
A Star is
Born. A Star is Dead. Ascesa e caduta di una stella del cinema e della
Tv. Il nome è Elisabeth Sparkle. Un nome abbandonato su una stella
all’Hollywood Boulevard che attraversa il tempo e le generazioni, e in pochi
minuti la vediamo deteriorarsi come fosse un essere senziente. È quasi un film
nel film il breve, magnifico, prologo con cui si apre The Substance, il secondo
film da regista della francese Coralie Fargeat dopo il celebrato esordio
Revenge del 2017. Siamo a Beverly Hills nella vita e nelle latenti psicosi di
una non più giovanissima pin-up dello show system (Demi Moore straordinaria),
protagonista di spot televisivi, campagne pubblicitarie, celebrazioni in prima
pagina. Ma il tempo passa e quando l’immagine della donna non rientra più nei
gradimenti del programma e del viscido produttore Dennis Quaid, reiteratamente
inquadrato con grandangoli deformanti, Elisabeth ricorre alla “Sostanza”, un
misterioso prodotto di laboratorio che sembrerebbe riportare indietro la
giovinezza, creando un altro sé nella versione migliore. E infatti
Elisabeth/Demi Moore cede alla tentazione. Si inietta il prodotto – che non a
caso ha un look e un packaging tipico delle grandi multinazionali capitaliste e
concettuali del XXI secolo – e dal suo corpo fuoriesce la sua avvenente
versione giovane – non una vera e propria copia quindi, ma un’altra sè – che ha
le fattezze di Margaret Qualley e decide di farsi chiamare Sue. Quest’ultima
rimpiazza subito Elisabeth come pin-up. Ci sono delle regole però: ognuna di
loro può esistere solo per sette giorni, nel mentre l’altra deve essere
alimentata in una specie di letargo. Ogni sette giorni le due donne devono
darsi il cambio, senza mai alterare l’equilibrio, né dimenticare l’avviso
scritto a caratteri cubitali nella confezione del prodotto: ricorda che sei
sempre una! Ben presto, come in un Jekyll e Hyde al femminile, una parte prende
il sopravvento sull’altra. E il film sprofonda negli abissi del freak movie.
Fino ad arrivare al finale in diretta tv, dove in pratica The Substance
sovverte di senso il pre-finale ambientato nel teatro di The Elephant Man di
David Lynch, anch’esso espressamente citato nel make-up, trasformandolo in un
vero e proprio body horror picture show.
Forse The Substance andrebbe visto in coppia con Blonde di
Andrew Dominik, altra allucinata riflessione sulla mercificazione della donna e
sul delirio paranoide dell’oggetto del desiderio. È come se Coralie Fargeat
avesse elaborato l’inconscio di quello strano film su Marilyn Monroe, come
anche di tanti altri pezzi di cinema – assolutamente necessario rifarsi all’opera
di David Cronenberg ovviamente, ma soprattutto a Showgirls di Paul Verhoeven di
cui sostanzialmente riprende l’ostentazione pubblicitaria ed erotica dei corpi
e degli spazi visuali – e di studi femministi post-umani (è un film che
dovrebbe piacere a Jude Ellison Sady Doyle), per procedere a una messa in
forma, cinematografica, plastica e teorica, di un subconscio del “mostruoso
femminile”, che vede nel body horror il suo approdo più naturale e dirompente.
In tutta questa sovrastruttura di fonti, segni,
rielaborazioni, Coralie Fargeat non si tira indietro nelle regole del “genere”
che ha deciso di omaggiare e rivoluzionare. E così, senza dimenticare
l’autoironia, spreme tutto quello che c’è da spremere: ossa, escrescenze,
natiche, mammelle, bulbi oculari, liquidi giallastri e spruzzi di litri di
sangue come non se ne vedevamo dai tempi di Carrie – e De Palma nella sua
morbosità voyeuristica nei confronti dell’immagine femminile è un altro dei
tanti possibili innesti di questo Frankenstein cinematografico che assembla
pezzi da tante fonti diverse per costruire un nuovo “mostro”, senza perdere mai
la sua identità autoriale, la sua singolarità poetica. E soprattutto senza che
The Substance diventi mai una celebrazione nostalgica del cinema del passato.
Semmai qui le fonti appaiono meri strumenti “politici” e linguistici di un
discorso personalissimo e dolente che difficilmente abbiamo visto esprimere con
tale lucidità e con una tale rabbia polemica nei confronti dei media e delle
dipendenze naricistiche da essi indotte. Ed ecco che allora il “Ricorda che sei
sempre una!”, l’avvertimento che Elisabeth/Sue non riesce a portare a
compimento, potrebbe essere lo stesso leitmotiv inconscio che accompagna la
cineasta per tutto il film, impegnata a mettere in gioco le sue scissioni
identitarie tra narcisimo e consapevolezza, cinema di genere e cinema d’arte,
nonché il suo variegato puzzle referenziale per ritrovare e mantenere il suo
“equilibrio”, definire da sola un nuovo limite alla rappresentazione del corpo
nell’horror e dare una forma compiuta a questa sua delirante, oscura e
personalissima lost highway, probabilmente già destinata a diventare un
classico negli anni a venire.
Pubblicato su
sentieriselvaggi.it 20 Maggio 2024 di Carlo Valeri
Dopo il controverso Titane (2021), Cannes torna a grondare
sangue con un body horror degno di questo nome, grazie a The Substance della
regista francese Coralie Fargeat. “Hai mai sognato di avere una versione
migliore di te?” Con questo claim si apre The Substance, opera seconda della
Fargeat in competizione a Cannes 77. Come una delle tante pubblicità di
Facebook e Instagram, questa nuova sostanza promette di creare una nuova
versione di noi stessi: più giovani, più belli, semplicemente perfetti. L’unica
cosa da fare è dividersi il tempo: una settimana per sé, l’altra per la nuova
versione migliorata. Un equilibrio perfetto, almeno sulla carta. A provarla per
noi ci pensa Elizabeth Sparkle (Demi Moore), attrice in declino e ora Jane
Fonda fuori tempo massimo, che proprio per la sua età viene liquidata dal
network televisivo guidato dal porcuto Harvey (Dennis Quaid). Sarà la nuova
Elizabeth, ovvero Sue (Margaret Qualley), clonata direttamente per la
generazione Z a rilanciare il programma in perfetto stile Tik Tok, con twerking
e fisico bestiale.
Coralie Fargeat torna a sviluppare il tema della bellezza
perpetua, esplorato nel cortometraggio Reality+ (2013), dove un chip impiantato
nel cervello permette di vedersi con un fisico mozzafiato, e prende dal suo
rape and revenge d’esordio Revenge (2017) l’idea della vendetta per una
riflessione sul corpo femminile nell’era estetizzante dei social. Se in Miriam
si sveglia a mezzanotte (1983) Tony Scott riadattava in piena new wave il
classico tema del vampirismo per regalare l’eterna giovinezza a Bowie e
Deneuve, Fargeat riflette sullo sfruttamento del corpo femminile nei media,
dove la donna deve restare sempre giovane e performante per diventare una diva
e piacere agli uomini. Fargeat prende il body horror di Cronenberg e lo frulla
con Showgirls (1995) e La morte ti fa bella (1992), horror e commedia quindi,
ma anche film di serie A e B, The Elephant Man (1980) e Freaked (1993),
confezionando un film estetizzante e dai colori vivaci che sembrano usciti
dallo spot delle Big Babol.
La Fargeat sa come mescolare riflessioni post-femministe –
il nome del CEO, Harvey, non è un caso – con gore, ironia e frattaglie; mette a
confronto due icone, una di ieri (Moore) e una di oggi (Qualley), creando
l’ibrido troma-tizzante (avete letto bene, Troma, proprio quella di The Toxic
Avenger) ElizaSue, il nuovo mostro o la nuova carne, Carrie e John Merrick
ricuciti in un corpo solo. Coralie Fargeat, ci spiattella in faccia la realtà
nuda e cruda della ricerca ossessiva delle bellezza, divertendosi e
divertendoci, con la complicità del trio Moore/Qualley/Quaid, gettandoci in
faccia quintali di prosthetics e litri di sangue, cinema alto e basso, dove
Barbie incontra Cronenberg e Kubrick. Qualcuno in sala ha urlato che si
meriterebbe la Palme d’or, e forse è proprio così. Viva la nuova carne di Coralie Fargeat.
Pubblicato su nocturno.it di Simone Bisantino