Riflettevo su quanto sia
difficile rimembrare quanto tempo è passato dalle prime accese discussioni che
mi permettevo di fare, da adolescente e, per ovvi motivi anagrafici,
incosciente ed “ignorante” fruitore di cinema, musica e letteratura, rispetto
ad i miei interlocutori più adulti, visti ed ammirati all’epoca come possibili
ciceroni in un mondo fatto di immagini, suoni
e pagine, fino ad allora sconosciuti.
Il ricordo che ho più impresso
rimane comunque questa sensazione che ritrovavo in chi, come il sottoscritto,
si trovava da una parte con la sorella che gli proponeva i Bee Gees, Gloria
Gaynor, Donna Summer, la colonna sonora di Grease da una parte, e le proposte
dei coetanei, cui i fratelli maggiori li costringevano, quasi sotto tortura, ad
ascoltare Genesis, Jethro Tull e chi più ne ha più ne metta. Non potevo, se non
trovarmi escluso, ad ammettere che i King Crimson erano meglio della rilettura
disco di “Don’t let me be misunderstood” dei Santa Esmeralda, disco che invece
ora conservo con gioia in ricordo di quella mutazione “culturale”, che in fondo
tutti noi adolescenti dell’epoca, chi con qualche brufolo in più, preferiva di
nascosto ascoltare rispetto all’esordio di Robert Fripp e soci.
Fortunatamente o meno, non sta
a me giudicare, il tempo muta le cose, le rende più chiare, ci fa capire cosa
davvero ci piace a distanza di tempo, ci fa tornare su “gusti” di cui fino a
qualche anno fa ci vergognavamo o che realmente ci disgustavano. Ad ogni modo,
queste mutazioni, hanno lasciato delle tracce, alcune volate come sabbia al
vento, altre che hanno lasciato solchi indelebili.
Personalmente potrei citare (e
non lo faccio per privacy!) un numero davvero ampio di amici e conoscenti che
si vantavano dell’ultima scoperta discografica in campo prog, come dell’ultimo
Bunuel o di “Viaggio al termine della notte”, opere verso le quali, invece,
nutrivano/vamo un odio profondo, proprio perché non ci piacevano o all’epoca
non si era ancora pronti, per noi, nati e cresciuti sotto l’egida della RAI (che
comunque, specialmente negli anni ’70, ha nutrito culturalmente intere
generazioni di italiani). Le notti, come me, le passavano quindi ad ascoltare,
in sordina, le radio locali dove la disco e la musica
italiana, anche della peggior specie, imperava sovrana. Pertanto guai a
parlarci di Tozzi o della Rettore, che sicuramente piacevano a tanti, ma nel
mentre crescevamo, i nostri fratelli e sorelle o abbandonavano la musica e il
cinema, e a molti di noi non rimaneva che affidarci a nuovi ciceroni, o alla
radio e alla televisione, o alle prime riviste di musica e cinema
“alternativi”, che in quel tempo ormai lontano perso tra i ’70 e gli ’80, ci
orientava verso novità di cui sentivamo, sulla nostra pelle, la necessità.
Quella stessa necessità che ci
portava, come chi ci aveva preceduto di una generazione, a snobbare le novità per la massa, specialmente in
campo musicale, proprio perché il settore più fruibile da tutti tramite la
radio, le mitiche compilation in cassetta, la tv. Abbiamo visto nascere, e ne
siamo stati in parte gli artefici, di quel snobismo culturale che ci faceva
guardare con disgusto chi non sentiva la
nostra musica (che fossero i Joy
Division piuttosto che Lee Perry), di chi non frequentava gli stessi posti, di
chi non vedeva gli stessi film.
Come scriveva Max, Sandblow è nato “perché può essere il luogo più adatto, per narrare di queste mutazioni”, “perché è una folata di vento caldo nella sabbia, perché la traccia o la lascia o non la lascia e non è certo quello il problema ma in ogni caso è una fantastica e operosa officina dei sogni” e “vent’anni fa come oggi la domanda è sempre la stessa, perché le persone fanno le cose, quali sono i motori trainanti della creatività, della voglia di esprimere, della fame senza fondo di ricerca e di progetto. Rispetto a vent’anni fa il mondo è cambiato radicalmente, nello stesso tempo si è ampliato e si è ristretto, ha aumentato la profondità di prospettiva ed ha allargato il campo visivo costringendoci tutti, ma proprio tutti, ancora una volta di più a fare conto con la nostra incapacità di contenere il tutto e favorendo cosi continui straboccamenti emotivi, psichici e non di meno creativi”
Come scriveva Max, Sandblow è nato “perché può essere il luogo più adatto, per narrare di queste mutazioni”, “perché è una folata di vento caldo nella sabbia, perché la traccia o la lascia o non la lascia e non è certo quello il problema ma in ogni caso è una fantastica e operosa officina dei sogni” e “vent’anni fa come oggi la domanda è sempre la stessa, perché le persone fanno le cose, quali sono i motori trainanti della creatività, della voglia di esprimere, della fame senza fondo di ricerca e di progetto. Rispetto a vent’anni fa il mondo è cambiato radicalmente, nello stesso tempo si è ampliato e si è ristretto, ha aumentato la profondità di prospettiva ed ha allargato il campo visivo costringendoci tutti, ma proprio tutti, ancora una volta di più a fare conto con la nostra incapacità di contenere il tutto e favorendo cosi continui straboccamenti emotivi, psichici e non di meno creativi”
E’ vero, che oggi tutto è
cambiato, paragonare gli anni ’80 o i ’90 all’attualità suona quasi come una
bestemmia; all’epoca, anche se si era giudicati troppo fighetti per il punk, o
troppo punk per i fighetti, vi era in fondo la stessa comunità d’intenti, quella
della ricerca, quella di sentirsi parte di una (contro)cultura che si dipanava
su l’arte tutta, in un mondo più lento e fruibile (per carità, non vuole essere
assolutamente la frase classica “dell’era meglio prima”) e più comprensibile.
Proprio con Max ne parlavamo
spesso, su quale potesse essere (al di la di situazioni culturali, logistiche,)
la via che permettesse di ampliare quella che allora era definita,
snobisticamente, cultura sotterranea e “coloro che coltivano le passioni, le
arti e la ricerca sanno che questi percorsi sono fatti di tempo e di
parossistica velocità, di capacità di guardare al mondo senza le riposanti
lenti del già detto o del già pensato, e di profonda riflessione su se stessi e
su quello che li circonda.”
Non voglio addentrarmi sui
radicali cambiamenti oggi sotto l’egida di tutti, che ha cambiato la fruibilità
e il piacere della cultura, ma “oggi come allora, ancora emergerebbe quello che
avevamo definito lo stile del cuore di persone che continuano a credere nella
realtà del desiderio e dei sogni, di quel strano gruppo sociale trasversale per
classe e generazione che continuano ad averne voglia.”
Quello su cui non mi trovavo d’accordo,
era il cambiamento epocale offerto alla generazione degli anni 0 (la
generazione X di Coupland c’entra poco o niente), che rischia oggi solo di
percepire la cultura e di non cercarla, viverla, assorbirla; è assai probabile “che
rispetto a vent’anni fa la scena sarebbe ancora più ricca e stimolante, ma ciò
che sono certo che rimane intatta rimasta la voglia di alcuni di mettersi in
gioco, di non avere paura e di uscire fuori”, di questo sono sicuro, ma vedo
ormai anche giovani e adulti persi all’interno di questo calderone che la rete
e la tecnologia oggi offrono. Il rischio, rispetto alle generazioni nate nei ’60
e ‘70 è quello del percepire e
non dell’addentrarsi alla scoperta dell’oggetto scelto, che sia un libro, un
film, un’installazione, una canzone. E il tutto perché molti di noi, e
credetemi non voglio offendere nessuno, si sono messi su un piedistallo fatto
di snobismo e di gelosia, che ha sostituito la voglia di condivisione, di cui siamo
rimasti vittime.
A Berlino, qualche estate fa, io
Max e Capasoul, sulla chiatta di un bellissimo locale sulla Sprea, ci
addentrammo in una feroce discussione
su quale genere musicale fosse stato più importante e stimolante dagli anni ’90
in poi, sotto lo sguardo attonito di due nostre amiche che, stupite e
preoccupate anche per le molte birre che scorrevano nelle nostre mani , in
quella giornata assolata che ricordo ora con un brivido, ci osservavano come se stessimo parlando di
meccanica quantistica. Si parlava di hip-hop e di techno, e loro due
ascoltavano senza capire poco o nulla delle idee che ognuno di noi sosteneva; e
questo perché in fondo, il nostro snobismo, non ci permetteva di condividere
con loro le nostre idee, raccontare loro quello di cui stavamo parlando.
Lo snobismo “pop”, lo
definimmo poco tempo dopo io e Max, quello snobismo che spesso non permette la
divulgazione di chi ha conoscenze delle quali anche noi vorremmo essere fruitori,
per riuscire ad essere tutti “in quel luogo dove si possono chiamare le persone
per nome, investendo energie per amarle e per amare il proprio lavoro, le
proprie passioni e le proprie ossessioni, lasciando fuori tutti quelli che non
vedono, non sentono e non ricercano”.
E allora affanculo chi è geloso
della propria conoscenza, e chi non la vuole divulgare anche e soprattutto a chi
ha l’espressione di colui che ha fame di quella conoscenza, a fare in culo chi
alla Biennale di Venezia non ci esprime cosa gli trasmette quel video, a fare
in culo chi non vuole ascoltare “Se telefonando” perché non è una canzone di
Omara Portuondo, a fare in culo chi vuole trarre spiegazioni da un film di
Bunuel senza capirci peraltro un cazzo e poi se la ride con “Vieni avanti
cretino” e gli Squallor, di nascosto al riparo da occhi indiscreti.
“1) cosa rimane? Cosa rimane
della voglia,della passione e del desiderio in un mondo che sembra negarti
diritto di parola, di azione di crescita e di realizzazione dei propri sogni?
2) Che fare? Cosa fare per
realizzare i propri sogni e i propri desideri?
Oggi come allora One Love.”
Forse rimane scendere dal
piedistallo e trasmettere le proprie passioni e desideri, almeno tra coloro che
si hanno vicino, discuterne, ascoltare.
Esistono chissà quante altre risposte, al di là dello snobismo di
facciata.
P.S.: frasi e diciture tra parentesi sono tratte dal post "Vent'anni dopo l'officina dei sogni.." .
2 commenti:
l'assurdo è che alla fine sul fottuto piedistallo ci siamo saliti tutti, perchè ognuno di noi, a torto o a ragione, ha pensato o è stato spinto a pensare di avere da difendere delle verità più vere di quelle altrui..ognuno grida dalla propria supposta altezza per farsi capire da quelli ai piani più bassi ma il risultato è solo un delirio di urla incomprensibili che ci avvolge quotidianamente....il fatto di voler scendere, oltre ad essere una bella dimostrazione di umiltà, è anche prerogativa di chi comunque cerca un punto di rottura con il conformismo generale e mal sopporta l'uniformità malata che ci viene "velatamente" suggerita dal mondo in cui vivamo..e, in effetti, a furia di gridare sempre si corre il rischio di rimanere afoni. ciao robi, ti abbraccio forte
Simone, come darti torto ? l'importante è ritrovare la voce, la voce per l'amore, per le persone, per la cultura (questa altisonante e ridondante definizione di cui abusiamo spesso) che spazzi via il flebile suono che ormai siamo abituati a generare.
Un grande abbraccio a te
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