Le riprese del film di Franco Maresco su Carmelo Bene vengono bruscamente interrotte dopo l’ennesimo incidente sul set. A staccare la spina è il produttore Andrea Occhipinti, esasperato dai ciak infiniti e dai ripetuti ritardi. Dal canto suo, il regista accusa la produzione di “filmicidio”, facendo poi perdere le sue tracce. A cercare di ricucire lo strappo è un amico di Maresco, Umberto Cantone, che chiama a testimoni tutti coloro che hanno partecipato all’impresa, in un’indagine che è l’occasione per ripercorrere la personalità e le idee dell’autore più corrosivo e apocalittico del cinema italiano. E se intanto, lontano da tutto e da tutti, Maresco stesse ultimando il suo film, diventato “il solo modo per dare forma alla rabbia e all’orrore che provo per questo mondo di merda”? [sinossi]
Con Un film fatto per Bene Franco Maresco torna per la
seconda volta in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di
Venezia, a sei anni dalla presentazione di La mafia non è più quella di una
volta, dove ottenne il Premio speciale della giuria sorprendendo quella parte
di critica – tutt’altro che minoritaria – che lo reputava un film
“incomprensibile” agli occhi di una giuria internazionale. Il medesimo
aggettivo, incomprensibile, lo si è sentito serpeggiare al termine delle due
proiezioni stampa di Un film fatto per Bene, e che di fatto chiudevano la
competizione dell’ottantaduesima edizione della Mostra. In effetti un’opera
come quella di Maresco con fin troppa facilità può essere considerata tale,
lavoro ostico e criptico inaccessibile ai più, anche perché in questo caso il
regista palermitano ha inserito nel film una sorta di passaggio in rassegna
della sua intera carriera, fin dai tempi di Tvm, la rete televisiva del
capoluogo siciliano in cui Maresco, insieme a Daniele Ciprì e Umberto Cantone,
mosse i primi passi che li avrebbero poi trasportati addirittura sulla
televisione nazionale, a Rai3, all’epoca dell’immortale e indimenticabile Cinico
Tv. L’impressione però è che non sia tanto la natura a tratti quasi
autobiografica del racconto a tenere a debita distanza una parte del mondo
critico e forse anche la giuria – laddove Un film fatto per Bene è, per
pensiero e qualità, alcune spanne al di sopra della restante parte del concorso
veneziano allestito per il 2025 –, bensì quel che prende corpo in scena fin da
subito, assumendo i contorni dell’indagine, del pedinamento, del disvelamento
di un mistero con cui non si riesce a scendere a patti. Un mistero tripartito,
o forse anche sminuzzabile in ulteriori suddivisioni. C’è la ricerca alla base
dell’ipotetico film che Maresco avrebbe voluto realizzare, e che parla
dell’incontro in terra siciliana tra Santa Rosalia e San Giuseppe Desa, vale a
dire Giuseppe da Copertino, il frate minore che “sapeva volare”; c’è la ricerca
del punto di contatto tra il viaggio del santo in Trinacria e l’incontro nella
Palermo degli anni Sessanta tra un maestro elementare, massimo esperto del
fraticello levitante, e nientedimeno che Carmelo Bene; c’è infine e
innanzitutto l’indagine alla base della narrazione: che fine ha fatto Franco
Maresco, di cui si sono oramai da mesi perse le tracce?
Il concetto di falsa investigazione, dalla matrice
dichiaratamente wellesiana, è uno degli elementi portanti della poetica
espressiva di Maresco, come testimoniano tra gli altri Il ritorno di Cagliostro
e Belluscone – Una storia siciliana, dove l’amico di una vita Tatti Sanguineti
doveva recarsi a Palermo per tentare disperatamente di chiudere il film
“abbandonato” da Maresco nel bel mezzo delle riprese. Se a sua volta l’idea di
non finito e non terminabile è un cascame che viene direttamente dal genio di
Orson Welles, anche qui come in Belluscone Maresco si affida a un narratore
terzo, cui viene richiesto di lanciarsi nella detection riguardo la “fine” del
regista e i motivi che hanno portato all’interruzione del set. Il gioco
rispetto al bellissimo film del 2014 è però ancora più intricato, perché se
Sanguineti era un elemento esterno alla vita lavorativa di Maresco qui a
vestirsi dei panni dell’investigatore è Umberto Cantone, che fa parte della
squadra di sceneggiatura del cineasta. Il discorso meta-cinematografico si fa
ancora più estremo, lambendo i confini del sublime, e Un film fatto per Bene si
tramuta in viaggio in estroversione sull’introspezione di un oggetto umano
inscalfibile. Nessuno in realtà comprende Maresco, neanche i suoi produttori
Andrea Occhipinti (che, viene detto, suggerirebbe al regista di trovarsi uno
psichiatra invece di un produttore) e Marco Alessi, che ancora non si capacita
di come sia stato possibile perdersi in infiniti ciak su una sequenza che
neanche era presente in sceneggiatura, e che vede san Giuseppe ballare a mo’ di
pellerossa attorno a un fuoco accompagnato da un Pulcinella nano. Non si tratta
dell’impossibilità di comprendere l’artista, deviazione che aprirebbe il fianco
a una deriva narcisistica, ma della fioritura fuori dal tempo dell’estetica e
dell’etica marescana, che ha comunque smesso da anni di credere nel cinema come
riparatore dei torti all’interno di un sistema-mondo che è (testualmente) “una
merda”. Dopotutto come credere nel cinema quando oggidì a nessuno viene negato
il diritto di girare un film? Tale chiosa sardonica Maresco la riserva a sé,
alla sua voce, mentre la macchina da presa compie una panoramica laterale su
loculi per la tumulazione, a sottolineare la natura mortuaria di un’arte che si
è tramutata in mero esercizio economico/industriale, senza più la capacità di
ergersi contro la marea montante.
Ecco dunque che Un film fatto per Bene certifica di aver
compreso fino in fondo il teatro post-artaudiano di Bene, e si pone come atto
di resistenza dell’immagine contro un immateriale sempre più vacuo,
ectoplasmatico, deturpante. Non è certo casuale che Maresco oltre a muoversi
su/per/attorno a Carmelo Bene, citi in scena Franco Scaldati – riproponendo il
lacerto di un dialogo illuminante e straziato –, assuma un altro residuo della
controcultura degli anni Novanta come Antonio Rezza per
replicare/negare/reinterpretare la sequenza celeberrima della disfida a scacchi
tra la Morte e il protagonista di bergmaniana memoria, e si contorni di quel
microcosmo palermitano che non è (come troppo stesso ipotizzato) la sua
personale corte dei miracoli bensì l’enucleazione in atto umano di un concetto,
di un’idea, dell’ideologia di non appartenenza a un mondo che non va sfiorato,
ma rigettato con forza. In questo senso il racconto si fa eloquente, con la
magniloquenza dell’en plein air che si riduce dapprima a un teatro di posa e
poi perfino a uno spazietto miserrimo e angusto nella sede della succitata Tvm:
un ritorno a casa che non è un ripiegarsi, ma un riscoprirsi eternamente
controcorrente. Così controcorrente che nemmanco una confessione può provare a
fare il miracolo – che dopotutto parrebbe non esistere, l’imbracatura del santo
in levitazione si rompe e il povero Bernardo crolla al suolo da un’altezza
considerevole: eppure, il finale… – di ricondurre Maresco su un’ipotetica
“retta via”. Di un’intelligenza sconfinata, Un film fatto per Bene è
un’istantanea tragica sull’Italia culturizzata, ma anche un film comico che
trascina alle lacrime per quanto si può ridere di fronte a sequenze
indimenticabili, tra le quali appare impossibile non citare il lungo passaggio
che vede in scena come vittima/complice del regista/carnefice Francesco Puma,
alle prese con un problema gastrointestinale e interprete perfetto nel
racchiudere in sé l’incrocio all’apparenza impossibile tra patetico, sublime,
artistico, scatologico e comico. Franco Maresco volteggia a levature troppo
alte probabilmente per l’asfittico panorama nazionale, ma la sua testimonianza
di coerenza è così radicale e ghignante da trascinar via con sé l’intero
palinsesto di Venezia 2025.
Pubblicato su quinlan.it 05/09/2025, di Raffaele Meale
In una delle sequenze più emblematiche di Un film fatto per
Bene, la Morte (interpretata da Antonio Rezza) e San Giuseppe da Copertino (al
“santo volante” Carmelo Bene aveva dedicato una sceneggiatura mai realizzata,
poi pubblicata in forma di libro con il titolo A boccaperta) giocano la loro
bergmaniana partita a scacchi. Ma il frate non fa mai la prima mossa, quindi la
Morte resta lì ad aspettare, annoiata. Lo stallo sembra perenne e immutabile:
“ma lo sai come si gioca a scacchi, Peppino?”, sbotta Rezza ad un certo punto.
Ecco, la domanda fondamentale – anche stavolta, come in tutto il cinema di
Maresco – rimane questa: dove siamo noi in questa partita? Da quale parte della
scacchiera? La posizione di Franco Maresco, quella è nota da tempo, e il
regista ci tiene a ribadirla più volte anche in questa occasione (con stoccate
contro il cinema italiano, le produzioni, Gigi Marzullo, e così via), mai così
tanto “in campo” come in questo nuovo film, presente sulla scena come corpo
(per restare in territorio sacro, potremmo dire come icona) e non solo come
voce incalzante, nonostante i mille tentativi per sparire, messi in atto come
in Belluscone, di far perdere le tracce,
addirittura rinchiudersi in un monastero come un Majorana sciasciano.
Ed è proprio nella chiesa del convento che Maresco va a
confessarsi, in una sequenza straordinaria in cui vediamo il volto del cineasta
incorniciato dentro la grata del confessionale, ma dal punto di vista del
confessore, con il profilo del regista frammentato in mille schegge dal
reticolo della finestrella. Ancora: da quale parte della finestra ci troviamo?
Di sicuro questo nuovo lavoro del regista è il suo ennesimo
calvario, un sabotaggio innanzitutto “politico” (dilatare le riprese e di
conseguenza i costi delle sezioni in pellicola, mandare alle ortiche la
sceneggiatura…) e allo stesso tempo mostra un’ossessione per il sacro che così
spiccata non rilevavamo forse davvero dai tempi di Totò che visse due volte (la
cui vicenda viene nuovamente rievocata in una sezione in cui il sodale di
sempre Umberto Cantone racconta tutta la parabola artistica di Maresco,
arricchita da frammenti inediti di dietro le quinte dell’epoca Cinico Tv
davvero strepitosi): le sequenze pasoliniane del fantomatico film
(nell’abituale bianco e nero) sul santo salentino e su Carmelo Bene, le gag
ritornanti sulla religiosità esasperata del tassista di fiducia di Maresco, la
“folgorazione” avvenuta dopo aver sentito la voce di Bene balenare nel buio…
Quando il regista dichiara “io sono il Carmelo Bene del
21esimo secolo” sta chiaramente facendo ricorso al suo gusto per il nonsense,
ma allo stesso tempo esplicita una vicinanza con il pensiero dell’attore (più
volte Bene aveva espresso pubblicamente il suo apprezzamento per Cinico Tv e
per l’opera di Ciprì e Maresco) e alla sua visione tragica del cinema e
dell’arte (questo non evita che Maresco si prenda gioco della macchietta
beniana ingaggiando un attore che ne parodizza espressioni facciali e modo di
esprimersi…): e così gli sketch e gli istanti più apertamente grotteschi e
scatologici si fanno inevitabilmente funerei, raggelanti, terminali (che tutto
il cinema di Maresco si origini dalla sequenza della pantagruelica mangiata dei
frati in Nostra Signora dei Turchi?). Giri a vuoto (non più o meno di tre, mi
raccomando) lungo una rotatoria che manda solo indietro.
“Bisogna rinnegare quello che si è fatto finora, e farlo
magari con i film”, aveva detto d’altronde una volta proprio Carmelo Bene ad
Adriano Aprà. “Tanto riusciremo tutti a fare i nostri film prima o poi, sapete
com’è, e i film sputtaneranno quello che abbiamo scritto e viceversa. Sullo
schermo c’è ancora modo di sputtanarsi”. Ecco, lo sputtanamento di Un film
fatto per Bene non sta tanto nella sua anima mockumentary con Andrea Occhipinti
sempre più esausto perché la lavorazione ha preso una piega delirante, quanto
nello sguardo di Franco Maresco, che per la prima volta ci guarda in camera in
un lungo primo piano abissale, e nella decisione di mostrare la propria
disperazione solitaria, il gioco con le “follie” del suo disturbo
ossessivo-compulsivo messo in piazza, le camere d’albergo con le mura riempite
di file di numeri scritti a pennarello sulle piastrelle – come la cella di un
pazzo, o forse quella di un santo in preda alle crisi mistiche. Un film fatto
per Bene rivela così la sua struttura perfettamente inscritta nelle agiografie
delle “vite dei santi”, in questo quasi vicina (ancora una volta) all’ultimo
Abel Ferrara.
E allora, nell’ascensione finale – il più bel drone della
storia del cinema italiano – finalmente Franco Maresco raggiunge il grado
assoluto di tutta la sua ricerca, diventa una volta per tutte pura voce che si
libra sulle nostre teste, un’entità che sorvola senza posa ora e per sempre la
sua Palermo e che pure mentre fluttua tra le nuvole non riesce a resistere ad
imbastire l’ennesimo scambio di battute sgrammaticato, l’ennesimo vuoto di
senso tra le sue domande e l’interlocutore appartenente a quell’umanità
terminale che lui tanto ama, la sonda Voyager che conserva nello spazio i segni
di almeno un tormentone mareschiano, di almeno uno dei dialoghi tratti da
Franco Scaldati, frequenze-radio come quelle captate dal santo, che
restituiscono la lingua di una civiltà estinta.
Pubblicato su sentieriselvaggi.it , 5 Settembre 2025 di
Sergio Sozzo