giovedì 29 novembre 2012
I mondi a parte di Wes Anderson: “Moonrise Kingdom” (2012)
E’ spesso divertente
interloquire sul cinema, così come su altri aspetti dell’arte tout-court.
Divertente e appassionante mettere a confronto i più disparati giudizi e le
diverse sensazioni che suscita un film come una canzone; si passa
dall’esaltazione, al moderato entusiasmo per arrivare fino all’incazzatura o,
cosa peggiore, alla totale indifferenza. Wes Anderson è artefice effettivamente
di film che riescono a generare tutta questa serie di sensazioni.
Nominato nel 2001 all’Oscar
per la miglior sceneggiatura originale per “I Tenenbaum”, ha comunque dalla sua
un marchio di fabbrica ben distinguibile, un tocco tipicamente europeo nella
sua ossessione per l'estetica, e basta guardare un paio di fotogrammi di uno
dei suoi film per individuarne il tocco personale, una sorta di visione grandangolare
di fantasie infantili. Malinconico, ridicolo, ironico, ma con un buio
strisciante che si snoda in dialoghi spesso stralunati, in cui ricorrono temi come
la nostalgia, il fallimento, le famiglie divise. Il risultato è spesso
l’apparente costruzione di un mondo a parte, debordante ma in fondo
perfettamente parallelo alla quotidianità, che sia quello degli eccessivi figli, madri, padri e nipoti
dei Tenebaum, come quella della famiglia delle volpi antropomorfe del
bellissimo film d’animazione “Fantastic Mr. Fox” del 2009.
“Moonrise
Kingdom”, in uscita i primi di dicembre, non sfugge a questa regola. Ambientato
su un'isola al largo delle coste
del New England nell'estate del 1965, racconta la storia dei dodicenni
Sam e Susy che si
innamorano, fanno un patto
segreto per scappare via sia dal
campo scout che dai folli genitori (Frances McDormand e il suo attore feticcio Bill Murray) della ragazza. Mentre
le autorità inizieranno la loro ricerca, una violenta tempesta
è all’orizzonte e la vita della
tranquilla comunità dell’isola sarà sconvolta più di quanto ci si potesse immaginare.
Scritto da
Anderson insieme al figlio e fratello d’arte Roman Coppola (Francis F. e
Sofia…), riprende i temi delle stranezze familiari
e sociali, colorandoli al solito con
riprese che sembrano quadri, personaggi eccentrici e sopra le righe, comicità
stralunata, evocando l’amore giovanile forse come il ritratto di una più
giovane e più innocente America/mondo. La
fanciullezza come contraltare della crisi delle generazioni più anziane:
i genitori di Susy immersi in un continuo stato d’ansia e autocommiserazione
per il matrimonio in crisi, lo sceriffo Bruce Willis solo e depresso per motivi
personali, lo stralunato capo scout Edward
Norton in mutande assurde e calzettoni lunghi, l’ostile addetta ai servizi
sociali Tilda Swinton in abito blu elettrico che vuole riportare Sam in
orfanatrofio.
Non c’è dubbio che le visioni del
regista siano vulnerabili all’accusa di essere arroganti stranezze (vedere per
credere “Le avventure acquatiche di Steve Zissou” del 2004, lasciando perdere
il noioso “Il treno per il Darjeeling”), ma regna comunque quell’estetica fatta in casa che riesce ad evocare un universo ben
distinto, da osservare come una sorta di giocattolo d’epoca apprezzato da
adulti e bambini. Ma anche qui si alteneranno i giudizi più disparati, e sarà
sempre divertente assistervi.
mercoledì 14 novembre 2012
that's entertainment...: "Argo" di Ben Affleck, "Le Belve" di Oliver Stone, "Skyfall" di Sam Mendes
That's entertainment…il brano
dei Jam di Paul Weller, purtroppo, c’entra poco o nulla con queste tre diverse
interpretazioni di action movie, anzi due e mezza, dato che il film di Affleck,
oltre che basarsi su un fatto storico, ha un registro decisamente diverso dai
film di Stone e Mendes.
“Skyfall (2012)” lo attendevo
con una certa curiosità, proprio per aver affidato alla mani dell’autore di “American
Beauty (1999)” (soprattutto dello splendido “Revolutionary Road (2008)”, cosi
come dell’ottima commedia “Away we go (2009)” da noi passata praticamente in
sordina) la nuova avventura di 007, reincarnato
per la terza volta in Daniel Craig. Il
risultato rimane inalterato, non fatevi trarre in inganno da roboanti
recensioni che lo annunciano come una rivoluzione della saga bondiana. A parte
il villain, per la prima volta gay,
di Javier Bardem e la sete di vendetta personale, gli acciacchi e l’incalzare
dell’età che porta fino alle lacrime
l’agente segreto meno segreto del mondo,
umanizzandolo rispetto ai precedenti Connery/Moore/Brosnan, “Skyfall”
rimane il solito film infarcito di spari, sbadigli (miei), inseguimenti, belle fighe e paesaggi più o meno esotici.
Il film di Stone vede
muoversi, sugli sfondi assolati e perennemente vacanzieri della California del
Sud, la coppia di giovani e ricchi commercianti della “migliore marijuana del mondo”, Ben e Chon. Amici fraterni, condividono tutto, dalla villa
all’amore per la concubina Ophelia; Chon, ex marine, ha riportato i primi semi
dall’Afghanistan, e Ben, botanico e buddista, ne ha ricavato un prodotto
eccellente, viatico per ricavarne migliaia di dollari, così come per alleviare
il dolore dei malati terminali. La vita idilliaca del trio viene interrotta quando
un brutale cartello di trafficanti messicani non decide di fare affari con
loro, che lo vogliano o meno. Il rifiuto dei due di collaborare con il
cartello, guidato dalla Regina (Salma
Hayek), darà il via ad una serie di ricatti, violenze più o meno efferate per liberare Ophelia, rapita dai messicani
proprio per farli cedere ed accettare la joint-venture criminosa. Tra agenti
della Dea corrotti (John Travolta) e killer spietati (Benicio Del Toro), “Le
Belve (Savages, 2012)” riporta Stone ai tempi di “Natural Born Killers (‘94)” e
“U Turn ( con Sean Penn e Nick Nolte, ‘97)”, alla propria rilettura del noir,
infarcita dei soliti personaggi borderline e spesso sopra le righe. Se “Assasini nati-Natural Born Killers”, per
quanto sopravvalutato, utilizzasse un linguaggio che vent’anni fa poteva essere
interessante, per “Le Belve” la domanda che mi è sorta spontanea appena
terminata la visione è stata quanto
abbiamo bisogno di questi film, diventati ormai una sorta di (in)volontario
stereotipo del genere. Dai citati film di Stone alle eccezionali opere di
esordio di Tarantino, lo pseudo-noir (almeno così mi piace definirlo) si è
avvinghiato su se stesso, diventando, non necessariamente, iperadrenalico come
in questo caso o, cosa assai peggiore, clonando situazioni, personaggi e
dialoghi che non colpiscono più nessuno
– da “Slevin (di P. McGuigan, ’07)” per arrivare al “Killer Joe”
di Friedkin. Per quanto riguarda Don Winslow, lo scrittore assurto a star
del genere, dal cui libro è
stato tratto, consigliatissimo “Il Potere Del Cane (Einaudi, ‘09”)”, durissima
e avvicente saga sui cartelli messicani della droga. Per gli altri libri vale, ovviamente per il sottoscritto, la stessa considerazione espressa per il film di Stone.L’opera migliore del lotto è indubbiamente “Argo (2012)”, pur palesando quel gusto retorico del comunquenoisiamoimigliori di cui ogni americano sembra essere intriso fino al midollo, anche quando denuncia episodi sporchi e scottanti della recente storia statunitense.
Nel 1979,
l'ambasciata americana in Iran viene invasa dai rivoluzionari iraniani e gli americani sono presi in ostaggio. Tuttavia sei riescono a scappare e nascondersi
nella residenza ufficiale dell'ambasciatore
canadese e la CIA è incaricata di farli uscire dal paese. Con poche
opzioni e tempo a disposizione, l’esfiltratore (se siete
curiosi del termine, cercatavelo…) Tony Mendez (Affleck)
escogita un piano curioso e audace:
creare un film canadese di fantascienza, Argo, da girare in Iran, e far
passare i sei come
il suo team di produzione. Con
l'aiuto di alcuni contatti di
Hollywood, come il premio Oscar per gli effetti speciali
John Chambers (John Goodman) e il produttore Lester Siegel (Alan Arkin),
Mendez crea l'inganno
e procede verso l'Iran come produttore associato. Nonostante i due giorni di tempo disponibili a
Teheran, con le forze di
sicurezza iraniane sempre più vicine alla scoperta di
dove siano nascosti i sei terrorizzati fuggitivi, e i dubbi della Casa Bianca sull’annullamento
dell’operazione, Mendez riesce nell’impresa sul filo del rasoio.
Alla terza
prova da regista, che segue il successo del notevole poliziesco “The
Town” di due anni fa, Affleck azzecca anche questa volta volti e ritmi,
romanzando un’operazione (Argo per l’appunto) resa nota al mondo, solo anni
dopo dall’accaduto, dall’amministrazione Clinton. I pregi sono quelli
dell’ottima messa in scena, sia quando si tratta di descrivere la parte
hollywodiana della realizzazione del finto film, con interventi ironici
stranamente non fuori luogo, che della suspense della fuga, tra le incertezze e
la tensione dei fuggitivi e i controlli ai checkpoint dell’aeroporto da parte
della Guardia islamica.
Come spesso
accade per questo tipo di progetti, rimane comunque in bocca quel gusto amaro
per non aver osato di più, come in certa cinematografia aggressiva della
Hollywood degli anni '70 fatta da registi come Sidney Lumet (gli
eccellenti “Quel pomeriggio di un giorno da cani” del ‘75 o “Quinto potere” 1976,
solo per citarne alcuni) o Alan Pakula (“Perché un assassinio” del ’74 e “Tutti
gli uomini del presidente, ‘76).
Dato che di denuncia
della politica estera degli Stati Uniti si tratta, allora valeva la pena di
arrivare fino in fondo. L’assalto all’ambasciata americana fu generato, dopo un
anno dall’instaurazione di Khomeini e dal rovesciamento dello scià Pahlavi, dal
rifugio che gli USA offrirono a quest’ultimo e che loro stessi, insieme alla
Gran Bretagna, aiutarono nell’insediamento alla guida dell’Iran per circa 30
anni, dopo il rovesciamento del laico M. Mossadeq. Il tutto, ovviamente, per
riprendersi gli impianti di petrolio nazionalizzati da Mossadeq e lasciare
spazio al regime del terrore di Pahlavi, fatto di polizia segreta e torture. Per carità, questo viene quasi urlato nell'ottimo incipit, ma nel finale si avverte comunque il messaggio che l'America e gli americani sono sempre in grado di farcela, a scapito del fondamentalismo come nel rimediare ai propri, terribili, errori e disastri.
Affleck
suscita l’impressione delle prime
prove di Eastwood da regista, toccando diversi generi con sapienza, alla
ricerca di una propria identità autoriale, ma la strada intrapresa sembra
quella ottimale.
p.s. : That's Entertainment! è anche il titolo di un film del 1974 , una compilation dei musical prodotti dalla M.G.M. per la celebrazione del proprio 50° anno...ho sempre odiato i musical...
mercoledì 7 novembre 2012
Senza padri né maestri
Non so mai se la
prospettiva attraverso cui guardo le cose mi illumina le cose secondo quella
prospettiva o sono le cose che, convergendo verso quella prospettiva, me la
stanno indicando. In questo periodo, per esempio, mi capita con la questione
dei padri. Mi sembra che tutto converga in quella direzione, e magari mi
sbaglio, però mi piacerebbe confrontarmi in questo contesto per chiarirmi un
po’ le idee. Mi è successo anche per Un Sapore di ruggine e ossa di J. Audiard, uno degli ultimi film di
cui ha parlato Roberto in questo spazio, dove il mio sguardo si è soffermato
soprattutto sulla figura dell'uomo che si trova a fare il padre perché la
madre non c’è, o non ce la fa, o se ne va – questo tema vedremo è per
me ricorrente – che non sa farlo, ma che impara a farlo. Ora, nel caso
specifico di questo film, in assoluto il protagonista impara, attraverso
una meravigliosa educazione sentimentale, ad amare, tuttavia, a mio avviso,
questo processo si sblocca proprio quando capisce l’amore paterno.

Questo tipo di
narrazione-padre solo e che deve imparare a fare il padre - torna in
alcuni film recenti (Alla ricerca della
felicità, del 2006, di Muccino, per esempio) ma certamente ha radici
lontane: Kramer contro Kramer (1979,
di Robert Benton) è stato il primo film a tematizzarlo e a introdurre perciò
la figura dei “nuovi padri”, padri
cioè che scoprono di avere anche un lato affettivo e che sono legittimati a
mostrarlo solo perché si trovano in assenza delle madri; quasi
contemporaneamente all’uscita di
questo film, e non casualmente peraltro, gli studi sui modelli
familiari hanno cominciato a delineare la
Fatherless Society,
mettendo in relazione destrutturazione dei nuclei familiari, assenza dei padri
e disagio giovanile. Spesso,
infatti, in questi dibattiti ritorna la dicotomizzazione tra padre buono e
padre cattivo (coinvolto/disimpegnato), come anche la polarizzazione di
modelli: le retoriche che delineano la figura del “nuovo padre” – in Italia
significativamente appellato “mammo”- si alternano a quelle che cercano di
diffondere un “sentimento di nostalgia” rispetto alla figura del padre breadwinner autoritario, garante
dell’ordine, un addestratore in grado di trasmettere un’universale e indiscussa
identità maschile.
In questo senso
mi viene in mente Come dio comanda
(2008) di G. Salvatores (tratto dal libro di Ammanniti, Mondadori 2006) dove un
fantastico Filippo Timi -padre solo- ci mostra il dramma di un uomo che non ha
più le sue certezze - né lavoro, né casa, né famiglia- e che trova il solo
spazio di salvataggio e rafforzamento della sua maschilità nell’ addestramento
alla mascolinità che impone al figlio. Della necessità di trasferire il
valore della mascolinità in una società del rischio e dell’incertezza tratta
anche Gran Torino (2008) di Eastwood,
dove il protagonista, in questo caso padre putativo, insegna al vicino di
casa- adolescente, timido e imbranato perché cresciuto con sole donne- come un
uomo deve vivere, parlare e farsi rispettare. Questo film è citato da diversi
testi per tematizzare la necessità di figure paterne di rilievo in una società
preoccupantemente “senza padri né maestri”, in particolare mi riferisco alle
riflessioni di Massimo Recalcati, guru contemporaneo della divulgazione del
discorso psicoanalitico lacaniano, ma non solo. In ogni caso la riflessione di
Recalcati nei suoi ultimi lavori (per esempio Cosa resta del padre, Raffaello Cortina Editore 2011) è centrata
proprio sulla preoccupazione per il declino dei punti di riferimento - la scena
del balcone vuoto all’ inizio del film Habemus
Papam (2011) di Moretti, secondo l’ autore, mette in scena
efficacemente questa sparizione -in cui il venir meno della funzione paterna è
considerata concausa tra le più pericolose a tutti i livelli sia
personali che sociali. Certamente, negli ultimi anni, lo spostamento
di attenzione delle psicoterapie e delle psicoanalisi sulla problematicità del
rapporto con la figura paterna è un dato evidente che si riverbera in tutti i discorsi
e le narrazioni, con quella tipica riflessività che non permette di capire se è
la psicoterapia che concorre a creare la realtà con i suoi schemi diagnostici o
viceversa. Comunque, senza addentrarci nei moltissimi esempi letterari (persino
l’ultimo libro di Amelie Nothomb lo tematizza), rimanendo invece nel campo
cinematografico, due film sono piuttosto emblematici di questo discorso: The tree of life (2011)
di T. Malick e This must be the place
(2011) di P. Sorrentino, dove peraltro è lo stesso attore, Sean Penn, a
interpretare il ruolo di figlio intrappolato nel rapporto irrisolto con un
padre autoritario nel primo caso e lontano nel secondo. Nel film di Malick è
centrale la scena in cui il padre, interpretato da Brad Pitt, cerca di
esprimere il rancore per quel ruolo di garante dell’ordine e della disciplina
che ha imprigionato e reso infelice lui prima degli altri.
Quindi, per
riassumere: da un lato appare sulla scena un padre che per poter essere
affettivo deve essere senza una madre a fianco, tuttavia questa figura
preoccupa perché contrasta con i modelli di maschilità tradizionale, dall’altro
si problematizza la figura del padre sia quando è assente, sia quando è
incardinato in vecchi modelli. Insomma, una vera contraddizione: non si può più
essere come un tempo, ma neppure in modo nuovo. Ma c’è qualcuno che propone una
soluzione a queste contraddizioni? Sì che c’è. Il grande, visionario, Alejandro
González Iñárritu con quella
meraviglia di film che è Biutiful
(2010). Anche qui il protagonista è costretto a fare il padre perché la madre
non è in grado (soffre di disturbi psichici) ma lo fa bene e lo fa fino in
fondo e anzi non fa il padre, fa tutto. Uxbal, un grandioso Javier
Bardem, è capace di prendersi cura di chi gli sta intorno, non solo
dei figli, di assumersi la responsabilità delle sue azioni, di educare e
di proteggere affettuosamente chi ama. Forse lo fa perché non ha avuto
vicino un padre che gli ha fornito un modello o che lo ha ossessionato: lui non
ha conosciuto il padre, ma in realtà la figura dentro di lui c’è, in una
dimensione onirica e poetica, ad immagine e somiglianza di quello di cui lui ha
bisogno.
Ecco cosa
ha detto Iñárritu del
film: “Biutiful è, di nuovo, su un tema che mi ossessiona da tutta la vita e
che ossessiona il mio lavoro: è un film sulla paternità – sulla paura di perdere
un padre, di essere padre e su quel momento in cui cominci a diventare il tuo
proprio padre e i tuoi figli cominciano a diventare te. È sulla perdita –
perché alla fine noi siamo anche quello che abbiamo perso." (questa stessa
frase chiudeva il primo film di Iñárritu, Amores Perros). Mi
convince.
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