentali di Jesse e Céline (Before Midnight, 2013), per il
regista texano i rapporti con il botteghino non sono mai stati idilliaci negli
ultimi anni, per utilizzare un eufemismo. Dispiace però annotare come per
l’ennesima volta si sia persa l’occasione di cercare di comprendere il cinema
di Linklater, ridotto sovente con troppa superficialità a una declinazione
personale dell’indie movie. Un approccio produttivo e artistico con cui nella
realtà dei fatti Linklater ha poco a che vedere: il suo è fin dagli esordi un
cinema alla ricerca (a volte ironica, a volte beffarda, a volte disperata)
dell’intima verità dei suoi personaggi, in un viaggio perenne che è anche
speculazione sul senso profondo dell’aggettivo americano,
sugli usi e consumi di un tempo spezzato dalla routine di un Paese che è
marcito nelle fondamenta.
Parla di crolli e marciume
assortito anche Che fine ha fatto Bernadette?, che
prende ispirazione dal best seller letterario pubblicato nel 2012 da Maria Semple.
Rispetto al romanzo Linklater fa a meno da subito della componente epistolare,
anche se lascia – come contrappunto – la voce più riflessiva che narrante della
figlia della protagonista, la quindicenne Bee (convincente l’interpretazione
dell’esordiente Emma Nelson). Ciononostante resta la persistente presenza di
email, telefonate, sms, messaggi vocali: i tentativi di una società che ha
scavallato il senso stesso del suo esistere di mantenere un contatto, di creare
una parvenza di relazione umana. Perché quel che interessa a Linklater, anche
firmatario della sceneggiatura insieme a Vince Palmo e Holly Gent – lo stesso
terzetto responsabile dello script di Me and Orson Welles,
altro clamoroso insuccesso per il regista, visto che nel 2008 racimolò appena un
paio di milioni di dollari a fronte di un impegno produttivo che si aggirava
intorno ai 25 milioni –, non è l’indagine su dove sia “scappata” Bernadette.
Quello che era il centro pulsante del romanzo viene rapidamente risolto fin
dalla primissima inquadratura, che vede Bernadette affrontare in kayak le
gelide acque della penisola antartica. Linklater elimina da subito qualsiasi
velleità da detective nello spettatore: il suo film non è un giallo. O meglio,
lo è, ma l’indagine non è ferma a “dove va” Bernadette, piuttosto a ciò che sta
provando, e per quale motivo il resto del mondo non sembri minimamente
accorgersi del suo disagio.
Splendidamente resa da Cate Blanchett, che sembra tornare a ragionare su alcuni elementi psicologici già presenti nella Jasmine raccontata da Woody Allen in Blue Jasmine – ma qui destinati a tutt’altro percorso e sviluppo, sia mentale che emotivo –, Bernadette Fox non è “una donna in crisi”, ma semmai una donna che ha scientemente chiuso con il mondo di cui fa parte. Ha chiuso con l’architettura, di cui era genio incontrastato (meglio, contrastato da chi ne voleva svilire il pensiero, basato sul recupero dei materiali, sull’armonia tra costruzione e natura); ha chiuso con la California, ma odia Seattle, la città in cui si è trasferita e che non ha mai neanche cercato di instaurare un rapporto con lei. Ha chiuso con amici e vicini, a partire dalla petulante borghesuccia che le vive accanto e su cui riverserà parte della sua crudele vendetta. Ha chiuso con l’America, nella quale non sa più collocarsi, tema centrale della poetica linklateriana. Riversando tutto sulla propria famiglia l’ha parzialmente crepata, senza sapervi trovare rimedio. Un ritratto umano dolorosissimo e coraggioso, soprattutto negli Stati Uniti sempre più conservatori e bigotti, abbarbicati all’apparenza e alla superficie.
Se si può rintracciare una
colpa in Che fine ha fatto Bernadette? essa risiede nella
volontà netta di suddividere il film in due tronconi. Così come esistono due
Bernadette – una passiva e l’altra attiva, o ri-attivata – esistono due film,
due tipologie di racconto. La prima, che è anche la più convincente, è lo
scandaglio preciso e acuto di una crisi umana in corso. Una progressiva
disgregazione, un collasso lento ma inesorabile (come la slavina di fango e
terra che distrugge una festa per bambini). A questo spezzone fa da
contrappunto una seconda parte schizoide, bizzarra, che gioca sul registro
della commedia indie di fatto smentendone alcuni dei punti cardine, ma allo
stesso tempo immergendosi in profondità in una palude da cui è molto difficile
poter uscire indenni. Qui il racconto si fa più difficoltoso, con il suo ritmo
rocambolesco, la sua tendenza al picaresco, il ricorso a personaggi esasperati
fino alle estreme conseguenze – in tal senso la sequenza centrale, con
l’irruzione in scena di un goffo agente dell’FBI, è anche la più spiazzante in
assoluto.
Si può facilmente voltare le spalle al film, bollandolo come indeciso o imperfetto e passando oltre. Ed è quello che ha fatto, senza eccezioni, la critica d’oltreoceano. Ma così agendo si corre seriamente il rischio di smarrire la perla nascosta dall’ostrica, la riflessione sempre accorata e coinvolta (prima ancora che coinvolgente) su una donna e un’artista, sulla sua incapacità di comunicare con il mondo esterno, di ritrovarsi in un’immagine che non sente propria. In quel bozzetto che solo bozzetto non è Linklater sa rintracciare come sempre la sua fiducia nell’umano, pur disperso com’è nell’abbrutimento di una contemporaneità vacua e pretenziosa. Lì, nell’immagine di una donna e di sua figlia che cantano a squarciagola in automobile Time After Time di Cyndi Lauper, c’è la differenza tra la ricerca “avventurosa” che prevede viaggi di migliaia di chilometri e quella di tutti i giorni, con troppa facilità smarrita nel cumulo di tecnocrazia in cui si avvolge, a mo’ di coperta protettiva, l’umanità occidentale.
pubblicato su quinlan.it, 12/12/2019 di Raffaele Meale
Nessun commento:
Posta un commento