martedì 4 marzo 2014

l'OSCARto

Ho sempre atteso la notte degli Oscar con la stessa trepidazione con cui attendo l'influenza aviaria o l'ennesima edizione del grande fratello. Sinceramente non mi importa nulla di premi che, anche nel passato recente, sono andati prevalentemente a blockbuster - anche di qualità, ci mancherebbe - come Il signore degli anelli piuttosto che enormi puttanate come Il paziente inglese. Farsi influenzare dalla statuetta dorata per decidere, o meno, se andare a godere della proiezione sul grande schermo di un film piuttosto che un altro, è come lo spettatore casuale che va in una multisala e decide in base al titolo, all'orario, al flyer. Lo detesto (lasciatemi estremizzare il concetto, please) nello stesso modo in cui detesto coloro che acquistano un libro a partire dalla copertina; utilizzassero almeno questa formula leggendone il retro, di copertina.

E a chi frega di queste disquisizioni ? A me, ovviamente. E fortunatamente alla maggior parte di persone che frequento e con cui mi diverto a parlare, anche, di Cinema. Si, il Cinema con la C maiuscola, non quello da pseudointellettuali, o da tuttologi, altre due categorie che detesto, ma quello che interessa un pubblico appassionato, o che, almeno, ci si avvicina. Per intenderci, quelli che sono andati a vedere La grande bellezza, sperando di dare ancora una chance a Sorrentino, prima dei Golden Globe, Bafta e nafta vari. I premi come gli Oscar non servono più a un cazzo, o meglio, possono essere utili, nel migliore dei casi, come cassa di risonanza per una distribuzione internazionale, o ai miei tanto cari pseudointellettuali con la barba curata o con il capo vintage che possono vantarsi con l'amica/o di aver visto il film che ha trionfato anche a Venezia o Cannes. I festival veri, come Berlino, Locarno, quelli se li filano in pochi, per non dire che molti ne ignorano addirittura l'esistenza.
La cerimonia degli Oscar per gli americani è quel momento di cultura popolare quale può essere da noi il festival di Sanremo, una paccottiglia di  finto buonismo esasperato, ma che tanto fa sembrare il popolo unito, sotto l'egida della propria bandiera. Hollywood e gli Oscar, of course, negli anni '70 erano tutt'altro. Il periodo storico era tutt'altro, si respirava l'aria del Watergate, dei Weather Underground, delle Black Panters, la protesta contro la guerra in Vietnam. Sintetizzando, c'era una coscienza storica, politica, sociale, matrici che oggi - e di certo non sono io a dirlo - sembrano dissolte. Quelle matrici che connotavano moltissimi film della mecca del cinema, dando vita ad un genere che, nemmeno troppo artificiosamente, venne definito di "impegno civile". Negli anni '70 venivano premiati Il braccio violento della legge, Il padrino o candidate opere scomode come Arancia Meccanica, Quinto Potere, Taxi Driver; gli anni '80 e '90 ne vedevano la scomparsa dalle tabelle degli Oscar a favore di incredibili orrori come A spasso con Daisy, Voglia di tenerezza o divertissment come E.T..  Le candidature de Il Grande Freddo, Il Servo di Scena, o le vittorie di un capolavoro come Gli Spietati di C. Eastwood occorrevano per dare quell'aurea autoriale che Hollywood incominciò a non ritenere più remunerativa. Immaginandomi coloro che storceranno il naso, pensando alle vittorie - nel nuovo millenio - dei Coen (Non è un paese per vecchi), Scorsese (The Departed), degli ottimi The Artist o The Hurt Locker di K. Bigelow, continuo a pensare che queste inutili statuine servono a corroborare un'industria che negli anni ha cacciato a pedate in culo Artisti di razza come Friedkin, Schrader o non ha mai visto assegnare un premio alla miglior regia a mostri sacri come Kubrick o Orson Welles...si, va bene, lo hanno dato a John Houston, a Coppola, a Mendes, ma la sostanza non cambia.

I film "stranieri" e gli Oscar costituiscono un paragrafo, se vogliamo, ancora più inquientante. Andatevi a leggere i nomi dei vincitori dei '60 o dei '70, e troverete uno stuolo di Autori: Fellini, il grandissimo e quasi dimenticato Elio Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La decima vittima), Bunuel, Truffaut, Kurosawa. Dopodiché, come per il cinema americano legato a doppio filo con i tragici anni '80 reganiani, eccoci servito Il pranzo di Babette, Pelle alla conquista del mondo fino ad arrivare ai nostrani Salvatores, il bluff Tornatore, l'orripilante Benigni di quel perfido inganno de La vita è bella, per arrivare alla Grande Bellezza del maradoniano Paolo, fresco vincitore per il miglior film straniero. Ma avete ben chiaro cosa piace, dell'Italia al pubblico stelle e striscie ? Attenzione, non del cinema italiano, ma dell'Italia. Piace quella detestabile, anzi quelle detestabili commistioni tra il caciarone e il personaggio piezz'e core,  l'affamato e il truffaldino, il Sud e la macchietta che ride anche ad Auschwitz, e il Sud non è di certo quello neorealista di De Sica, ma quello volutamente straccione del detestabile Tornatore. 

C'è più di un'attinenza tra ciò che è accaduto alla cultura americana e a quella del nostro benamato stivale negli ultimi 30 anni, credo sia sufficente rileggersi i nomi sopracitati. Resto convinto che l'Italia abbia smesso di generare Autori facilmente esportabili come Antonioni o Fellini, dotati di un linguaggio e un talento unico, e che ci sia, purtroppo, bisogno delle orride scaltrezze de La vita è bella o Nuovo cinema paradiso per dare visibilità al nostro cinema. Quello che mi chiedo è che cosa abbiano visto  le giurie, e per ultima l'Academy, nel personaggio di Jep come cazzo si chiama de La grande bellezza e nella regia di Sorrentino. Gli evidenti rimandi a Fellini o a Bunuel ? Una Roma splendidamente fotografata, ma in stile spot villaggio Valtour ? Sono convinto, invece, abbiano visto i soliti italiani caciaroni, sboccati, arrampicatori sociali, gli sguardi tristi, le feste che negli ultimi 20 anni hanno consacrato il bunga bunga come italian lifestyle della borghesia e della politica, gli italiani sbefeggiatori e malinconici, le tavole colme di buon vino e ottimo cibo. Non una grande bellezza, ma una grande abbuffata di luoghi comuni. E la colpa, forse, non è nemmeno di Sorrentino, autore ormai perso nell'ambizione, di un film non riuscito (sulla modernità ?)  o riuscito a piccolissimi tratti - giudizio puramente personale -  in cui l'unica vera bellezza, sembra essere quella meno percepita, quella della memoria, dell'amore adolescenziale di Servillo/Jep, quello del miracolo o del treno che passa solo una volta.

Tornando con il mirino  puntato sulle statuette 2014, le scelte sono state, ancora una volta, dettate dal mainstream. Il premio per il miglior film al peggior Steve McQueen - dopo due fulmini a ciel sereno come Hunger e Shame (entrambi con Fassebender) - di 12 years a slave, dove oltre al tema del peccato originale della schiavitù, che aveva già toccato i cuori degli spettatori americani nel 2013 con lo spielbeghiano Lincoln, sembra ricomparire quello del sogno americano. Il bravo Matthew McConaughey del riuscito Dallas Buyer's Club (ancora meglio nei panni del poliziotto tormentato e ateo del serial HBO True Detective), perchè autore di quelle prove fisiche che tanto piacciono all'Academy, come quelle dell'altro candidato C. Bale di American Hustle. E' pur vero che il cinema è anche spettacolo e divertimento, e che Cate Blanchett è la magnifica interprete di un brutto W. Allen, che Gravity è un buon esempio di intrattenimento, ma quello che risalta ancora una volta sono le esclusioni. A nessuno è mai passato in mente di far vincere il miglior documentario a The Act of Killing, ma solo di candidarlo perchè era impossibile non farlo, o di  candidare  Il Passato di Farhadi, uno dei registi più importanti dell'ultimo decennio, tra i film stranieri.

Non c'è colpa, forse solo mancanza di gusto del pubblico, o ancora peggio di interesse, di cultura, perchè il cinema è Cultura, ma a pochi sembra interessare. Sembra ci sia voglia di stare a prendere il boccone che viene lanciato dall'alto, come un scarto del pranzo destinato al gatto o al cane. Forse è questa la cosa peggiore, si aspetta quello che ci viene propinato, la voglia della ricerca sembra essere scomparsa, come l'amore di Jep. Gambardella. Sono andato a leggermi il cognome.
 

lunedì 20 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese


Un’apnea di quasi tre ore, dal quale si ritorna a respirare incredibilmente a pieni polmoni, tre ore di grande Cinema, frenetico, dialoghi tra il surreale e il real-grottesco, un’orgia di immagini superlative per il biopic di Jordan Belfort. La miglior accoppiata Scorsese/DiCaprio di sempre, sguardo in camera  del protagonista per tentare di spiegare le complesse e illegali operazioni finanziarie che hanno fatto di Belfort uno dei più ricchi broker/truffatori di Wall Street. Un ritratto perfetto di lucida follia, avidità, arroganza, menefreghismo, puttane, tangenti, cocaina e droghe di ogni genere, elementi che fanno da cornice al vero soggetto del racconto, il denaro.
La vera storia di Belfort, non può non essere paragonata a quella del gangster interpretato da Ray Liotta in quell’altro, magnifico, racconto di dissolutezza morale che era “Goodfellas” (il già citato sguardo in camera). Entrambi i film raccontano storie epicamente trasversali della ricerca frenetica e priva di scrupoli della ricchezza e del successo, utilizzando i mezzi più amorali, rapidi e micidiali, dove i titoli azionari sostituiscono le pistole, ottenendo lo stesso disgustoso risultato.
Adattato dalle memorie del protagonista (tradotto recentissimamente in italiano), “The Wolf of Wall Street” racconta l’ascesa e le peripezie del principiante broker 22enne che diventa uno dei più potenti personaggi dell'economia americana. Armato di un eloquio straordinario, contornatosi di un cerchio di amici apparentemente stupidi ma leali, di una strategia illegale, ma sorprendente, che gli permette di guadagnare enormi commissioni sui peggiori titoli del mercato, Wolfie arriva al suo apice negli anni '90, contornato da miliardi che gli consentono una vita sempre all’eccesso. Ovviamente il governo federale comincia a curiosare in giro ed indagare sul castello di carte magistralmente costruito da Belfort, che tenterà, a tutti i costi, di non far infrangere il proprio sogno orgiastico.
Il 71enne Scorsese, come nel già citato “Goodfellas”, o il De Niro del capolavoro “Casinò”, imprime al protagonista quell’aurea affascinante,  potente e magnetica tipica dei peggiori figli di puttana, nelle cui mani ruotano denaro e vite prive di alcuna importanza; quando DiCaprio/Belfort si gira e parla direttamente in camera diventa facile dimenticare che si sta guardando un film, tanta è la mimetizzazione dell'attore con il suo ritratto cinematografico. Se la performance di DiCaprio vale il prezzo del biglietto, diventa impossibile sottovalutare l’eccezionale cast di supporto, dove si incontrano personaggi sempre sopra le righe, e per questo quanto mai reali (puttane, ville brianzole?) che lasciano un ricordo indelebile sul protagonista e il pubblico. Matthew McConaughey (mentore cocainome del giovane Jordan), l’attore regista Rob Reiner (lo sboccatissimo padre di Wolfie) sono fantastici, ma se c'è qualcuno che arriva molto vicino a rubare riflettori a di DiCaprio, è Jonah Hill - poco conosciuto in Italia, se non per i film con Seth Rogen – nella parte dell’arrapatissimo socio/amico di Jordan.
Tre, impercettibili, ore scandite da un ritmo di immagini forsennate e ad alta frequenza, come l’esperienza psicotropa dei protagonisti. Da non perdere, e goderne la visione assolutamente in lingua originale. 


martedì 17 dicembre 2013

2013 (rrr)rewind...ascolti, visioni e letture sparse

 
La quinta stagione (Peter Brosens, Jessica Woodworth)
Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow) 
Noi siamo infinito (Stephen Chbosky) 
To be or no to be - Vogliamo Vivere! (E. Lubitsch - 1942 v.r)
Harold Brodkey - la metà dei racconti di Storie in modo quasi classico (fandango rist.)
Post tenabras lux (Carlos Reygadas)
The Act of Killing (Joshua Oppenheimer)
Il tocco del peccato (Jia Zhangke) 
Tim Berne's Snakeoil - Shadow man 
il coro dell'Armata Rossa con  il Toto nazionale al festival di Sanremo 
Boards of Canada - Tomorrow's Harvest
Il passato (Asghar Farhadi)
 
 
The Canyons (Paul Schrader)
Robert Kirkman/Nick Spencer - Thief of Thieves (saldapress)
Lo sconosciuto del lago (Alain Guiraudie)
il basso e il volto di Mike Watt con Il Sogno Del Marinaio (Stefano Pilia, chitarra e Andrea Belfi, batteria-percussioni) in concerto
John Cheever - Una specie di solitudine (feltrinelli)
univrs live set Alva Noto  http://www.youtube.com/watch?v=2_m2Zua2ynU
David Lynch - The big dream
Tim Hecker - Virgins 
La vita di Adele (Abdellatif Kechiche)
George Saunders - Dieci dicembre (minimum fax) 
Fire! Orchestra - Exit
 
Prisoners (Dennis Villeneuve)
Hieroglyphic Being - Seer Of Cosmic   free download http://thewire.co.uk/audio/tracks/listen-to-an-exclusive-hieroglyphic-being-album
Before midnight (Richard Linklater)
Blue Valentine (Derek Cianfrance, 2010)
Savages - Silence yourself
Tom McCarthy - C (bompiani)
Mad Men (stagione 5)
Facciamola finita (Seth Rogen, Evan Goldberg)
Emmanuele Bianco - E quel poco d'amore che c'è (fandango)
Healing Force Project - Omicron Segment  http://www.electronique.it/reviewA3332C1_cd-Reviews_Healing-Force-Project_Omicron-Segment ; http://www.youtube.com/results?search_query=healing+force+project&sm=1
Jon Hopkins - Immunity
 
A Field in England (Ben Weathley) 
Rob Mazurek Octet - Skull sessions
Searching for Sugar Man (Malik Bendjelloul)   http://www.youtube.com/watch?v=ixrcYDaHils
Orange is the New Black (stagione 1 - Netflix)
Juan Aktins/Moritz Von Oswald - Borderland
Rectify (stagione 1 – Netflix)
L.B. Dub Corp - Unknown Origin
Stoker (Park-Chan Wook)
Alessandro Perissinotto - Le colpe dei padri (piemme)
Julia Holter - Loud city song
Amanti perduti/Les enfants du paradis (Marcel Carnè- 1945 v.r)
Spring Breakers (Harmony Korine)
Colin Stetson - New history warfare vol. 3 
 
Elizabeth Strout - I ragazzi Burgess (fazi)
Blackfish (Gabriela Cowperthwaite)
Oneohtrix Point Never - R Plus Seven
Yusef Lateef, Roscoe Mitchell, Adam Rudolph and Douglas Ewart - Voice Prints
The Conspiracy (Christopher MacBride)
l'emozionante virtuosismo tra Skrjabin e Bill Evans di Chick Corea (concerto per piano solo)
The Ex & Brass Unbound - Enormous door
Steven Wilson - The raven that refused to sing and other stories
Cave of Forgotten Dreams (ediz. blu-ray - Werner Herzog)
The Iceman (Ariel Vromen 2012
Adam Johnson - Il signore degli orfani (marsilio)
Il caso Kerenes (Calin Peter Netzer)
little, little Italy:
Miele (V. Golino)

disgregazioni, dubbi, delusioni e orrori assortiti:
Come un tuono (Derek Cianfrance)
Django unchained (Q. Tarantino)
Lincoln (S. Spielberg)
My Bloody Valentine - MBV
Educazione siberiana (G. Salvatores)
La grande bellezza (P. Sorrentino)
Atoms For Peace - Amok
Solo Dio perdona (Nicholas Winding Refn)
Arcade Fire - Reflektor
To the wonder (Terrence Malick)
The Grandmaster (Wong Kar-Wai)
Sacro Gra (P. Rosi) 
The Bling Ring (S. Coppola)
La migliore offerta (G. Tornatore)
Il grande Gatsby (B. Luhrmann)
Sigur Ros - Kveikur
Four Tet - Beautiful rewind

martedì 26 novembre 2013

The Canyons (2013) di Paul Schrader



Nella mia personalissima, quanto cangiante classifica dei migliori film degli ultimi 20 anni (mi verrebbe da dire di sempre, ma potrebbe suonare esagerato) ci sono almeno tre film di Paul Schrader: “Affliction (Oscar a James Coburn)” “Auto Focus” e il capolavoro “Lo spacciatore”, dal molto più eloquente titolo originale “Light Sleeper”.

Icona trasversale e non più gradita del cinema a stelle e strisce (come il quasi coetaneo Friedkin), il regista viene ricordato dal grande pubblico per  l’armaniano Richard Gere di “American Gigolo”. Il vero addicted  della settima arte lo ricorda, però, come eccelso sceneggiatore del miglior Scorsese di sempre, quello di “Toro Scatenato” e “Taxi Driver”. Proprio dal personaggio di Travis/De Niro, Schrader ha dato i suoi miglior frutti narrando storie di loser, fallimenti, disgregazione dell’America Dream (si, anche lui) tentativi più o meno vani di rinascita, critica feroce al mainstream hollywodiano.

Scritto a 4 mani con Breat Easton Ellis, The Canyons è arrivato sugli schermi anticipato dalla ovvia, banale pubblicità per le scene di nudo e scopate assortite della star tossica Lindsay Lohan e James Deen, porno divo targato US. Definito come film nichilista, thriller erotico, freddo, inutile, glaciale, è esattamente il parto che ci si poteva aspettare dal regista e dallo scrittore di American Psycho.
Finanziato attraverso il crowfounding lanciato dai due autori, è anche per questo una riflessione sulla vacuità di Hollywood come specchio dell’America/mondo, sulla morte del cinema e dei suoi pseudo-divi, raffigurata in modo evidente durante i titoli di apertura, da una matrice di cinema abbandonati e decadenti. E’ soprattuto una storia iper-cinetica di alienazione, già ampiamente scandagliata nelle carriere di Schrader ed Ellis, narrata attraverso uno sguardo solo apparentemente freddo e distaccato, dove i personaggi sembrano essere una sorta di zombie romeriani colmi di vuoto e frustrazione. Orecchie e occhi vacui perennemente puntati sui  telefoni cellulari - che giocano un ruolo predominante nello smarrimento collettivo  - inetti di fronte a tutto, anche alla perdita della vita (privata e non).
Il personaggio di Tara calza a pennello alla Lohan, quasi ricalcandone le orme da incerta starlette dannata. Sigaretta in mano, si aggira per negozi costosi, occhiali da sole oversize, si lamenta con il suo fidanzato Christian (Deen) per non riuscire più a mantenere alcuni aspetti della sua vita privata, ma "Nessuno ha più una vita privata, Tara".
Christian, così simile alla freddezza del Patrick Bateman di Ellis, a parte produrre film low-budget con i soldi della famiglia, è dedito a riprendere i ménage à trois che vedono partecipe la fidandata ex-modella, nella sua villa minimalista di Malibu, sorta di laboratorio biotech degna dei sociopatici  preferiti dallo scrittore di Less Than Zero. In procinto di avviare una nuova produzione con l’aspirante attore Ryan, è all’oscuro che Tara ha una relazione con lui. Nutrito da una serie di personaggi, che andranno inevitabilmente a convergersi, il sospetto di  Christian si trasformerà da ossessione in violenza.
Apparentemente asettico e banale, The Canyons è un grandissimo esempio di post-cinema, quello che ha abbandonato la capacità e la voglia di farci sognare, per mettere a nudo il (solito, dirà qualcuno) lato oscuro della natura umana, dei rapporti che si intersecano come sorta di germi malsani tra esseri viventi.

mercoledì 13 novembre 2013

Il Passato-Le Passé (2013) di Asghar Farhadi



Ritratto di famiglia - allargata - in un interno, cronaca intima della coppia, dramma familiare.
Senza dubbio alcuno (per chi scrive, ovviamente) uno dei Migliori Film dell’anno (uscita prevista il 25 Novembre).

Premio alla Miglior Attrice con Berenice Bejo all’ultimo festival di Cannes, Asghar Farhadi continua con il suo personale registro nel mettere in scena la vita nuda e cruda, la vita dei personaggi (noi ?), le loro tensioni nascoste e apparentemente banali, che portano irrimediabilmente ad una tardiva deflagrazione. L’apparente banalità delle storie dei suoi personaggi, esplorati nella loro profondità, viene sviluppata con una intensità e potenza all'altezza delle grandi tragedie, visuali e narrative, del passato. Il tutto senza mai perdere un approccio cinematografico di ammirevole sensibilità.
Prolungamento naturale del lavoro di Farhadi dopo " Una separazione (2011)", dove in una trama cristallizzata attorno a un evento e un luogo - qui un suicidio e la periferia parigina - la storia procede per strati e chiavi occultate, rivelazione dopo rivelazione, in una scomoda postura di dubbi e interrogativi. Per il regista iraniano, la certezza è vietata .

Marie (Berenice Bejo) accoglie il suo ex marito iraniano Ahmad (Ali Mossaffa), arrivato a Parigi per ratificare il processo di divorzio. Nel frattempo Marie ha ricostruito la sua vita con Samir , la cui moglie è in coma dopo aver tentato il suicidio. Nella casa di Marie , il velenoso passato si riproporrà a contaminare i presenti con l'arrivo di Ahmad,  in-consapevole meccanismo nel far scaturire segreti e contraddizioni interne che paralizzano le vite di Marie, la figlia Lucia e Samir .
Il peso del passato è onnipresente, testimoniato anche dalla casa di Marie, colma di oggetti d'antiquariato, segno dell'incapacità della famiglia acquisita di vivere insieme pacificamente, di lasciarsi alle spalle quegli eventi che, come barriere invisibili, si interpongono tra i protagonisti.
Ahmad, da elemento scatenante, si tramuterà in elemento pacificatore, atto a lenire le tensioni tra la famiglia, in cui i bambini reciteranno un ruolo determinante.

Un film coraggioso, che orchestra magistralmente un avanti e indietro tra presente e passato, senza il quale diventa impossibile ipotizzare un futuro. Incredibili gli attori, Mossaffa è senza dubbio la rivelazione del film, come i piccoli protagonisti, disarmanti nella loro intensità rivelatrice, grazie a Farhadi, che conferma lo status di uno tra i migliori registi contemporanei.