martedì 8 novembre 2011

Una riflessione su "This must be the place" di Paolo Sorrentino

Di “This must be the place” si è gia detto e scritto tantissimo, molto prima che arrivasse nelle sale, sia grazie anche alla presenza di Sean Penn e altri attori del calibro di Frances McDormand e Harry Dean Stanton, che per l’alto costo di produzione di 28 milioni di dollari, una cifra iperbolica per un film italiano, pur se coprodotto. A parte la grande maschera di Penn, per quanto buffa ed a tratti irritante, unita però ad un doppiaggio che rende il personaggio una mera macchietta, ho trovato il film una sorta di bignami della cinematografia di Sorrentino. Un macro-universo con i suoi antieroi sfasati e solitari, depressi e annoiati,  incollati alla sua idea di film on the road, per le strade di quell’America “profonda” che non riesce ad avere, però, lo stesso sguardo intimo, la stessa capacità descrittiva di quei paesaggi fatti di motel, pompe di benzina, figure sfuggenti incontrate in lande desolate, di un altro cineasta europeo come Wim Wenders (il capolavoro “Paris, Texas” (1984), ma anche  film minori quali “La terra dell'abbondanza”, 2004 e “Non bussare alla mia porta”, 2005 ).
Come in “Paris, Texas” , interpretato proprio da un fantastico Harry Dean Stanton, ci troviamo di fronte all’ennesimo viaggio di formazione e maturazione che scatta attraverso la sofferenza, la ri-scoperta delle proprie radici, ma nel film di Sorrentino tutto è pervaso da una sceneggiatura fin troppo didascalica, a partire dai personaggi stessi, che si muovono su binari spesso esasperati fino alle finzione se non al ridicolo. La noia, che Sean Penn/Cheyenne vive tra partite di squash con la moglie nella piscina vuota (ennesimo paradigma ?), o cercando un fidanzato a una ragazzina con cui gira per i centri commerciali, sembra essere la stessa sensazione di impotenza che accompagna anche il divo Stephen Dorff/Johnny, protagonista del pessimo “Somewhere” di Sofia Coppola, che guida solitario la sua Ferrari o trascorre le giornate giocando alla playstation con l’amico del cuore. Per entrambi i protagonisti sarà l’evento “esterno” che, cadendo nelle loro vite all’improvviso, riuscirà a scuoterne le coscienze, coscienze di personaggi ricchi e persi nel successo, presente e passato, in cui non hanno trovato una valida ragione per sbloccarsi dalla loro personale casa dei giochi e da un comportamento divistico/fanciullesco, se non grazie ad un evento traumatico. Sinceramente, trovo questa tipologia di personaggi vanitosi ed irritanti, priva di quel valore simbolico della “scoperta” e della “rinascita” dell’Io che sia il regista napoletano che la Coppola hanno tentato invano di dipingere.
Quella rinascita che in “Paris, Texas” Wenders, affida alla sofferenza ed al cammino, difficile e silenzioso di un uomo comune, scolpendo nella memoria dello spettatore un viaggio interiore fatto di fatica e di sofferenza interiore, ben più reale di quello compiuto da Cheyenne o Johnny.

2 commenti:

matteo casali ha detto...

Condivido l'analisi di Roberto: pretenzioso nel voler affrontare numerosi temi (il viaggio, la vendetta, la solitudine, il senso di colpa) non approfondendone neanche uno. Peccato, il talento del napoletano si sta mestamente appiattendo in un mero esercizio di stile.

k ha detto...

robi penso che siano in molti, oltre matteo e me, a condividere le tue considerazioni..la storia è infarcita di temi visti e rivisti e sorrentino non è riuscito ad estrarre il coniglio dal cilindro per renderla, se non originale, almeno gradevole..sono piuttosto deluso anche da sean penn, che poteva essere l'ancora di salvezza di questa barca (di lusso) alla deriva, e invece ha talmente caricato il suo personaggio da togliergli quasi del tutto credibilità e pathos..palma di peltro a pari merito alle ultime due scene, quelle della catarsi nella combustione della prima sigaretta e nel cambio di look, da smith/osbourne a toto cutugno. ciao