lunedì 22 settembre 2025

Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson (2025)

Con Una battaglia dopo l’altra Paul Thomas Anderson pare tornare a Thomas Pynchon dopo Vizio di forma, ma si tratta solo di uno spunto: il regista statunitense si lancia invece in una riflessione tanto sul cinema quanto e ancor più sulla rivoluzione come utopia sconfitta ma mai doma, e impossibile da eradicare, e che può passare di generazione in generazione, con la speranza che prima o poi ottenga l’agognato trionfo.

Sono trascorsi sedici anni dalle ardite azioni rivoluzionarie del gruppo politico French 65, e dopo l’arresto di molti membri della banda Bob Ferguson vive sotto falsa identità con la figlia adolescente Willa, che ha avuto con la compagna di lotta Perfidia Beverly Hills, ora svanita nel nulla. Quando l’acerrimo nemico dei French 75, il colonnello Steven J. Lockjaw, riappare e Willa scompare, l’ex militante radicale si lancia in una disperata ricerca. Padre e figlia dovranno affrontare insieme le conseguenze del suo passato. [sinossi]

Si sa fin dai tempi di Small Talk at 125th and Lenox e Pieces of a Man, prime incursioni di Gil Scott-Heron nel campo della musica, che “la rivoluzione non sarà trasmessa in televisione”. L’unica possibilità, scartando anche il caotico mondo dei social network, è continuare a credere nel cinema, nella sua libertà, apparente o concreta che sia. Si attendeva come acqua nel deserto un film come One Battle After Another (tradotto letteralmente in Italia con Una battaglia dopo l’altra), decimo lungometraggio di finzione per Paul Thomas Anderson in poco meno di trent’anni di attività; non tanto e non solo per l’importanza che il suo autore riveste nel pantheon registico contemporaneo, ma per l’opportunità di credere ancora in Hollywood come portatore di un immaginario non predigerito, non necessariamente conforme alle regole vigenti. Con Quentin Tarantino che non si lancia nell’agone da sei anni – considerando le sue abituali tempistiche di produzione è plausibile che si attenderà il suo nuovo e “ultimo” film ancora per parecchio –, i fratelli Coen che si sono separati con esiti rivedibili per entrambi, David Fincher che si è fatto attrarre dalle lunghe ombre delle piattaforme, e i loro padri e “fratelli maggiori”, quella che a tutti gli effetti è l’ultima generazione che ha potuto produrre prima della fine del millennio non ha più molte occasioni per rivendicare la propria esistenza, e per dimostrare di saper resistere. Spostando con intelligenza l’ambientazione temporale di Vineland, romanzo di Thomas Pynchon che in una maniera labile è servito come “ispiratore” per la sceneggiatura, Anderson sovrappone in una qualche misura la sua figura a quella di Pat alias Bob Ferguson, il rivoluzionario che ha fallito, e che ora vive con una falsa identità in un posto sperduto al confine con il Messico dove, ogni giorno, migliaia di persone al limite della disperazione cercano di accedere al “sogno americano” tramutatosi anno dopo anno in un incubo, in un lager militare, in uno spazio che soffoca ogni tentativo di identità, di deviazione rispetto alla prassi borghese consolidata. Il cinema come atto di resistenza, dunque, come l’utilizzo della pellicola, il rimando a un universo immaginifico lontano, perduto nelle brume del tempo eppure ancora lì pronto a permeare nuove generazioni, convincendole della giustizia della lotta, anche quella più brutale. Perché la libertà, come insegnava Nina Simone e nel film sottolinea Benicio Del Toro nel ruolo di Sergio St. Carlos (o Sensei, come lo chiamano tutti in quanto gestore di un dojo), significa non avere paura.

Se non ha paura Anderson ancora meno ne hanno i membri di French 75, il gruppo di militanti rivoluzionari su cui si apre il film: negli anni Zero, presumibilmente a ridosso della crisi economica innescata dalla bancarotta di Lehman Brothers, i French 75 danno il via a una rivoluzione che parte dalla liberazione dei messicani detenuti nel bel mezzo del nulla con la sola colpa di aver attraversato un confine, e si allarga a rapine in banca, minacce telefoniche a politici, proclami antisistemici e anticapitalistici. Di questo gruppo fanno parte tra gli altri la pacata e organizzata Deandra, l’esperto di tecnologia e pianificatore di colpi e attività Howard Sommerville, un’entusiasta e giovane ragazza (la interpreta Alana Haim, lanciata da Paul Thomas Anderson nel precedente Licorice Pizza), l’esuberante Junglepussy – che è poi il nome d’arte di colei che la incarna, Shayna McHayle –, e la carismatica leader Perfidia Beverly Hills, che ha una relazione interrazziale con il succitato Pat, esperto in esplosioni e fuochi d’artificio e che svolge spesso la funzione di diversivo quando i colpi devono essere messi in pratica. Nonostante il gruppo sia affiatato e ben coordinato le cose iniziano a prendere una piega diversa quando Perfidia, nel guidare la liberazione di centinaia di immigrati dal campo in cui sono segregati, si diverte a titillare l’eccitazione erotica del colonnello Steven J. Lockjaw, militare di mezza età tutto d’un pezzo che ha come unica ambizione quella di entrare a far parte del Christmas Adventurers Club, un circolo segreto fascistoide dominato da bianchi ben posizionati nei settori chiave degli Stati Uniti che credono nella segregazione delle razze e nella soppressione del libero pensiero. Ovviamente un’eventuale relazione con una rivoluzionaria afrodiscendente non sarebbe vista come un requisito positivo per essere accolto nel club. La lotta tra militari e gruppuscolo di militanti ha un esito inevitabile, e così sedici anni più tardi Pat, ora Bob Ferguson, vive in una casupola malmessa in mezzo al bosco con Willa, la figlia sedicenne che ha avuto con Perfidia prima che questa facesse perdere le sue tracce. Ma Lockjaw è sempre in agguato… È interessante come di Vineland Anderson non trattenga che qualche suggestione, qualche riferimento sarcastico, e la tensione a ragionare sui rapporti famigliari come contrasto a quelli di potere: mentre all’epoca di Vizio di forma il regista aveva trasposto con una certa fedeltà in immagini l’omonimo romanzo di Pynchon, qui le strade divergono quasi subito, fin dall’ambientazione. Un cineasta che ha sovente amato confrontarsi con il passato (Boogie Nights è ambientato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, Il petroliere a inizio Novecento, The Master e Il filo nascosto alla fine della seconda guerra mondiale, Vizio di forma nel 1970 e Licorice Pizza nel 1973) sposta l’ambientazione dalla California degli anni Sessanta/Ottanta agli States reclusi tra la crisi del 2008 e l’oggi trumpiano; una scelta netta, che rivendica di nuovo la necessità di essere rivoluzionari oggi, e non nel glorioso passato in cui un depresso e annebbiato Bob si crogiola, passando le giornate a guardare film come La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, quasi a volersi ricordare che altrove – ma anche su un altro medium – quella rivoluzione che i French 75 hanno solo abbozzato, fallendo l’atto conclusivo, abbia invece raggiunto il successo.

Anderson, forse conscio che il materiale di Pynchon fosse troppo complicato da sbrogliare per una produzione cinematografica (non solo oggi, ma soprattutto oggi), fa di Una battaglia dopo l’altra un action drammatico ma colmo d’ironia, giocando a tratti con il registro del grottesco e con i suoi stessi personaggi – Lockjaw può essere letto come “mascella bloccata”, ma è anche il nome colloquiale e non scientifico che gli anglofoni danno al trismo, forte contrattura alla mascella che rende impossibile aprire la bocca: per un militare solleticato dal totalitarismo si adatta alla perfezione – e arrivando a comporre un mosaico bizzarro ma colmo di umanità. Ovvio che la dialettica sia soprattutto tra l’ottenebrato Bob, che deve rimettersi finalmente in gioco in prima persona visto che la bella e intelligente Willa (che ha dettagliatamente preparato, in ogni caso, nel corso degli anni, sia insegnandole la riservatezza – le è impedito possedere un cellulare, per esempio – sia iscrivendola al corso di judo tenuto da Sensei) è scomparsa dopo il ballo del liceo, e Lockjaw, che ha ben più di un motivo per voler liquidare una volta per tutte la situazione. Seguendo una linearità narrativa perfino semplice per un regista che ha spesso fatto della complessità una delle sue principali cifre espressive, Una battaglia dopo l’altra lavora in realtà sottopelle, spingendo lo spettatore a un viaggio – meglio, a un inseguimento – epico e al contempo trattenuto, come se la totalità dell’ambiente e dell’azione collettiva non possa che passare anche attraverso l’intimità di un nucleo famigliare, degli affetti più prossimi. Se i migliori crimini sono quelli domestici, come suggeriva sardonico sir Alfred Hitchcock, le migliori rivoluzioni nascono dal tinello, magari tramutandosi in un percorso di formazione per le giovani generazioni. Per quanto all’apparenza possa assumere le sembianze di un’opera rivolta al passato – come si è già scritto basterebbe l’utilizzo della pellicola per trasportarlo indietro nel tempo – Una battaglia dopo l’altra è un film intriso di contemporaneità, e sembra possedere tutte le carte in regola per ammaliare non solo la generazione del regista, ma anche e soprattutto quelle più giovani, perfino gli adolescenti che potrebbero elevarlo al ruolo di culto. Dal canto suo Anderson sciorina la propria sapienza registica muovendosi su un terreno ibrido, dove la secchezza dell’action si mescola alla categoria del buffo (in un certo qual modo rivedendo in una forma personale la dinamica picaresca de Il grande Lebowski dei Coen, che dopotutto guardava in modo incessante alle pagine di Pynchon, pur senza mai prenderlo davvero di petto) senza però ridicolizzare mai davvero il dramma, la violenza e le sue dirette e indirette conseguenze. Lo testimonia tra tutte la bellissima sequenza d’inseguimento tra le colline di Borrego Springs, un saliscendi che rende impossibile la visuale di tutte le macchine impegnate nell’inseguimento. Quel “¡Viva la revolución!” che Bob urla più volte nel corso del film muta da inno alla lotta a coperta ideale nella quale trovare ancora protezione, ora che l’uomo è solo e scoperto ai fianchi da ogni possibile attacco. Come la spinta rivoluzionaria della New Hollywood e poi della produzione anni Novanta post-indie (sempre troppo sottostimata) ha lasciato soli i pochi cineasti che ancora oggi a Hollywood e dintorni perseguono un’ipotesi di cinema/vita distante dalla merceologia, con Anderson che rivendica la sua stessa posizione. Lo fa credendo ancora nell’immagine come rivoluzione, e riconoscendone i padri fondatori: in questo senso il sottile e dolcissimo omaggio che fa a Jonathan Demme e al suo capolavoro Il silenzio degli innocenti nell’utilizzo di American Girl è ben più di un segnale, e indica la strada da perseguire, con ostinazione e fiducia, anche qualora non si ricordassero più le parole in codice.

Pubblicato su quinlan.it 17/09/2025 di Raffaele Meale

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“Si vede che non hai mai avuto figli!” sbrocca lo squinternato Di Caprio all’attempato e zelante militante dall’altra parte del telefono, quando scopre che la parola d’ordine che da giorni non ricorda più è “Il tempo non esiste, ma ci controlla sempre”. E invece il tempo esiste eccome, perdio! sembra suggerirci questo padre scombussolato dal fallimento della sua rivoluzione e da quella libertà che “quando ce l’hai non la riconosci e quando la riconosci è volata via”. Come nella fantastica ellissi temporale che dalla figlia neonata ci porta direttamente al primo piano, sedici anni dopo, della straordinaria Chase Infiniti sulle note di una vecchia canzone degli Steely Dan. Cosa è successo in quei sedici anni? Cosa e quanto è volato via? È il buco nero del film ed è il magnifico paradosso del cinema che, in un unico stacco di montaggio, può portarci via il Tempo e riconsegnarcelo nel fuori campo o nelle rughe di un grandioso Di Caprio, “incastrato” nella sua confusione post-rivoluzionaria, nella sua vestaglia alla Lebowski che da un certo momento in poi non toglie più. E allora partiamo da un fatto: Una battaglia dopo l’altra è un film sul Tempo. E sulla possibilità di noi spettatori, di Paul Thomas Anderson, dei suoi personaggi di accordarsi e di connettersi nel Tempo che viviamo.

Magari è per questo che Anderson ritorna su un testo di Thomas Pynchon, per realizzare un’opera quasi antitetica a Vizio di Forma. Tanto era scritto, nostalgico e iper-raccontato il film del 2015, tanto sembra asciugato e diluito nell’adrenalina questo adattamento da Vineland, pubblicato da Pynchon nel 1990. Anderson  –  come al solito regista, sceneggiatore e produttore  -  rispetto al libro sposta l’ambientazione ai primi due decenni degli anni 2000, realizzando sulla carta il suo primo film “contemporaneo” dai tempi di Ubriaco d’amore. Dall’America di Reagan secondo Pynchon a quella di Trump secondo Anderson, quindi. Anche se non ci sono date, né riferimenti storico-politici precisi in questa America abitata da rivoluzionari, immigrati rinchiusi nei campi e suprematisti bianchi. Dentro il caos e l’afflato apocalittico di questo mondo impazzito si muove il gruppo dei French 75, composto tra gli altri da Pat (Di Caprio) e Perfidia (Teyana Taylor), che tra un attentato e l’altro vivono come coppia. A loro dà la caccia il colonnello razzista Steve Lockjaw (Sean Penn), innamorato di Perfidia. Anni dopo, Pat si fa chiamare Bob e vive da latitante con la figlia Willa (Infiniti). E le battaglie, le sue, di Willa, di Steve… non sono finite.

Paul Thomas Anderson realizza l’action politico che voleva fare da anni e che riesce a portare a termine mettendo insieme Pynchon e un budget, secondo le fonti Warner, di 130 milioni di dollari. Intende cogliere lo spirito dei tempi raccontando, con sfumature grottesche, le rivoluzioni (o le imminenti guerre civili?) di oggi. Punta l’intera posta sulla struggente utopia autoriale intrapresa da Welles, Coppola, Cimino, ovvero il kolossal hollywoodiano filo-marxista, fino a incunearsi coraggiosamente nelle afose terre di confine di Sam Peckinpah e negli inseguimenti deliranti di William Friedkin. Sorprendente. E poi c’è il film “privato” di Anderson, quello che alla fine si scioglie nella sua tematica prediletta che è la Famiglia. Con la Willa di Chase Infiniti che diventa il tipico personaggio “figlio” andersoniano, costretto a sopravvivere alle “colpe” di padri e madri e a costruire da solo il suo Tempo, il suo Destino. Mentre la linea temporale di Di Caprio è claudicante, sempre in ritardo, al perenne inseguimento delle donne che ama (la compagna, la figlia). E quella di Sean Penn è frammentata, tragica, contro-Natura, scissa tra il desiderio e la sua soppressione, tra l’istinto biologico della paternità e quello artificiale, massonico, dell’America reazionaria. Un film di traiettorie pazze e indecifrabili questo di PTA. Linee dritte, parallele, spezzate. Traiettorie sentimentali, politiche e familiari incompiute, che si incrociano, si inseguono, si guardano a distanza da uno specchietto retrovisore, come nella straordinaria sequenza ipnotica dell’inseguimento in macchina in mezzo al deserto. L’unico ricongiungimento possibile è quello dell’abbraccio, ovviamente. Il “riconoscimento” tra padri e figli. Si torna sempre lì. È quello il Tempo Assoluto per Paul Thomas Anderson. Fino alla prossima battaglia, da far combattere ai figli… magari ascoltando American Girl di Tom Petty and the Heartbreakers. E così, mentre siamo qui a domandarci cosa ci sta succedendo intorno e come salvare o amare quello che abbiamo, Anderson ci regala il suo “classico” meticcio, già memorabile, finalmente consegnato al suo e al nostro Tempo. Ma, chissà, forse Una battaglia dopo l’altra è semplicemente una magnifica, fottuta allucinazione collettiva… sulle rivoluzioni che abbiamo o non abbiamo immaginato di fare. Sul mondo in cui stiamo vivendo.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 18 Settembre 2025 di Carlo Valeri

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Until his monumental new film, Paul Thomas Anderson had only made a single narrative feature set in the 21st century, and that movie — a love story about a plunger salesman who hoards pudding cups, gets extorted by the owner of a phone sex line, and shares an iconic kiss to the sound of a Shelley Duvall song from 1980 — was less of its time than out of it. After that came an origin story about the birth of American capitalism, two post-war fables about people trying to sow their own visions of the future, a patchouli-scented lament for the lost promise of ’60s counterculture, and a star-crossed romance set against the 1973 oil crisis.

At a certain point, Anderson’s seeming attachment to the past became conspicuous enough that it began to appear as if he might be mystified, scared, and/or bored of the modern world to some degree, and therefore arguably less relevant to it.

Enter: “One Battle After Another,” the power and the mercy of which lies in how it simultaneously functions as both a backboard-shattering windmill dunk on that line of attack and an open-hearted surrender to its merits.

Vaguely abstracted from Thomas Pynchon’s 1984-set “Vineland” but eager to reflect a variety of post-Reaganite advancements in ethno-fascism (the action starts in a recognizable today before jumping 16 years forward into a pointedly unchanged tomorrow), this propulsive, hilarious, and overwhelmingly tender paranoid comedy-thriller car chase blockbuster whatever doesn’t just stare a broken country in the face with its already prescient tale of immigrant detention centers, white nationalist caricatures, and bullshit pretenses for deploying the military into sanctuary cities. It’s also the first movie of its size to accurately crystallize how fucking anxious it feels to be alive right now — to capture the IMAX cartoonishness of our reality and provide a convincing roadmap as to how we might survive it.

And how does its filmmaker, once a fiery wunderkind, now a 55-year-old father of four, manage to accomplish that? Simple: He falls 40 feet off the roof of an apartment building and right onto the blade of his own sword.

From the bifurcated porn fantasia of “Boogie Nights” and the fin de siècle biblicality of “Magnolia” to the stoned disillusionment of “Inherent Vice” and the coming-of-age impertinence of “Licorice Pizza,” Anderson has always been drawn to the Sisyphysean task of self-discovery; to the heartbreaking search for place and permanence in a world that’s constantly shifting under our feet. Dirk Diggler, Quiz Kid Donnie Smith, Lancaster Dodd, and mama’s boy Reynolds Woodcock are but a few of the immortal characters he’s created over the last three decades, all of them immovably anchored to past lives that drag them down as they push towards the future.

With “One Battle After Another,” Anderson concedes that he’s no different than his most enduring creations. On a long enough timeline, maybe none of us are.

While Anderson has never been stuck in place or in sad pursuit of his former glory (on the contrary, his shapeshifting body of work is so remarkable for its limitless vitality), Hollywood has collapsed around him despite his best efforts to preserve its celluloid magic. He’s persisted in spite of that fact, doing his thing on the fringes of a studio system that’s crumbling faster than his entire generation of name-brand auteurs can fortify it with new films, but his formal radicality was softened by an emergent preference for the way things were — even if only as a milieu. The past can be a mighty tempting refuge for those frustrated by their failure to change the world.

But revolution comes in many forms, and while Anderson’s new daddy-daughter epic implicitly concedes to the conservatism of getting older, this ~$150 million rallying cry is the work of an artist and a father who’s determined to convince himself that getting older doesn’t have to be the same thing as giving up. That keeping the fight alive is the next best thing to winning it. While the wacked out spirit of “One Battle After Another” might be transplanted from a 35-year-old Pynchon novel, it’s the unflinching nowness of this reinterpretation that allows it to take the long view of America’s forever war against itself, and to so brilliantly articulate — in the words of Gary Valentine — how liberating it can be to “stop using time as an excuse.”

Confronting the unchecked evil and bottomless humiliation of the Trump administration from its opening frames (though it wouldn’t make sense for Anderson’s script to mention the president by name), “One Battle After Another” begins at top speed and barrels forward so fast that you can barely even tell it’s moving in a perfect circle. The revolutionary group known as the French 75 are plotting to free a group of migrants who’ve been imprisoned at a California detention center near the Mexican border, and a newbie demolitions expert by the name of “Ghetto Pat” (Leonardo DiCaprio) is trying to prove his worth to the rest of the crew. The fireworks he rains down on the camp aren’t the only sparks he’ll trigger that night, as Pat’s handiwork catches the attention of French 75 spirit captain Perfidia Beverly Hills (an eruptive Teyana Taylor, steaming with revolutionary zeal), who literally tries to fuck him every time we see them together.

 

Perfidia is a natural survivor with a non-partisan power kink that can get the best of her if she isn’t careful, which is exactly what happens when — upon infiltrating the tent of detention camp leader Col. Steven J. Lockjaw (a career-best Sean Penn as a preening and steroidal Alfred E. Neuman, his natural humorlessness a perfect vehicle for comedy) — she orders the lip-licking army man to full attention before she lets him go. That decision incites a double-edged sexual infatuation that compels Lockjaw to follow the French 75 like Pepé Le Pew chasing the pheromone trail of a female cat.

Every bank they rob or anti-abortion senator’s office they blow up brings the colonel one step closer to blackmailing Perfidia into submission, and when he finally makes his move, the self-interested subversive doesn’t hesitate to save her own skin. Never mind that she and Pat just had a baby girl together, or that she’s condemning her fellow revolutionaries — including Regina Hall’s ultra-stoic Deandra, and a fantastically brash agitator played by her “Support the Girls” co-star Shayna “Junglepussy” McHayle — to almost certain death. Perfidia is convinced that she’s lost the fight of her life, and her resolve as both a radical and a mother is flicked off like a light switch.

When the story picks up a decade-and-a-half later, the bomb-maker formerly known as Ghetto Pat has been reborn as self-described “drugs and alcohol-lover” Bob Ferguson in the woodsy enclave of Baktan Cross, where he spends most of his time sitting at home in a bathrobe, blasting his brains out with bad pot, and impotently stewing over how to protect his teenage daughter Willa from a past that feels more like a paranoid delusion. No such luck: Col. Lockjaw, now aged into a cheek-sucking human turnip who walks like a machine gun has been rammed up his ass, is being considered for membership in an elite cabal of hyper-racist Santa-worshippers (did I mention this movie was inspired by the writing of Thomas Pynchon?), and he won’t rest until he’s eliminated anyone who knows that he once had sex with a Black woman. It isn’t long until the full weight of the army descends upon Baktan Cross under the guise of a more routine abuse of power, and Bob finds himself at risk of losing his kid.

The girl is played by magnetically self-possessed newcomer/instant movie star Chase Infiniti, whose performance inspires a strange kind of secondhand pride, and more than rewards the years that it took Anderson to find her (score a point for nominative determinism, as no one on Earth was so obviously born to star in a Pynchon movie). DiCaprio is somewhat less of a discovery (rare as it is to see him be a dad, as opposed to a character who just happens to have kids), but the guy works infrequently enough — and at such a staggeringly high level — that every time he reappears feels like its own revelation.

A manic and panicked stoner who scurries around this movie in an open bathrobe while slamming back fresh cans of Modelo like Gatorade, Bob may not be quite as far gone as the Pynchon character on which he’s based, but the “Vaseline of youth” has crusted over his bloodshot eyes in much the same way. It’s profoundly, consistently, and endearingly funny to watch him Forrest Gump his way through everything that follows Lockjaw’s arrival in Baktan Cross, from a glorified ICE raid to a “Vanishing Point”-inspired car chase. DiCaprio’s bloodshot performance further immortalizes the former heartthrob as modern cinema’s most gifted buffoon, but here — collaborating with Anderson for the first time, who lavishes the same love and attention on his extras as he does on his stars — the actor’s tetchy comic genius finds a new dimension through his character’s natural deference.

Bob is both at the center of the action and incidental to it all at once, like a peeling strip of wallpaper that blends perfectly into the background whenever it isn’t coming unglued. That dynamic proves essential to a breathless second act that places Bob — along with several undocumented Mexican families — in the care of Baktan Cross’ resident karate teacher and holy protector amidst a town-wide government standoff. A spectacular foil for DiCaprio’s perma-addled Bob, Benecio Del Toro’s cool-headed Sensei is also an instant addition to the pantheon of iconic PTA characters in his own right, and his zen approach to the threat posed by Lockjaw’s forces gradually emerges as the movie’s defiant ethos. “We’ve been laid siege for hundreds of years,” he says with a steady breath. “Ocean waves.”

Here, those waves eventually crest into a river of hills, as “One Battle After Another” peaks with a car chase across the blind humps of Highway 78 in Borrego Springs. Like everything else in Anderson’s film, the vehicular action is simple, spellbinding, and perfectly expressive of a story that always moves at 100mph even when its characters aren’t even able to see over the next ridge. (Michael Bauman’s vividly textured cinematography is a sight to behold throughout the movie, VistaVision or not, but the whole picture was lensed with large-format in mind, and one particular shot during this climactic sequence is so enveloping in true IMAX that it made me want to apologize on behalf of anyone who’s ever mocked the people who supposedly fled “The Arrival of a Train at La Ciotat Station.”)

That breakneck speed proves essential to a movie that skitters between slapstick delirium and grim reality even faster than Jonny Greenwood’s score, which carries the action forward with “Magnolia”-like relentlessness as its staccato piano scales — the notes running up and down the keys as if the music were looking for a way out — are subsumed into the crash of violins like raindrops getting swallowed by a tsunami. “One Battle After Another” might be among the sillier films that Anderson has ever made, but there’s no mistaking the sincerity of its horrors, or how lucidly it diagnoses the smallness of the men inflecting them upon the innocent and the vulnerable.

If, as Salman Rushdie once argued, “Vineland” is “a book about what America has been doing to its children,” then “One Battle After Another” might be described as a film about why people keep making them anyway, even as “the Repression goes on, growing wider and deeper regardless of the names in power” (to slightly paraphrase Pynchon). Bob and Willa only share one scene together before “another battle” comes between them, but it’s a splenetically funny little masterpiece of intergenerational disconnect, as the petrified father is too fogged up by the fear of losing his baby girl to appreciate how well she’s learned to compensate for his failures.

Bob is so entombed in his own past that he refuses to engage with his daughter’s present (he watches “The Battle of Algiers” on TV like it’s a throwback to the good old days), but as he scrambles across the back half of this movie in search of Willa, Anderson twists the erstwhile renegade into a living emblem for the eternal truth of all parenthood: Having kids is the most fearless thing a person can do in a world that grows more pernicious by the day, but raising them means being terrified every waking minute for the rest of your natural life.

As much about parenthood as “Phantom Thread” was about marriage, Anderson’s latest film is steeped in a fear that’s completely absent from the supreme confidence of its form (“I’ll tell you what freedom is: No fear. Tom fucking Cruise!”). It’s a peerlessly comforting reminder that even today’s most immortal artists — and/or yesterday’s most unintimidated revolutionaries — can be scared to death by the thought of their kids fighting the same battles as they once did. Battles that a Gen Xer like Anderson can’t help but look around and feel like they lost. One day you’re detonating C4 inside a government detention center and the next you’re sending your daughter to the school dance with a Cold War-era tracking device in her purse. “Time doesn’t exist,” someone says at a crucial moment, “yet it controls us anyway.”

Be that as it may, the sneaky but immense — and surprisingly upbeat — emotionality of “One Battle After Another” is rooted in the liberating resolve that Anderson mines from the terror of getting old. From the anger of growing conservative. From the guilt of not being able to break the cycle and bend a circular movie like this one into a straight line.

Bob accomplishes exactly nothing during the course of his frantic pursuit of Willa, but in failing to protect his daughter from the regrets of his past, he discovers that she’s the best of her parents, and more than capable of staring down the same demons that left him so paranoid. That she’s the answer to his fears, not the personification of them. That raising kids can be a revolution unto itself if you do it right — one that doesn’t need to be televised because it takes place right in the relative comfort of your own home. Time isn’t an excuse, this magnificent film suggests, it’s a war of attrition. And by joining his daughter in the present for the first time she was born, Bob might just come to understand that he’s always been on the winning side of it.

Indiewire.com By David Ehrlich September 17, 2025

 

mercoledì 10 settembre 2025

Un film fatto per Bene di Franco Maresco (2025)

Con Un film fatto per Bene il genio di Franco Maresco raggiunge le vette della sua riflessione su di sé, sul cinema, sulla Sicilia, sull’arte; il tutto attraverso le folli forme di un mockumentary wellesiano, dove l’indagine è sulla scomparsa – per niente metaforica – dell’autore, e tutto ruota attorno al concetto di depensamento. Giustamente in concorso a Venezia 2025, dov’è risultata la visione più sconvolgente.

Le riprese del film di Franco Maresco su Carmelo Bene vengono bruscamente interrotte dopo l’ennesimo incidente sul set. A staccare la spina è il produttore Andrea Occhipinti, esasperato dai ciak infiniti e dai ripetuti ritardi. Dal canto suo, il regista accusa la produzione di “filmicidio”, facendo poi perdere le sue tracce. A cercare di ricucire lo strappo è un amico di Maresco, Umberto Cantone, che chiama a testimoni tutti coloro che hanno partecipato all’impresa, in un’indagine che è l’occasione per ripercorrere la personalità e le idee dell’autore più corrosivo e apocalittico del cinema italiano. E se intanto, lontano da tutto e da tutti, Maresco stesse ultimando il suo film, diventato “il solo modo per dare forma alla rabbia e all’orrore che provo per questo mondo di merda”? [sinossi]

Con Un film fatto per Bene Franco Maresco torna per la seconda volta in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, a sei anni dalla presentazione di La mafia non è più quella di una volta, dove ottenne il Premio speciale della giuria sorprendendo quella parte di critica – tutt’altro che minoritaria – che lo reputava un film “incomprensibile” agli occhi di una giuria internazionale. Il medesimo aggettivo, incomprensibile, lo si è sentito serpeggiare al termine delle due proiezioni stampa di Un film fatto per Bene, e che di fatto chiudevano la competizione dell’ottantaduesima edizione della Mostra. In effetti un’opera come quella di Maresco con fin troppa facilità può essere considerata tale, lavoro ostico e criptico inaccessibile ai più, anche perché in questo caso il regista palermitano ha inserito nel film una sorta di passaggio in rassegna della sua intera carriera, fin dai tempi di Tvm, la rete televisiva del capoluogo siciliano in cui Maresco, insieme a Daniele Ciprì e Umberto Cantone, mosse i primi passi che li avrebbero poi trasportati addirittura sulla televisione nazionale, a Rai3, all’epoca dell’immortale e indimenticabile Cinico Tv. L’impressione però è che non sia tanto la natura a tratti quasi autobiografica del racconto a tenere a debita distanza una parte del mondo critico e forse anche la giuria – laddove Un film fatto per Bene è, per pensiero e qualità, alcune spanne al di sopra della restante parte del concorso veneziano allestito per il 2025 –, bensì quel che prende corpo in scena fin da subito, assumendo i contorni dell’indagine, del pedinamento, del disvelamento di un mistero con cui non si riesce a scendere a patti. Un mistero tripartito, o forse anche sminuzzabile in ulteriori suddivisioni. C’è la ricerca alla base dell’ipotetico film che Maresco avrebbe voluto realizzare, e che parla dell’incontro in terra siciliana tra Santa Rosalia e San Giuseppe Desa, vale a dire Giuseppe da Copertino, il frate minore che “sapeva volare”; c’è la ricerca del punto di contatto tra il viaggio del santo in Trinacria e l’incontro nella Palermo degli anni Sessanta tra un maestro elementare, massimo esperto del fraticello levitante, e nientedimeno che Carmelo Bene; c’è infine e innanzitutto l’indagine alla base della narrazione: che fine ha fatto Franco Maresco, di cui si sono oramai da mesi perse le tracce?

Il concetto di falsa investigazione, dalla matrice dichiaratamente wellesiana, è uno degli elementi portanti della poetica espressiva di Maresco, come testimoniano tra gli altri Il ritorno di Cagliostro e Belluscone – Una storia siciliana, dove l’amico di una vita Tatti Sanguineti doveva recarsi a Palermo per tentare disperatamente di chiudere il film “abbandonato” da Maresco nel bel mezzo delle riprese. Se a sua volta l’idea di non finito e non terminabile è un cascame che viene direttamente dal genio di Orson Welles, anche qui come in Belluscone Maresco si affida a un narratore terzo, cui viene richiesto di lanciarsi nella detection riguardo la “fine” del regista e i motivi che hanno portato all’interruzione del set. Il gioco rispetto al bellissimo film del 2014 è però ancora più intricato, perché se Sanguineti era un elemento esterno alla vita lavorativa di Maresco qui a vestirsi dei panni dell’investigatore è Umberto Cantone, che fa parte della squadra di sceneggiatura del cineasta. Il discorso meta-cinematografico si fa ancora più estremo, lambendo i confini del sublime, e Un film fatto per Bene si tramuta in viaggio in estroversione sull’introspezione di un oggetto umano inscalfibile. Nessuno in realtà comprende Maresco, neanche i suoi produttori Andrea Occhipinti (che, viene detto, suggerirebbe al regista di trovarsi uno psichiatra invece di un produttore) e Marco Alessi, che ancora non si capacita di come sia stato possibile perdersi in infiniti ciak su una sequenza che neanche era presente in sceneggiatura, e che vede san Giuseppe ballare a mo’ di pellerossa attorno a un fuoco accompagnato da un Pulcinella nano. Non si tratta dell’impossibilità di comprendere l’artista, deviazione che aprirebbe il fianco a una deriva narcisistica, ma della fioritura fuori dal tempo dell’estetica e dell’etica marescana, che ha comunque smesso da anni di credere nel cinema come riparatore dei torti all’interno di un sistema-mondo che è (testualmente) “una merda”. Dopotutto come credere nel cinema quando oggidì a nessuno viene negato il diritto di girare un film? Tale chiosa sardonica Maresco la riserva a sé, alla sua voce, mentre la macchina da presa compie una panoramica laterale su loculi per la tumulazione, a sottolineare la natura mortuaria di un’arte che si è tramutata in mero esercizio economico/industriale, senza più la capacità di ergersi contro la marea montante.

Ecco dunque che Un film fatto per Bene certifica di aver compreso fino in fondo il teatro post-artaudiano di Bene, e si pone come atto di resistenza dell’immagine contro un immateriale sempre più vacuo, ectoplasmatico, deturpante. Non è certo casuale che Maresco oltre a muoversi su/per/attorno a Carmelo Bene, citi in scena Franco Scaldati – riproponendo il lacerto di un dialogo illuminante e straziato –, assuma un altro residuo della controcultura degli anni Novanta come Antonio Rezza per replicare/negare/reinterpretare la sequenza celeberrima della disfida a scacchi tra la Morte e il protagonista di bergmaniana memoria, e si contorni di quel microcosmo palermitano che non è (come troppo stesso ipotizzato) la sua personale corte dei miracoli bensì l’enucleazione in atto umano di un concetto, di un’idea, dell’ideologia di non appartenenza a un mondo che non va sfiorato, ma rigettato con forza. In questo senso il racconto si fa eloquente, con la magniloquenza dell’en plein air che si riduce dapprima a un teatro di posa e poi perfino a uno spazietto miserrimo e angusto nella sede della succitata Tvm: un ritorno a casa che non è un ripiegarsi, ma un riscoprirsi eternamente controcorrente. Così controcorrente che nemmanco una confessione può provare a fare il miracolo – che dopotutto parrebbe non esistere, l’imbracatura del santo in levitazione si rompe e il povero Bernardo crolla al suolo da un’altezza considerevole: eppure, il finale… – di ricondurre Maresco su un’ipotetica “retta via”. Di un’intelligenza sconfinata, Un film fatto per Bene è un’istantanea tragica sull’Italia culturizzata, ma anche un film comico che trascina alle lacrime per quanto si può ridere di fronte a sequenze indimenticabili, tra le quali appare impossibile non citare il lungo passaggio che vede in scena come vittima/complice del regista/carnefice Francesco Puma, alle prese con un problema gastrointestinale e interprete perfetto nel racchiudere in sé l’incrocio all’apparenza impossibile tra patetico, sublime, artistico, scatologico e comico. Franco Maresco volteggia a levature troppo alte probabilmente per l’asfittico panorama nazionale, ma la sua testimonianza di coerenza è così radicale e ghignante da trascinar via con sé l’intero palinsesto di Venezia 2025.

Pubblicato su quinlan.it  05/09/2025, di Raffaele Meale

 

 

In una delle sequenze più emblematiche di Un film fatto per Bene, la Morte (interpretata da Antonio Rezza) e San Giuseppe da Copertino (al “santo volante” Carmelo Bene aveva dedicato una sceneggiatura mai realizzata, poi pubblicata in forma di libro con il titolo A boccaperta) giocano la loro bergmaniana partita a scacchi. Ma il frate non fa mai la prima mossa, quindi la Morte resta lì ad aspettare, annoiata. Lo stallo sembra perenne e immutabile: “ma lo sai come si gioca a scacchi, Peppino?”, sbotta Rezza ad un certo punto. Ecco, la domanda fondamentale – anche stavolta, come in tutto il cinema di Maresco – rimane questa: dove siamo noi in questa partita? Da quale parte della scacchiera? La posizione di Franco Maresco, quella è nota da tempo, e il regista ci tiene a ribadirla più volte anche in questa occasione (con stoccate contro il cinema italiano, le produzioni, Gigi Marzullo, e così via), mai così tanto “in campo” come in questo nuovo film, presente sulla scena come corpo (per restare in territorio sacro, potremmo dire come icona) e non solo come voce incalzante, nonostante i mille tentativi per sparire, messi in atto come in Belluscone, di  far perdere le tracce, addirittura rinchiudersi in un monastero come un Majorana sciasciano.

Ed è proprio nella chiesa del convento che Maresco va a confessarsi, in una sequenza straordinaria in cui vediamo il volto del cineasta incorniciato dentro la grata del confessionale, ma dal punto di vista del confessore, con il profilo del regista frammentato in mille schegge dal reticolo della finestrella. Ancora: da quale parte della finestra ci troviamo?

Di sicuro questo nuovo lavoro del regista è il suo ennesimo calvario, un sabotaggio innanzitutto “politico” (dilatare le riprese e di conseguenza i costi delle sezioni in pellicola, mandare alle ortiche la sceneggiatura…) e allo stesso tempo mostra un’ossessione per il sacro che così spiccata non rilevavamo forse davvero dai tempi di Totò che visse due volte (la cui vicenda viene nuovamente rievocata in una sezione in cui il sodale di sempre Umberto Cantone racconta tutta la parabola artistica di Maresco, arricchita da frammenti inediti di dietro le quinte dell’epoca Cinico Tv davvero strepitosi): le sequenze pasoliniane del fantomatico film (nell’abituale bianco e nero) sul santo salentino e su Carmelo Bene, le gag ritornanti sulla religiosità esasperata del tassista di fiducia di Maresco, la “folgorazione” avvenuta dopo aver sentito la voce di Bene balenare nel buio…

Quando il regista dichiara “io sono il Carmelo Bene del 21esimo secolo” sta chiaramente facendo ricorso al suo gusto per il nonsense, ma allo stesso tempo esplicita una vicinanza con il pensiero dell’attore (più volte Bene aveva espresso pubblicamente il suo apprezzamento per Cinico Tv e per l’opera di Ciprì e Maresco) e alla sua visione tragica del cinema e dell’arte (questo non evita che Maresco si prenda gioco della macchietta beniana ingaggiando un attore che ne parodizza espressioni facciali e modo di esprimersi…): e così gli sketch e gli istanti più apertamente grotteschi e scatologici si fanno inevitabilmente funerei, raggelanti, terminali (che tutto il cinema di Maresco si origini dalla sequenza della pantagruelica mangiata dei frati in Nostra Signora dei Turchi?). Giri a vuoto (non più o meno di tre, mi raccomando) lungo una rotatoria che manda solo indietro.

“Bisogna rinnegare quello che si è fatto finora, e farlo magari con i film”, aveva detto d’altronde una volta proprio Carmelo Bene ad Adriano Aprà. “Tanto riusciremo tutti a fare i nostri film prima o poi, sapete com’è, e i film sputtaneranno quello che abbiamo scritto e viceversa. Sullo schermo c’è ancora modo di sputtanarsi”. Ecco, lo sputtanamento di Un film fatto per Bene non sta tanto nella sua anima mockumentary con Andrea Occhipinti sempre più esausto perché la lavorazione ha preso una piega delirante, quanto nello sguardo di Franco Maresco, che per la prima volta ci guarda in camera in un lungo primo piano abissale, e nella decisione di mostrare la propria disperazione solitaria, il gioco con le “follie” del suo disturbo ossessivo-compulsivo messo in piazza, le camere d’albergo con le mura riempite di file di numeri scritti a pennarello sulle piastrelle – come la cella di un pazzo, o forse quella di un santo in preda alle crisi mistiche. Un film fatto per Bene rivela così la sua struttura perfettamente inscritta nelle agiografie delle “vite dei santi”, in questo quasi vicina (ancora una volta) all’ultimo Abel Ferrara.

E allora, nell’ascensione finale – il più bel drone della storia del cinema italiano – finalmente Franco Maresco raggiunge il grado assoluto di tutta la sua ricerca, diventa una volta per tutte pura voce che si libra sulle nostre teste, un’entità che sorvola senza posa ora e per sempre la sua Palermo e che pure mentre fluttua tra le nuvole non riesce a resistere ad imbastire l’ennesimo scambio di battute sgrammaticato, l’ennesimo vuoto di senso tra le sue domande e l’interlocutore appartenente a quell’umanità terminale che lui tanto ama, la sonda Voyager che conserva nello spazio i segni di almeno un tormentone mareschiano, di almeno uno dei dialoghi tratti da Franco Scaldati, frequenze-radio come quelle captate dal santo, che restituiscono la lingua di una civiltà estinta.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it , 5 Settembre 2025 di Sergio Sozzo

giovedì 24 luglio 2025

Presence di Steven Soderbergh (2024)

"Presence" di Steven Soderbergh è un film che gioca con le convenzioni del genere e si immerge in un gioco metacinematografico che, se visto dal punto di vista di un fantasma, prende una forma ancor più affascinante e profonda.

Il film è un’esplorazione della paura, ma non solo quella convenzionale. Soderbergh riesce a incarnare il timore come un'entità viva, un fantasma che si agita non solo negli spazi vuoti della pellicola, ma anche nelle menti dei suoi protagonisti. Se il pubblico si avvicina al film con la consapevolezza che ogni inquadratura è un’apparizione, allora la realtà stessa si dissolve, lasciando posto a un flusso continuo di immagini spettrali.

Dal punto di vista del fantasma, "Presence" è una riflessione sulle inquietudini esistenziali, su come l’invisibilità e l'irrealtà possano essere percepite come una condanna o una liberazione. Soderbergh gioca con la sua regia come se fosse un'entità a metà tra visibile e invisibile, un po' come il fantasma stesso: sempre presente, ma mai completamente svelato. La sua manipolazione del tempo, dello spazio e del montaggio non è solo un'arte registica, ma una strategia narrativa per fare in modo che il pubblico si senta intrappolato in un incubo che non finisce mai.

Il metacinema in "Presence" diventa il metaspettro delle nostre paure: l’idea che le paure siano, in realtà, qualcosa di costruito. Ogni scena sembra un palcoscenico su cui si recita una parte, un po’ come se il film fosse una performance dove ogni azione ha il suo doppio significato. Il fantasma diventa consapevole non solo della sua esistenza, ma della costruzione che la pellicola impone sulla sua forma, facendoci riflettere sull’artificio stesso della paura, come una trama che non si distingue mai del tutto dalla realtà.

In questo senso, il film è un'intensa riflessione sulla condizione umana: il fantasma diventa, come chi guarda, una presenza che non può mai fuggire dal cinema stesso, un'entità che vaga tra la pellicola e la realtà. Ogni paura in "Presence" non è solo una reazione, ma un artefatto che nasce da un altro livello di consapevolezza.

Soderbergh riesce a trasformare la paura in qualcosa di meta-narrativo, sfumando il confine tra realtà e finzione. Guardando il film dal punto di vista di un fantasma, tutto appare come una metafora della nostra costante ricerca di un senso, qualcosa che si muove fuori dal nostro controllo, ma che allo stesso tempo è inevitabilmente legato a noi. "Presence" non è solo un film da guardare, ma un’esperienza da vivere come se fosse già una proiezione della nostra mente, un’ombra che resta dopo l’ultimo fotogramma.

GPT

martedì 22 aprile 2025

I Peccatori di Ryan Coogler (2025)

 

Opera totale, che discioglie in un unico flusso dramedy d’epoca, musical e horror, I peccatori di Ryan Coogler segna il ritorno del regista a un cinema più personale, in cui sembrano amalgamarsi le sue esperienze più recenti nel mainstream americano con un disegno autoriale e politico. Film che ragiona su cultura black e industria, su libertà e omologazione, conservando un robusto impianto di entertainment intelligente e critico. Michael B. Jordan protagonista in un doppio ruolo.

Primi anni Trenta, Delta del Mississippi. I gemelli neri Smoke e Stack ritornano nella propria città d’origine dopo essersi arricchiti a Chicago tramite esperienze nella malavita. I due sono intenzionati ad aprire un juke joint, locale adibito a liberatori intrattenimenti di musica e danze per una clientela esclusivamente nera. Smoke e Stack assoldano i migliori musicisti black della zona, fra i quali il giovane cugino Sammie, prodigio della chitarra. Nella zona però si aggirano strani esseri assetati di carne umana, che la sera dell’inaugurazione del locale si presentano minacciosi alla porta. [sinossi]

Diciamolo subito. Le metafore e allegorie di I peccatori, quinta regia in lungometraggio per il non prolificissimo Ryan Coogler, non sono esattamente inedite. Vi è una nuova scia creativa di black cinema USA che nell’ultimo decennio è impegnata a riflettere sulla storia degli afroamericani contaminando, spesso con esiti più che positivi, riflessioni d’autore e cinema di consumo. In tale direzione Jordan Peele ci ha dato opere molto apprezzabili. Dopo un ottimo esordio (Prossima fermata Fruitvale Station, 2013) Ryan Coogler si è fatto tentare volentieri dal cinema mainstream, prima con Creed (2015), poi con il dittico Marvel di Black Panther (2018 e 2022). A ben vedere, pure la riproposizione della saga di Rocky Balboa, con spostamento del focus sull’universo black del nuovo protagonista Adonis Creed, assume intenzioni più autoriali di quanto poi effettivamente realizzato. Al di là del Mito tutto americano del self-made-man riletto dal basso del proletario Rocky, la saga ideata da Sylvester Stallone è anche piantata fino al tallone in un universo indubitabilmente bianco – dove peraltro, almeno nei primi capitoli, il black Apollo Creed impersonato da Carl Weathers assume i tratti di antagonista ribaldo, arrogante e antipatico. Con Creed invece Ryan Coogler rovescia la prospettiva, inserendo in una consueta struttura di quest americana il trionfo sociale, grazie allo sport, di un giovane black dall’infanzia complicata. La rilettura operata da Coogler è robustamente industriale e commerciale, ma anche frutto di una cosciente riflessione e di una sotterranea provocazione.

Corpo cinematografico, in senso proprio e figurato, della filmografia di Coogler è Michael B. Jordan, attore dagli esiti altalenanti che tuttavia, nelle sue collaborazioni con l’amico regista, enfatizza fino allo spasimo l’accento sulla propria fisicità. Il corpo black c’è, si impone in tutta la sua evidenza. È anche un’implicita rivendicazione di esistenza.Alle ultime battute di I peccatori il gioco si fa pure platealmente autoreferenziale. Nell’abbattimento del tempo e dello spazio innescato dalla musica indiavolata protagonista del film, ci vuole un attimo a dismettere i panni dei due gemelli Smoke e Stack, azzimati black anni Trenta socialmente emancipati a suon di denaro non pulitissimo, e a trasformarsi in un eroe action che sembra provenire direttamente dal cinema anni Ottanta – e non mancano richiami al cinema di Romero, Carpenter e Dante, compreso il rudimentale aspetto visivo dei mostri che si palesano lungo il racconto. I peccatori sceglie infatti, prima di tutto, la via della contaminazione. È dramma d’epoca, musical e horror, saldamente intrecciati in una sceneggiatura di solida e intelligente costruzione. E quantomeno dimostra – vivaddio – che nel sempre più omologato cinema mainstream americano c’è ancora qualcuno che prima di ogni altra cosa si preoccupa ancora di scrivere bene. Dopo varie esperienze con prodotti convenzionali Ryan Coogler sembra compiere una sorta di ritorno a se stesso, innestando in una consueta macchina produttiva hollywoodiana un progetto filmico decisamente personale. I peccatori ha tutto l’aspetto di un film sentito, intimo, che si fa forte dei ricchi strumenti dello spettacolo americano resi funzione di un disegno autoriale. Il film di Coogler è meno algido ed estetizzante rispetto alle opere di Jordan Peele, ma lavora molto più sulla parola, mostrando una cura particolare nel ricamo dei dialoghi e dei personaggi. È vero, come qualcuno ha detto, che spesso è arduo distinguere i due gemelli Smoke e Stack, non fosse che per gli eleganti abiti rispettivamente indossati e caratterizzati da differenti dettagli cromatici. Michael B. Jordan li incarna quasi allo stesso modo, uno e bino, ma alla resa dei conti non è importante.

Chi sono i peccatori? Sono i musicisti black dell’America anni Trenta, che secondo antiche credenze, direttamente filiate dalle ancestrali discendenze africane, possono infrangere tramite le infuocate tonalità del blues gli steccati fra vita e morte, fra aldilà e aldiquà, fra passato e presente. La forza esoterica della musica, del resto, non attiene soltanto all’ambito africano. Da sempre, fin dagli antichi greci, musica e danza fanno parte integrante del rito e del dialogo con il sovrannaturale. I peccatori prende le mosse alla lontana dalla vicenda di Robert Johnson, figura fondamentale del delta blues anni Trenta, morto in circostanze misteriose a soli ventisette anni, che, come leggenda narra, vendette l’anima al diavolo in cambio di prodigiose capacità musicali. Johnson è adombrato nella figura di Sammie, giovane coprotagonista del film, assoldato dai gemelli Smoke e Stack, insieme ad altri musicisti black, per inaugurare un juke joint, luogo di libera e scatenata festosità esclusivamente riservata a clientela di colore. Una sorta di zona franca all black, dove poter dare sfogo a orgiastiche sarabande in implicita reazione alla quotidiana oppressione bianca operata su masse di lavoratori neri ed emarginati. Per una buona metà I peccatori ha tutto l’aspetto di un consueto dramedy d’epoca, in cui gli scaltri gemelli Smoke e Stack sono riusciti ad arricchirsi ed emanciparsi soltanto tramite esperienze malavitose nella Chicago anni Venti di Al Capone. Coogler sceglie i tempi lunghi di introduzione al racconto, attardandosi distesamente nei rapporti di forza fra i numerosi personaggi e dando vita in tal senso a una crescente suspense in attesa dell’esplosione dell’horror. Ma chi saranno i portatori di horror? Strani vampiri bianchi, in parte apparentati con il Ku Klux Klan, contaminanti e affamati di carne umana. Come si sa, il morso di vampiro assimila la vittima allo stesso destino di non-morto. Il morso di vampiro è contagioso. La musica indiavolata del juke joint ha rotto gli argini fra vita e morte, fra aldilà e aldiquà. I vampiri si presentano alla porta e attendono di essere invitati a entrare. È il primo passo verso l’assimilazione. Piegando a intenti fortemente politici sia la ricchezza mainstream del cinema americano sia le risorse spettacolari del cinema di genere, Coogler sembra voler riflettere sull’operazione di assimilazione culturale e artistica che l’universo black ha subito nell’ultimo secolo di storia, vittima di intensa vampirizzazione da parte dell’industria bianca che ne ha anche neutralizzato l’enorme potenziale di disgregante provocazione. Al di là delle regole di genere, i vampiri devono essere invitati a entrare, scenario che evoca una sorta di errore primario nella comunità black ad aver permesso l’invasione bianca nel loro mondo espressivo.

Dal canto loro, i vampiri bianchi alla porta tracimano di invidia e desiderio di possesso. Nulla deve sfuggire al loro controllo, nemmeno gli sparuti territori di libertà garantiti da un juke joint, che peraltro assumono tutti i tratti di una finta libertà strettamente condizionata a una desolante autoghettizzazione. L’integrazione è una truffa, pare voglia dire I peccatori fra le righe. L’integrazione è l’anticamera di una nuova forma di prigionia, che sostituisce le catene alle caviglie con la neutralizzazione di un’intera cultura. A un certo punto, nella guerra fra musiche contrapposte, Coogler non disdegna nemmeno note grottesche – i balletti di matrice irlandese sono a tratti esilaranti. E certo, a metà del racconto si apre con impeto maestoso l’ariosa sequenza, già ampiamente celebrata, in cui la musica rompe qualsiasi confine spazio-temporale – in un piano sequenza sostenuto dal digitale ballano e suonano insieme le epoche più disparate. La potenza sovrannaturale della musica squarcia pure i confini temporali degli stili cinematografici. Cosicché, alle ultime battute della feroce battaglia con i vampiri, Michael B. Jordan abbandona rapidamente i panni dei gemelli anni Trenta per trasformarsi in eroe action anni Ottanta, canottiera e armi in spalla. Un ulteriore gioco, di fatto, con le retoriche di un cinema industriale che ha imposto precise convenzioni anche ad attori black impegnati sui set d’azione. Assimilati in tutto, pure nella possente fisicità di eroi alla Schwarzenegger. Del resto, si è peccatori rispetto alla cultura bianca del cristianesimo, calata dall’alto sulla popolazione di colore e a sua volta assimilata come incarnazione dell’ideologia dominante. La musica blues è sacrilega, è rottura viscerale e ancestrale, letteralmente indiavolata.In tempi come quelli attuali, segnati dal secondo mandato di Donald Trump alla presidenza americana, I peccatori si delinea quindi per una vibrante risposta alle neo-retoriche suprematiste che negli ultimi anni hanno trovato una via allo sdoganamento tramite un più o meno velato processo di istituzionalizzazione.

Con il fondamentale contributo della colonna musicale di Ludwig Göransson (un vero e proprio connubio espressivo fra cinema e musica), Coogler riflette in sostanza su società e industria. Nella progressiva integrazione sociale degli afroamericani è avvenuto anche, pare voglia dire I peccatori, un graduale processo di cooptazione e addomesticamento della loro cultura, affascinata dal miraggio di una maggiore visibilità e accettabilità a spese della propria carica dirompente. Fra le righe Ryan Coogler sembra parlare anche di se stesso, autore dagli esordi improntati a una solida sensibilità sociale (Prossima fermata Fruitvale Station) e in seguito ammaliato da esperienze mainstream fino alle incursioni nell’universo Marvel. Una sincera messa in discussione del proprio vissuto cinematografico, interpretato come ulteriore compromesso con un sistema produttivo che non lascia molte vie di scampo. Nella mirabile sequenza finale, posizionata infra-titoli di coda, Michael B. Jordan ritorna in scena con un ennesimo camuffamento mainstream, con capigliatura e abbigliamento modaiolo da black inizio anni Novanta, altro costume di scena scaturito da un compromesso con l’industria addomesticante dell’epoca. Per una sera siamo stati liberi. Una sola serata, in una vicenda umana di secoli, in cui ha brillato un barlume di vera autodeterminazione culturale.

Pubblicato su quinlan.it, 21/04/2025 by Massimiliano Schiavoni 

Di chitarre, vampiri e armonie blues. Gli strumenti qui, così come i brani, mutano improvvisamente in veri e propri portali, permettendo ai vivi di danzare coi morti e viceversa, fino a rompere irrimediabilmente regole ed equilibri di un nuovo (e vecchio) mondo, mai così accecato dalla violenza e dall’impossibilità del perdono. L’America degli anni ’30 de I peccatori, quinto lungometraggio da regista del Ryan Coogler di Creed – Nato per combattere e The Black Phanter, non è altro che un limbo. Una terra sospesa che appartiene a tutti e nessuno, nella quale ancora vige la legge del più forte e il debole, o presunto tale cerca rifugio dove può. Chi nel lavoro, chi nella famiglia e chi, come il giovane Sammie nella musica.

Cos’è però che determina la forza? Il passato, il presente oppure il futuro? Quello che è certo, è che la forza qui non appare incontrastata; al contrario, è messa alla prova dalle conseguenze estremamente scomode e dolorose della perdita, dell’abbandono e del ritorno. Tanto alle terre che un tempo sono state “casa”, quanto ai ricordi che ancora pulsano sotto pelle, nel sangue, tenuti a bada da ferite ormai rimarginate e cicatrici dure a svanire. Per i gemelli Smoke e Stack – Michael B. Jordan alle prese con un doppio ruolo di indubbia intensità e fisicità – crescere in Mississippi è stato un vero calvario, tanto da costringerli alla fuga.

Sappiamo poco del loro passato. Immerso in una nube di polvere che nessuno mai potrà diradare. Figlia dell’America dell’odio, incapace di tollerare e sempre più sedotta dal sangue e dalla rabbia. Eppure qualcuno può ancora farsi carico dello svelamento, cioè chi è rimasto. Gli abitanti di Clarksdale infatti non mentono, portando con sé i segni del tempo e di tutto ciò che è stato, quando chi ha potuto è fuggito, convincendosi ingenuamente di seppellire il passato, che inevitabilmente torna. Torna sempre.

Di chitarre, vampiri e armonie blues. Gli strumenti qui, così come i brani, mutano improvvisamente in veri e propri portali, permettendo ai vivi di danzare coi morti e viceversa, fino a rompere irrimediabilmente regole ed equilibri di un nuovo (e vecchio) mondo, mai così accecato dalla violenza e dall’impossibilità del perdono. L’America degli anni ’30 de I peccatori, quinto lungometraggio da regista del Ryan Coogler di Creed – Nato per combattere e The Black Phanter, non è altro che un limbo. Una terra sospesa che appartiene a tutti e nessuno, nella quale ancora vige la legge del più forte e il debole, o presunto tale cerca rifugio dove può. Chi nel lavoro, chi nella famiglia e chi, come il giovane Sammie nella musica.

Cos’è però che determina la forza? Il passato, il presente oppure il futuro? Quello che è certo, è che la forza qui non appare incontrastata; al contrario, è messa alla prova dalle conseguenze estremamente scomode e dolorose della perdita, dell’abbandono e del ritorno. Tanto alle terre che un tempo sono state “casa”, quanto ai ricordi che ancora pulsano sotto pelle, nel sangue, tenuti a bada da ferite ormai rimarginate e cicatrici dure a svanire. Per i gemelli Smoke e Stack – Michael B. Jordan alle prese con un doppio ruolo di indubbia intensità e fisicità – crescere in Mississippi è stato un vero calvario, tanto da costringerli alla fuga.

Sappiamo poco del loro passato. Immerso in una nube di polvere che nessuno mai potrà diradare. Figlia dell’America dell’odio, incapace di tollerare e sempre più sedotta dal sangue e dalla rabbia. Eppure qualcuno può ancora farsi carico dello svelamento, cioè chi è rimasto. Gli abitanti di Clarksdale infatti non mentono, portando con sé i segni del tempo e di tutto ciò che è stato, quando chi ha potuto è fuggito, convincendosi ingenuamente di seppellire il passato, che inevitabilmente torna. Torna sempre.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 17 Aprile 2025 di Eugenio Grenna


giovedì 6 febbraio 2025

The Brutalist di Brady Corbet (2024)

Come Faust di Sokurov o The Tree of Life di Malick, ci sono film che hanno un effetto dirompente all’interno di un concorso, anche quando si tratta di Venezia o Cannes. Opere-mondo che colmano di senso lo schermo, la sala, la visione. Tra queste, non numerosissime, ci sembra di poter annoverare senza troppi ripensamenti anche la terza fragorosa regia di Brady Corbet, The Brutalist, pellicola dalla grandeur straripante, fuori tempo e fuori norma. Girato in VistaVision (70 mm un po’ indigesti per le sale veneziane, in costante fuori fuoco), il film rispecchia perfettamente l’ambizione che già traspariva nei due precedenti lavori, L’infanzia di un capo e Vox Lux, qui portata alle estreme conseguenze estetiche e narrative. Una poetica brutalista quella di Corbet, capace di erigere strutture portentose e poi, improvvisamente, di andare dritto al punto con vertiginosi detour. Un film wellesiano, wagneriano, una riflessione sull’arte (anche la propria), sull’ambizione, sul potere e le sue degenerazioni. Una chiusura, forse una pietra tombale, sul Secolo breve de L’infanzia di un capo, sull’Età della catastrofe.

Di luci improvvise e di atmosfere cupe è fatto The Brutalist, fin dall’incipit stordente, con l’arrivo nella Terra dell’abbondanza, l’unica meta possibile prima della Terra promessa, quella Israele che era ai primissimi vagiti e che tornerà inevitabilmente nella storia, nella Storia. Ma la sequenza d’apertura è tutta a stelle e strisce, con quella Statua della Libertà vista da una prospettiva insolita, storta, rovesciata, eppure ancor più reale, esaltante, simbolo (in buona parte ingannevole) di quel che sarà e soprattutto di quello che ci si è lasciati alle spalle. Il prologo martellante di una narrazione espansa, incurante delle logiche distributive e della resistenza spettatoriale, con prologo, atti pantagruelici e infine un epilogo. L’ouverture di una gesamtkunstwerk, di un’opera d’arte totale, totalizzante, che mette in mostra sfrontatamente tutta la sua grandeur, sostenendola in ogni modo, dalla maiuscola performance di Adrien Brody alla spigolosa colonna sonora di Daniel Blumberg (che sostituisce Scott Walker, scomparso nel 2019, giustamente ricordato e omaggiato da Corbet).

La durata espansa di The Brutalist è indissolubilmente legata alla sua natura, all’idea di cinema di Corbet, a questa rispecchiante ricerca e messa in scena della grandiosità, espressa in tutte le direzioni artistiche possibili. La libreria costruita per Van Buren, il successivo grande progetto apparentemente interminabile, la cava dei marmi di Carrara: tutto è smisurato ma mai superfluo, segnato da una necessità che è anche – si chiarirà alla fine – personale, politica, storica. Il peso dell’architettura di László Tóth, la sua portata, è una questione intima quanto collettiva, personale quanto storica: nell’erigere questo gigante di acciaio e cemento armato (che è poi uno dei grimaldelli più subdoli del Capitale), Tóth sacrifica se stesso, il suo rapporto con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e i pochi amici, per lasciare un segno indelebile e gigantesco sul suolo statunitense. Un controcampo di quella Statua della Libertà così ingannevole, simbolo di quel sogno americano che ha ridotto in cenere le speranze di molti – resta sullo sfondo, invece, la questione dell’altra terra promessa, l’Israele della nipote Szofia: in tal senso, The Brutalist sprigiona un lucido antiamericanismo, lasciando fuori fuoco Sion e dintorni.

Il film di Corbet toglie la maschera al capitalismo yankee, al suo malcelato senso di onnipotenza, a quella barbarie che denaro e potere non possono cancellare. L’incontro-scontro tra Tóth e il magnate Van Buren, col suo mecenatismo di facciata, ostentato e volgare, si nutre di quella stessa autoanalisi che alimentava un’altra pellicola smisurata e per molti versi affine: Il petroliere. E c’è infatti, nella smisuratezza del cinema di Corbet, un’ambizione non distante da quella di Paul Thomas Anderson e di altri – non molti – registi in grado di dialogare con la grandezza del cinema classico e con le follie produttive degli anni Settanta. Pensa in grande Corbet, come Tóth, ma a differenza di autori mainstream come Nolan, destinati a scalare il box office, l’ex-attore (è fermo dal 2014) sembra muoversi come un Cimino già consapevole del disastro, di un gigantismo che servirà solo a se stesso e al Cinema. Alla purezza e alla follia del Cinema. Come sostiene lo stesso Corbet, The Brutalist è un «film impossibile». È un Megalopolis focalizzato sul passato.

Salvo improbabili sorprese, The Brutalist non solo mette in scena il punto di scontro, l’incompatibilità, tra cultura\arte e Capitale, ma ne è simbolo e al tempo stesso consapevolmente vittima, agnello sacrificale. Un film, come del resto Corbet, che non appartiene a Hollywood, a quella forma di gigantismo spesso superficiale, ma che guarda piuttosto a forme di immortalità artistica, a prescindere dal pubblico, dal consenso. Non a caso, la vera terra promessa nell’epilogo diventa la Biennale di Venezia – ma siamo negli anni Ottanta, ben prima della conta delle nomination, delle statuette e delle strizzate d’occhio alle piattaforme. L’enigma dell’arrivo (1947-1952) e Il solido nucleo di bellezza (1953-1960) tracciano la genesi di una cattedrale nel deserto, di un’opera che difficilmente può essere compresa; un’opera creata da uno sguardo altro, superiore, generata da una creatività martoriata, stuprata, discesa tra gli abissi, resa folle, ossessiva eppure fertile. Un finto biopic che racchiude idealmente un’infinità di storie. E alla fine, passata la tempesta, superato l’orrore, persino l’Olocausto, restano quantomeno le opere, il simbolo di una rivincita sul Male, sul Potere, sul Capitale.

Pubblicato su quinlan.it 05/09/2024, di Enrico Azzano

 

Se c’erano ancora dubbi sulla smodata dose di talento, arroganza, ambizione dell’americano Brady Corbet, The Brutalist serve proprio a stagliarsi davanti ai nostri occhi senza mezze misure, in 70mm Vistavision, imponente e levigato come un tempio. Al suo terzo film da regista, l’autore di Vox Lux triplica le dimensioni e la magniloquenza, firmando un’opera – nel vero senso della parola – strutturata in tre lunghi atti più un’ouverture e un epilogo, per la durata complessiva di 3 ore e 30’. (E c’è anche un intervallo di 15 minuti, che ci rimanda alle visioni in sala di un altro tempo storico, ma da considerare a tutti gli effetti parte integrante del film).

Già dalle intenzioni The Brutalist vola altissimo: l’architettura, l’Olocausto, l’esilio, il dietro le quinte della Storia e dell’Arte attraverso la vita privata. Corbet, e la compagna Mona Fastvold che con lui scrive e produce, “costruisce” il “finto” biopic di Laszlo Toth, un architetto ebreo ungherese fuggito negli Stati Uniti dai campi di sterminio. Adrien Brody è lo scheletro polanskiano che riprende vita dove Il pianista si concludeva, al termine della Seconda guerra mondiale. A Corbet interessa l’ “esperienza” americana e quindi il suo film inizia alla fine degli anni ’40, con l’arrivo a New York e il soggiorno turbolento e in povertà a Philadelphia. Fino all’incontro con l’irascibile miliardario Van Buren, che si innamora della sua opera e ingaggia con Toth un rapporto ambiguo, di stima intellettuale e sopraffazione, controllo economico e abbandono. Nel mezzo l’altrettanto turbolento rapporto sentimentale con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e la nipote Szofia, inizialmente puramente epistolare, e poi con il loro arrivo in America nella seconda parte del film, liberatorio e straziante. E qui c’è spazio per una sorta di melodramma oltre la Storia, che diventa la cartina di tornasole romantica, privata e dolorosa delle tante utopie e degli orrori che il film si porta dietro.

Il segno della Bauhaus, citata nello stile e nella formazione di Toth e nei font dei credits. La fonte meravigliosa di King Vidor. Eric von Stroheim. Buckenwald e Dachau. Ma anche la dipendenza dall’oppio, che Toth si inietta in vena, trasformandosi in un potenziale personaggio nomade di Burroughs e quindi nell’immagine/fantasma di un’altra America letteraria, lisergica e oscura. E dobbiamo ammettere che raramente avevamo visto un film così intimamente anti-americano. Lo straordinario piano sequenza iniziale, dove Toth si fa strada tra una folla di immigrati, nell’oscurità e nel caos linguistico come se fosse ancora all’interno di un campo di concentramento, si risolve con l’apparizione della Statua della Libertà rovesciata, come fosse l’epifania allucinatoria di un incubo che non è ancora finito. E infatti The Brutalist tra le altre cose si incunea in una vera e propria analisi perversa sulla dipendenza finanziaria e sui rapporti di potere tra il magnate e l’artista, grazie anche a un Guy Pierce spaventoso, perfetta incarnazione del Mito Americano scisso tra il salvatore e il demone.

Eppure, nonostante la durata del film e i tanti conflitti creativi che vengono raccontati, come nell’Andrej Rublev di Tarkovskij forse il “vero” riferimento di Corbet, l’opera compiuta dell’artista ci viene esposta solo nel finale, ambientato nel 1980. Gli edifici, che attraversiamo sempre di sfuggita nel corso di The Brutalist come progetti incompiuti, rimandati o semplici fotografie su una rivista in bianco e nero, si rivelano e si “spiegano” solo al termine del percorso di Toth, di Corbet e degli spettatori. “Non conta il viaggio ma la meta” viene detto non a caso  dalla nipote di Toth davanti a una platea nell’ultima scena, in quella che pare la dichiarazione programmatica di un cineasta ossessionato dall’idea del capolavoro, dell’opera d’arte fin(i)ta.

E quindi? Brady Corbet è un cineasta da prendere o lasciare. E forse finora con la sua filmografia siamo stati fin troppo severi. Anche qui emergono spigolosità, didascalismi ed eccessi (non privi anche di una certa ambiguità “politica”) di un cinema apertamente wagneriano, capace di saturare in modo perentorio lo schermo e il filo narrativo, sovrapponendo simbolismi e metafore, illuminazioni abbacinanti e ridondanze. Al netto di tutto, il materiale da plasmare e concettualizzare è enorme e The Brutalist si afferma come il suo film migliore. Ancora una volta problematico, certo. Ma innegabilmente straordinario.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it , 5 Febbraio 2025 di Carlo Valeri

venerdì 10 gennaio 2025

Here di Robert Zemeckis (2024)

Come spesso accade con Robert Zemeckis, un suo film pone una questione filosofica già a partire dal titolo dell’opera: here, qui. Si chiama così anche la splendida graphic novel di Richard McGuire alla base dell’operazione, ma il “qui” disegnato su carta assume (almeno) una coordinata in più quando viene trasposto al cinema, che è il tempo, il movimento, il divenire, l’ “adesso”. Hic et nunc, qui e ora. Le coordinate del cinema di Zemeckis da sempre, d’altronde, unite all’ossessione sempre viva di catturare “a vista” le mutazioni che avvengono ai corpi e alle cose durante la loro permanenza sullo schermo.

Si tratta di quello che Bruno Latour (nel suo volume postumo, il bellissimo Dove sono?) chiama ‘il disgelo del paesaggio’. “Questo cambiamento di forma si basa su una constatazione molto semplice: noi umani non abbiamo mai fatto l’esperienza di incontrare le ‘cose inerti’ che a quanto pare componevano il mondo ‘materiale’. È evidente se abitate in città, dato che ogni millimetro del vostro ambiente di vita è stato fabbricato da esseri umani, vostri simili, ma è altrettanto evidente se state in campagna, dato che ogni singolo particolare del territorio è opera di un essere vivente, talvolta anche molto lontano nel tempo. Questa sensazione che le cose abbiano una consistenza vale per l’intera estensione della zona critica. Le ‘cose inerti’ esistono solo per un’esperienza del pensiero che vi trasporterebbe, con l’immaginazione, in un mondo in cui nessuno ha mai vissuto. Di qui sorge la domanda: la sensazione di questa evidenza modifica oggi il vostro modo di essere, di guardare al futuro, di situarvi nello spazio, di capire quella che chiamate libertà di movimento?”

Ecco perché i personaggi di Here guardano spesso davanti a loro e raramente alle loro spalle, con un espediente rubato al linguaggio delle soap opera (chi ha familiarità con le telenovele sa che spesso i protagonisti guadagnano il primo piano avvicinandosi all’obiettivo della camera fissa, con le altre figure in scena che parlano loro da dietro le spalle o dal fondo del quadro): la portata dei quesiti che queste storie portano con sé travalica il gonfio aspetto mélo delle vicende familiari di Richard e Margaret, e anche la sperimentazione su deaging e velocità di rendering dell’AI, per farsi riflessione su uno dei problemi centrali del nostro tempo – la nostra posizione nel campo d’azione dell’immagine, ora che ogni finestra sull’esterno, come accade decine di volte nel film, si è frammentata in una quantità di schermi più piccoli che si affastellano gli uni sugli altri davanti ai nostri occhi. Le volte in cui i protagonisti guarderanno attraverso la grande finestra che sovrasta il salone si contano sulle dita di una mano, quell’apertura serve soprattutto per far entrare il fuori nell’interno (i pompieri, gli archeologi) – e infatti nell’incipit le due sedie vuote voltano le spalle alla finestra, guardano verso di noi, come un invito a sedersi agli spettatori, per guardarsi allo specchio (quanto Harold Pinter c’è in tutto questo dispositivo?).

No non ora non qui questa pingue immane frana

È un problema di quadro prospettico, cioè una delle questioni cruciali delle rappresentazioni artistiche sin dalla notte dei tempi: non è un caso se Here, nello stesso istante in cui attraversa la cosmogonia di Terrence Malick e le invenzioni da camera di Michel Gondry, di fatto riparte dalle origini frontali del dispositivo, e perciò dalla struttura della sit-com, inquadratura fissa sul salone di casa, il divano come protagonista nascosto, gli attori che crescono e invecchiano col passare degli episodi e delle stagioni (la stessa intuizione che aveva avuto il vicino WandaVision, a pensarci bene). “Come sottolineare una simile mutazione?”, si chiede al riguardo sempre Latour: “Affermando che i terrestri non si trovano più davanti a un paesaggio” (la sequenza cruciale in cui rivediamo al contrario i filmini familiari del capofamiglia Al proiettati sul lenzuolo bianco del quale lo spettatore si trova alle spalle….).

Ecco allora che la natura prepotentemente immersiva di questo piano fisso riconnette tutta questa parabola con il destino sempre più installativo del cinema-che-verrà (Here come La zona d’interesse apparentemente senza l’Olocausto?), la visione di un panel che interagisce con i nostri occhi mentre muta e si apre “in diretta” con noi. Esiste ancora la possibilità di un punto di fuga? Perché i personaggi di Here tutto sembrano volere, tranne che starci, in questo qui e ora (un’altra delle grandi questioni del contemporaneo…) – ma le case natali pretendono il loro tributo (come ben sa il fantasmino di A ghost story), e così Margaret cercherà di andarsene per una vita intera, il padre di Richard sarà destinato a tornarci per i suoi ultimi giorni, Richard stesso resterà intrappolato in quel salone da solo, i suoi sogni infranti come quelli di suo padre.

Alla stregua del fumetto da cui è tratto, Here vuole essere anche un compendio di come il progresso tecnologico abbia influito sulla nostra concezione di spazio domestico (l’entrata in scena del televisore, della super8 casalinga, delle poltrone reclinabili, fino alle mascherine da Covid…). In questo, nella malattia del personaggio di Margaret è contenuta anche un’indicazione (come già facevano The Father di Zeller e Vortex di Noé) su quanto la ricostruzione virtuale “aumentata” di ambienti familiari potrà aiutarci in futuro (a quanto dicono diversi esperti come Federico Faggin e altri) con la comprensione del deperimento neurologico, di cui conosciamo ancora molto poco. In altre parole, sempre prese in prestito da Bruno Latour: “che cosa succederebbe se i protagonisti di questa storia riprendessero a camminare, voltandosi di nuovo di 90 gradi, stavolta però nella direzione giusta, per rituffarsi nel flusso delle cose, che a loro volta riprenderebbero il cammino smettendo così di permettere ad altri di limitarsi a rappresentarle? Dalla parte degli ‘oggetti’ si produrrebbe un allegro trambusto. […] Anche qui, di nuovo, è come il disgelo di un fiume. Fine del naturalismo”. Ecco.

Regia: Robert Zemeckis

Interpreti: Tom Hanks, Robin Wright, Kelly Reilly, Michelle Dockery, Paul Bettany, Ophelia Lovibond, Jonathan Aris, Nikki Amuka-Bird, David Fynn, Lilly Aspell, Mitchell Mullen

Distribuzione: Eagle Pictures

Durata: 104′

Origine: USA, 2024

 

Pubblicato su sentieriselvaggi.it , 8 Gennaio 2025 di Sergio Sozzo

 

 Una foresta si estende fino al di fuori dell’inquadratura e la zampa di un tirannosauro irrompe nel mentre il rettile è all’inseguimento di un altro dinosauro. Così ha avuto inizio la vita complessa sulla Terra e così inizia anche il nuovo film di Robert Zemeckis, Here, che parte da 65 milioni di anni indietro nel tempo per documentare, senza un reale ordine cronologico, la storia di un singolo appezzamento di terreno. 

Pochi metri quadri eletti a casa da una popolazione indigena nel XV secolo, poi terreno della tenuta di William Franklin, sulla quale viene eretta una casa all’inizio del XX secolo. La stessa casa che ospiterà ben tre differenti famiglie nel corso del ‘900, l’ultima delle quali la abiterà per due generazioni fino alla vendita a dei nuovi abitanti a ridosso degli anni ’20 del XXI secolo, che la occuperanno nel periodo del covid per lasciarla nuovamente, nel 2024, ai precedenti proprietari ormai anziani.

 L’ultrasettantenne Zemeckis continua ad essere il regista “sperimentatore” per antonomasia, un autore che non rinuncia mai a mettersi alla prova e affrontare con il piglio curioso che l’ha sempre contraddistinto nuove sfide tecnologiche. Con Here, lo scoglio da superare era il trascorrere diegetico del tempo e l’esigenza di mostrare gli stessi personaggi a distanza di molti anni, senza ricorrere a make-up o differenti attori di varia età. A venire in soccorso di questa esigenza non è stato il semplice deep-fake o la CGI impiegata per analoghe operazioni cinematografiche recenti, ma una tecnologia di intelligenza artificiale generativa nota come Metaphysic Live, utile a ringiovanire il volto degli attori in tempo reale senza pesanti interventi di post-produzione. Il risultato è decisamente sorprendente e Tom Hanks, Robin Wright, Paul Bettany e Kelly Reilly, mostrati nelle varie fasi della loro vita, ringiovaniti e invecchiati, offrono un effetto assolutamente realistico. 

Ma, ovviamente, Here non è solo progresso tecnologico, così come non lo sono stati Chi ha incastrato Roger Rabbit?, Forrest Gump, Polar Express ed altri titoli importanti nella carriera di Zemeckis che hanno affrontato a muso duro l’innovazione tecnica.

 Here è, innanzitutto, un film unico, un’opera estremamente originale che vuole ragionare sull’unità di spazio. Il tempo è ciclico, come possiamo facilmente vedere nelle varie storie che compongono il racconto, occupato da vite che però non sempre iniziano e finiscono dinnanzi agli occhi dello spettatore.

 Ad occupare il segmento più importante in Here è la vita della famiglia Young, che vive in quel luogo per due generazioni, estendendosi ad una terza. Osservando le vite di Al (Paul Bettany), Rose (Kelly Reilly), Richard (Tom Hanks) e Margaret (Robin Wright) siamo testimoni con loro della gioia, della tristezza, del dolore, della nascita, della malattia e della morte. La famiglia Young è una famiglia “tipo”, archetipo e stereotipo, testimonianza di vita umana all’interno di uno spazio circoscritto rettangolare. Uno spazio che si sdoppia, triplica, sovrappone e alterna in dissolvenze attraverso continui pop-up, anzi vignette, che consentono allo spettatore di andare avanti e indietro nel tempo per scorgere cosa e quando sta accadendo in quel rettangolo di vita.

E non è un caso, dal momento che Here è l’adattamento cinematografico di un graphic novel dallo stesso titolo scritto e illustrato da Richard McGuire nel 2014 come ampliamento di un’opera a fumetti del 1989. Proprio dal linguaggio del fumetto riprende il montaggio a finestre dove nella stessa inquadratura si incontrano diverse epoche. 

E qui, in questo audace montaggio, si trova la seconda prova che Zemeckis ha voluto affrontare, ovvero scardinare il linguaggio classico del montaggio cinematografico reinventandolo a favore dell’inquadratura unica. Perché Here utilizza, appunto, una sola inquadratura per 105 minuti, facendo sì che la vita dei personaggi si svolga davanti a quell’obiettivo, almeno nei momenti salienti. Questo implica qualche forzatura nel far collimare luogo ed eventi, ma è necessario alla stessa grammatica intrinseca all’operazione. 

Quello che possiamo rimproverare a Here è l’eccessivo affollamento di vite che occupano nel tempo quello spazio. Non adottando una narrazione cronologica e avendo la necessità di spostarsi di continuo da una finestra all’altra, il film di Zemeckis finisce per peccare in affezione. Cioè, è la famiglia Young a spiccare all’interno della varietà di personaggi, ma si ha la sensazione che ci sia sempre troppo poco tempo per raccontarne la storia e per far affezionare lo spettatore a quei personaggi. Per di più, ci sono momenti di fortissima emotività nel film, in cui si affrontano lutti improvvisi, malattie, ma anche la gioia della nascita e alcune belle notizie, solo che c’è sempre una finestra pronta ad aprirsi su un altro momento, magari lontanissimo nel tempo, che interrompe l’intensità di quello che si sta vedendo. 

Dopo diversi passi falsi (cerchiamo ancora di dimenticare il suo Pinocchio disneyano), Zemeckis con Here torna a lasciare il segno, a sperimentare un nuovo modo di pensare e portare in scena il cinema. E lo fa riunendo la squadra di Forrest Gump che non si limita a riavere uno a fianco all’altra Tom Hanks e Robin Wright, ma riunisce dopo 30 anni anche lo sceneggiatore Eric Roth, il direttore della fotografia Don Burgess e il musicista Alan Silvestri. 

Here non è esente da difetti, anzi è un “esperimento” altamente migliorabile, ma proprio in quanto tale è destinato a farsi ricordare e ribadire come il cinema sia un mezzo dalle possibilità espressive praticamente illimitate. 

Pubblicato su darksidecinema.it il 10 Gennaio 2025

 Here, ovvero “qui”, diretto da Robert Zemeckis, tratto dal fumetto omonimo di Richard McGuire e interpretato sul grande schermo da un cast di attori notevoli: Tom Hanks e Robin Wright nei ruoli principali (un po’ troppo teatrali, ma ci torno dopo) e poi Paul Bettany (di gran lunga il migliore, ma torneremo anche su di lui), Kelly Reilly, Michelle Dockery e Gwilym Lee. 

La premessa è nota: McGuire, classe 1957, creò nel 1989, con sole 36 vignette in bianco e nero sulla rivista Raw, quello che viene considerato un capolavoro e un’opera rivoluzionaria nel mondo del fumetto, capace di cambiarne per sempre la prospettiva. Il fumetto racconta eventi accaduti in un singolo angolo di una stanza in Pennsylvania durante diversi momenti della storia. La prospettiva temporale copre praticamente tutta la storia del pianeta o quasi. E la versione espansa di oltre 300 pagine pubblicata da McGuire nel 2014 rende giustizia all’ambizione iniziale dell’opera, portandola su un livello ancora più alto. 

Zemeckis, nato invece nel 1952, regista rivoluzionario e pluripremiato (dagli Oscar ai Golden Globe fino agli Emmy), ha girato grandi successi come Ritorno al futuro e Forrest Gump, ma anche film meno apprezzati come The Polar Express, Monster House, Beowulf e Pinocchio. Avido sperimentatore e innamorato perso degli effetti speciali, per Here Zemeckis ha usato una tecnologia basata sulla AI mai sperimentata prima, che consente di invecchiare o ringiovanire gli attori in tempo reale durante le riprese. 

Cominciamo dal tempo della narrazione, che è la chiave visiva dell’opera di McGuire: Zemeckis e il suo co-sceneggiatore Eric Roth (Forrest Gump, Dune, ‌Killers of the Flower Moon) lo hanno compresso, sfrondato, intessuto in maniera più stretta attorno a pochi archi narrativi, ridotto nella durata temporale e reso più discorsivo rispetto al fumetto. L’operazione non ha snaturato il testo originale ma ne ha reso visibile un “trucco” che McGuire gestisce con più eleganza (e che poi è il problema maggiore del film). 

Si tratta della trama, costruita attorno all’intreccio di storie normali, piccolo-borghesi di poche persone che vivono vite anonime nella provincia americana attraverso i secoli (pure tra gli indiani). Queste storie, se rimangono solo alluse e intrecciate per giustapposizione silenziosa, sono più misteriose, evocative e quindi universali. Se invece vengono esplicitate, si trasformano in una serie di storie americane “piccole piccole”. O, meglio, dal punto di vista dello spettatore, di una clamorosa crisi di mezza età. Un rendersi conto del cambiamento del tempo e della mortalità di tutti, inclusi noi stessi. Dato che a quanto pare lo spettatore tipo di questo film per Zemeckis è una persona di mezza età, l’operazione risulta particolarmente “esclusiva” per le altre categorie. Ma anche su questo torniamo tra un attimo. 

La seconda leva che Zemeckis ha usato per risolvere il suo problema è stata quella della recitazione del suo cast. Un cast che ha cercato evidentemente una propria chiave di lettura per personaggi che sono stereotipi di alto livello. Non a caso c’è anche Michelle Dockery, donna di fine Ottocento ma che è anche un volto estremamente conosciuto dal grande pubblico per il ruolo di Lady Mary Crawley nello sceneggiato Downton Abbey. La ricerca del cast è andata in una sola direzione: quella della messa in scena teatrale (sul perché ci torniamo anche qui tra un attimo), e questo ha portato alla rigidità e platealità delle mosse di Hanks e Wright a cui facevo cenno prima e a un generale modo di entrare e uscire dalla scena che è artificiale e costruito, così come molti dialoghi. 

Arriviamo alla cinematografia, terza leva per Zemeckis. La scelta di avere la stessa inquadratura fissa, come nel fumetto, sciogliendo però nei dialoghi lo scorrere parallelo e silenzioso, ondivago e allusivo del fumetto, ha un effetto positivo e uno negativo. Quello positivo è che rende il film esteticamente molto gradevole, e la sua sperimentazione risuona facilmente comprensibile anche a chi non ha mai letto il fumetto. Questo rafforza, insieme alla struttura della storia (anche questa presa dal fumetto) la coerenza del lavoro di Zemeckis. Invece, introduce uno spazio unico in cui per di più si gioca una specie di Morte di un commesso viaggiatore in minore, che tocca un riflesso condizionato di quasi tutti gli attori verso una recitazione teatrale molto spinta. 

Si salvano da questo soprattutto Paul Bettany, come dicevo sopra, che è un attore secondo me eccezionale e non ancora sfruttato al meglio. E poi Kelly Reilly, che nel film recita la parte di sua moglie. Forse, a ben guardare, è la sua recitazione quella più intensa e credibile del film, seguita di misura da quella di Bettany. 

C’è già in rete un certo piglio negativo riguardo al film. Perché il lavoro di Zemeckis è difficile da decodificare da chi si aspetta trame più “mosse” e convenzionali, oltre che molto rigido e stereotipato (la storia “spiegata” dai dialoghi un po’ banali rispetto ai silenzi allusivi del fumetto) e in parte anche sepolto vivo dagli effetti speciali. Siamo a tutt’altro livello rispetto a The Polar Express, ma la critica va in quella direzione. 

A mio avviso, il film può risultare noioso, confuso e privo di coinvolgimento emotivo soprattutto per chi non ha una empatia con quella che è la chiave di lettura più profonda: è un film sui boomer che invecchiano, un arco che lega due crisi. Da un lato c’è quella della mezza età degli spettatori di riferimento di Zemeckis, che da ragazzini avevano visto Ritorno al futuro e poi un po’ dopo Forrest Gump e poi Castaway. Dall’altro c’è quella di fin de vie che aleggia nel film, perché si invecchia, il tempo passa e poi alla fine ce ne andremo via tutti. 

Può risultare un film poco empatico anche se si considera un altro aspetto, e cioè la maggiore “americanità” della pellicola rispetto al fumetto: ci sono tanti riferimenti culturali alle epoche americane, oltre a numerose citazioni dei film precedenti di Zemeckis. Questo rende il film profondamente alieno a chi invece l’America la conosce non direttamente ma solo mediante serie e film. Se manca un lessico famigliare e dei ricordi generazionali di quel Paese, l’opera di Zemeckis risulta più fredda, distante. 

E poi, diciamocelo francamente, il film è anche un po’ stanco, lento, perché la trama non è particolarmente coinvolgente. Manca completamente, ad esempio, la dimensione del dramma famigliare: la vita è fatta di tradimenti e di orientamenti sessuali diversi, non solo di frustrazioni e di sacrifici auto-penalizzanti. 

Se aggiungo anche che, mentre il graphic novel è stato celebrato come un’opera d’arte innovativa, il film è un esperimento non perfettamente riuscito, che non cattura l’essenza e l’impatto dell’opera originale, tutto questo potrebbe sembrare una stroncatura. Invece, non è questa l’intenzione. Here è un film molto ricco dal punto di vista visivo e molto intimo, quasi minimalista, declinato soprattutto per una certa demografia (i boomer). È un film che parla a tutti? No. È un film che vale la pena di vedere? Certo che si. 

Pubblicato su fumettologica.it di Antonio Dini , 9 Gennaio 2025