mercoledì 10 settembre 2025

Un film fatto per Bene di Franco Maresco (2025)

Con Un film fatto per Bene il genio di Franco Maresco raggiunge le vette della sua riflessione su di sé, sul cinema, sulla Sicilia, sull’arte; il tutto attraverso le folli forme di un mockumentary wellesiano, dove l’indagine è sulla scomparsa – per niente metaforica – dell’autore, e tutto ruota attorno al concetto di depensamento. Giustamente in concorso a Venezia 2025, dov’è risultata la visione più sconvolgente.

Le riprese del film di Franco Maresco su Carmelo Bene vengono bruscamente interrotte dopo l’ennesimo incidente sul set. A staccare la spina è il produttore Andrea Occhipinti, esasperato dai ciak infiniti e dai ripetuti ritardi. Dal canto suo, il regista accusa la produzione di “filmicidio”, facendo poi perdere le sue tracce. A cercare di ricucire lo strappo è un amico di Maresco, Umberto Cantone, che chiama a testimoni tutti coloro che hanno partecipato all’impresa, in un’indagine che è l’occasione per ripercorrere la personalità e le idee dell’autore più corrosivo e apocalittico del cinema italiano. E se intanto, lontano da tutto e da tutti, Maresco stesse ultimando il suo film, diventato “il solo modo per dare forma alla rabbia e all’orrore che provo per questo mondo di merda”? [sinossi]

Con Un film fatto per Bene Franco Maresco torna per la seconda volta in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, a sei anni dalla presentazione di La mafia non è più quella di una volta, dove ottenne il Premio speciale della giuria sorprendendo quella parte di critica – tutt’altro che minoritaria – che lo reputava un film “incomprensibile” agli occhi di una giuria internazionale. Il medesimo aggettivo, incomprensibile, lo si è sentito serpeggiare al termine delle due proiezioni stampa di Un film fatto per Bene, e che di fatto chiudevano la competizione dell’ottantaduesima edizione della Mostra. In effetti un’opera come quella di Maresco con fin troppa facilità può essere considerata tale, lavoro ostico e criptico inaccessibile ai più, anche perché in questo caso il regista palermitano ha inserito nel film una sorta di passaggio in rassegna della sua intera carriera, fin dai tempi di Tvm, la rete televisiva del capoluogo siciliano in cui Maresco, insieme a Daniele Ciprì e Umberto Cantone, mosse i primi passi che li avrebbero poi trasportati addirittura sulla televisione nazionale, a Rai3, all’epoca dell’immortale e indimenticabile Cinico Tv. L’impressione però è che non sia tanto la natura a tratti quasi autobiografica del racconto a tenere a debita distanza una parte del mondo critico e forse anche la giuria – laddove Un film fatto per Bene è, per pensiero e qualità, alcune spanne al di sopra della restante parte del concorso veneziano allestito per il 2025 –, bensì quel che prende corpo in scena fin da subito, assumendo i contorni dell’indagine, del pedinamento, del disvelamento di un mistero con cui non si riesce a scendere a patti. Un mistero tripartito, o forse anche sminuzzabile in ulteriori suddivisioni. C’è la ricerca alla base dell’ipotetico film che Maresco avrebbe voluto realizzare, e che parla dell’incontro in terra siciliana tra Santa Rosalia e San Giuseppe Desa, vale a dire Giuseppe da Copertino, il frate minore che “sapeva volare”; c’è la ricerca del punto di contatto tra il viaggio del santo in Trinacria e l’incontro nella Palermo degli anni Sessanta tra un maestro elementare, massimo esperto del fraticello levitante, e nientedimeno che Carmelo Bene; c’è infine e innanzitutto l’indagine alla base della narrazione: che fine ha fatto Franco Maresco, di cui si sono oramai da mesi perse le tracce?

Il concetto di falsa investigazione, dalla matrice dichiaratamente wellesiana, è uno degli elementi portanti della poetica espressiva di Maresco, come testimoniano tra gli altri Il ritorno di Cagliostro e Belluscone – Una storia siciliana, dove l’amico di una vita Tatti Sanguineti doveva recarsi a Palermo per tentare disperatamente di chiudere il film “abbandonato” da Maresco nel bel mezzo delle riprese. Se a sua volta l’idea di non finito e non terminabile è un cascame che viene direttamente dal genio di Orson Welles, anche qui come in Belluscone Maresco si affida a un narratore terzo, cui viene richiesto di lanciarsi nella detection riguardo la “fine” del regista e i motivi che hanno portato all’interruzione del set. Il gioco rispetto al bellissimo film del 2014 è però ancora più intricato, perché se Sanguineti era un elemento esterno alla vita lavorativa di Maresco qui a vestirsi dei panni dell’investigatore è Umberto Cantone, che fa parte della squadra di sceneggiatura del cineasta. Il discorso meta-cinematografico si fa ancora più estremo, lambendo i confini del sublime, e Un film fatto per Bene si tramuta in viaggio in estroversione sull’introspezione di un oggetto umano inscalfibile. Nessuno in realtà comprende Maresco, neanche i suoi produttori Andrea Occhipinti (che, viene detto, suggerirebbe al regista di trovarsi uno psichiatra invece di un produttore) e Marco Alessi, che ancora non si capacita di come sia stato possibile perdersi in infiniti ciak su una sequenza che neanche era presente in sceneggiatura, e che vede san Giuseppe ballare a mo’ di pellerossa attorno a un fuoco accompagnato da un Pulcinella nano. Non si tratta dell’impossibilità di comprendere l’artista, deviazione che aprirebbe il fianco a una deriva narcisistica, ma della fioritura fuori dal tempo dell’estetica e dell’etica marescana, che ha comunque smesso da anni di credere nel cinema come riparatore dei torti all’interno di un sistema-mondo che è (testualmente) “una merda”. Dopotutto come credere nel cinema quando oggidì a nessuno viene negato il diritto di girare un film? Tale chiosa sardonica Maresco la riserva a sé, alla sua voce, mentre la macchina da presa compie una panoramica laterale su loculi per la tumulazione, a sottolineare la natura mortuaria di un’arte che si è tramutata in mero esercizio economico/industriale, senza più la capacità di ergersi contro la marea montante.

Ecco dunque che Un film fatto per Bene certifica di aver compreso fino in fondo il teatro post-artaudiano di Bene, e si pone come atto di resistenza dell’immagine contro un immateriale sempre più vacuo, ectoplasmatico, deturpante. Non è certo casuale che Maresco oltre a muoversi su/per/attorno a Carmelo Bene, citi in scena Franco Scaldati – riproponendo il lacerto di un dialogo illuminante e straziato –, assuma un altro residuo della controcultura degli anni Novanta come Antonio Rezza per replicare/negare/reinterpretare la sequenza celeberrima della disfida a scacchi tra la Morte e il protagonista di bergmaniana memoria, e si contorni di quel microcosmo palermitano che non è (come troppo stesso ipotizzato) la sua personale corte dei miracoli bensì l’enucleazione in atto umano di un concetto, di un’idea, dell’ideologia di non appartenenza a un mondo che non va sfiorato, ma rigettato con forza. In questo senso il racconto si fa eloquente, con la magniloquenza dell’en plein air che si riduce dapprima a un teatro di posa e poi perfino a uno spazietto miserrimo e angusto nella sede della succitata Tvm: un ritorno a casa che non è un ripiegarsi, ma un riscoprirsi eternamente controcorrente. Così controcorrente che nemmanco una confessione può provare a fare il miracolo – che dopotutto parrebbe non esistere, l’imbracatura del santo in levitazione si rompe e il povero Bernardo crolla al suolo da un’altezza considerevole: eppure, il finale… – di ricondurre Maresco su un’ipotetica “retta via”. Di un’intelligenza sconfinata, Un film fatto per Bene è un’istantanea tragica sull’Italia culturizzata, ma anche un film comico che trascina alle lacrime per quanto si può ridere di fronte a sequenze indimenticabili, tra le quali appare impossibile non citare il lungo passaggio che vede in scena come vittima/complice del regista/carnefice Francesco Puma, alle prese con un problema gastrointestinale e interprete perfetto nel racchiudere in sé l’incrocio all’apparenza impossibile tra patetico, sublime, artistico, scatologico e comico. Franco Maresco volteggia a levature troppo alte probabilmente per l’asfittico panorama nazionale, ma la sua testimonianza di coerenza è così radicale e ghignante da trascinar via con sé l’intero palinsesto di Venezia 2025.

Pubblicato su quinlan.it  05/09/2025, di Raffaele Meale

 

 

In una delle sequenze più emblematiche di Un film fatto per Bene, la Morte (interpretata da Antonio Rezza) e San Giuseppe da Copertino (al “santo volante” Carmelo Bene aveva dedicato una sceneggiatura mai realizzata, poi pubblicata in forma di libro con il titolo A boccaperta) giocano la loro bergmaniana partita a scacchi. Ma il frate non fa mai la prima mossa, quindi la Morte resta lì ad aspettare, annoiata. Lo stallo sembra perenne e immutabile: “ma lo sai come si gioca a scacchi, Peppino?”, sbotta Rezza ad un certo punto. Ecco, la domanda fondamentale – anche stavolta, come in tutto il cinema di Maresco – rimane questa: dove siamo noi in questa partita? Da quale parte della scacchiera? La posizione di Franco Maresco, quella è nota da tempo, e il regista ci tiene a ribadirla più volte anche in questa occasione (con stoccate contro il cinema italiano, le produzioni, Gigi Marzullo, e così via), mai così tanto “in campo” come in questo nuovo film, presente sulla scena come corpo (per restare in territorio sacro, potremmo dire come icona) e non solo come voce incalzante, nonostante i mille tentativi per sparire, messi in atto come in Belluscone, di  far perdere le tracce, addirittura rinchiudersi in un monastero come un Majorana sciasciano.

Ed è proprio nella chiesa del convento che Maresco va a confessarsi, in una sequenza straordinaria in cui vediamo il volto del cineasta incorniciato dentro la grata del confessionale, ma dal punto di vista del confessore, con il profilo del regista frammentato in mille schegge dal reticolo della finestrella. Ancora: da quale parte della finestra ci troviamo?

Di sicuro questo nuovo lavoro del regista è il suo ennesimo calvario, un sabotaggio innanzitutto “politico” (dilatare le riprese e di conseguenza i costi delle sezioni in pellicola, mandare alle ortiche la sceneggiatura…) e allo stesso tempo mostra un’ossessione per il sacro che così spiccata non rilevavamo forse davvero dai tempi di Totò che visse due volte (la cui vicenda viene nuovamente rievocata in una sezione in cui il sodale di sempre Umberto Cantone racconta tutta la parabola artistica di Maresco, arricchita da frammenti inediti di dietro le quinte dell’epoca Cinico Tv davvero strepitosi): le sequenze pasoliniane del fantomatico film (nell’abituale bianco e nero) sul santo salentino e su Carmelo Bene, le gag ritornanti sulla religiosità esasperata del tassista di fiducia di Maresco, la “folgorazione” avvenuta dopo aver sentito la voce di Bene balenare nel buio…

Quando il regista dichiara “io sono il Carmelo Bene del 21esimo secolo” sta chiaramente facendo ricorso al suo gusto per il nonsense, ma allo stesso tempo esplicita una vicinanza con il pensiero dell’attore (più volte Bene aveva espresso pubblicamente il suo apprezzamento per Cinico Tv e per l’opera di Ciprì e Maresco) e alla sua visione tragica del cinema e dell’arte (questo non evita che Maresco si prenda gioco della macchietta beniana ingaggiando un attore che ne parodizza espressioni facciali e modo di esprimersi…): e così gli sketch e gli istanti più apertamente grotteschi e scatologici si fanno inevitabilmente funerei, raggelanti, terminali (che tutto il cinema di Maresco si origini dalla sequenza della pantagruelica mangiata dei frati in Nostra Signora dei Turchi?). Giri a vuoto (non più o meno di tre, mi raccomando) lungo una rotatoria che manda solo indietro.

“Bisogna rinnegare quello che si è fatto finora, e farlo magari con i film”, aveva detto d’altronde una volta proprio Carmelo Bene ad Adriano Aprà. “Tanto riusciremo tutti a fare i nostri film prima o poi, sapete com’è, e i film sputtaneranno quello che abbiamo scritto e viceversa. Sullo schermo c’è ancora modo di sputtanarsi”. Ecco, lo sputtanamento di Un film fatto per Bene non sta tanto nella sua anima mockumentary con Andrea Occhipinti sempre più esausto perché la lavorazione ha preso una piega delirante, quanto nello sguardo di Franco Maresco, che per la prima volta ci guarda in camera in un lungo primo piano abissale, e nella decisione di mostrare la propria disperazione solitaria, il gioco con le “follie” del suo disturbo ossessivo-compulsivo messo in piazza, le camere d’albergo con le mura riempite di file di numeri scritti a pennarello sulle piastrelle – come la cella di un pazzo, o forse quella di un santo in preda alle crisi mistiche. Un film fatto per Bene rivela così la sua struttura perfettamente inscritta nelle agiografie delle “vite dei santi”, in questo quasi vicina (ancora una volta) all’ultimo Abel Ferrara.

E allora, nell’ascensione finale – il più bel drone della storia del cinema italiano – finalmente Franco Maresco raggiunge il grado assoluto di tutta la sua ricerca, diventa una volta per tutte pura voce che si libra sulle nostre teste, un’entità che sorvola senza posa ora e per sempre la sua Palermo e che pure mentre fluttua tra le nuvole non riesce a resistere ad imbastire l’ennesimo scambio di battute sgrammaticato, l’ennesimo vuoto di senso tra le sue domande e l’interlocutore appartenente a quell’umanità terminale che lui tanto ama, la sonda Voyager che conserva nello spazio i segni di almeno un tormentone mareschiano, di almeno uno dei dialoghi tratti da Franco Scaldati, frequenze-radio come quelle captate dal santo, che restituiscono la lingua di una civiltà estinta.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it , 5 Settembre 2025 di Sergio Sozzo

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