Non so mai se la
prospettiva attraverso cui guardo le cose mi illumina le cose secondo quella
prospettiva o sono le cose che, convergendo verso quella prospettiva, me la
stanno indicando. In questo periodo, per esempio, mi capita con la questione
dei padri. Mi sembra che tutto converga in quella direzione, e magari mi
sbaglio, però mi piacerebbe confrontarmi in questo contesto per chiarirmi un
po’ le idee. Mi è successo anche per Un Sapore di ruggine e ossa di J. Audiard, uno degli ultimi film di
cui ha parlato Roberto in questo spazio, dove il mio sguardo si è soffermato
soprattutto sulla figura dell'uomo che si trova a fare il padre perché la
madre non c’è, o non ce la fa, o se ne va – questo tema vedremo è per
me ricorrente – che non sa farlo, ma che impara a farlo. Ora, nel caso
specifico di questo film, in assoluto il protagonista impara, attraverso
una meravigliosa educazione sentimentale, ad amare, tuttavia, a mio avviso,
questo processo si sblocca proprio quando capisce l’amore paterno.

Questo tipo di
narrazione-padre solo e che deve imparare a fare il padre - torna in
alcuni film recenti (Alla ricerca della
felicità, del 2006, di Muccino, per esempio) ma certamente ha radici
lontane: Kramer contro Kramer (1979,
di Robert Benton) è stato il primo film a tematizzarlo e a introdurre perciò
la figura dei “nuovi padri”, padri
cioè che scoprono di avere anche un lato affettivo e che sono legittimati a
mostrarlo solo perché si trovano in assenza delle madri; quasi
contemporaneamente all’uscita di
questo film, e non casualmente peraltro, gli studi sui modelli
familiari hanno cominciato a delineare la
Fatherless Society,
mettendo in relazione destrutturazione dei nuclei familiari, assenza dei padri
e disagio giovanile. Spesso,
infatti, in questi dibattiti ritorna la dicotomizzazione tra padre buono e
padre cattivo (coinvolto/disimpegnato), come anche la polarizzazione di
modelli: le retoriche che delineano la figura del “nuovo padre” – in Italia
significativamente appellato “mammo”- si alternano a quelle che cercano di
diffondere un “sentimento di nostalgia” rispetto alla figura del padre breadwinner autoritario, garante
dell’ordine, un addestratore in grado di trasmettere un’universale e indiscussa
identità maschile.
In questo senso
mi viene in mente Come dio comanda
(2008) di G. Salvatores (tratto dal libro di Ammanniti, Mondadori 2006) dove un
fantastico Filippo Timi -padre solo- ci mostra il dramma di un uomo che non ha
più le sue certezze - né lavoro, né casa, né famiglia- e che trova il solo
spazio di salvataggio e rafforzamento della sua maschilità nell’ addestramento
alla mascolinità che impone al figlio. Della necessità di trasferire il
valore della mascolinità in una società del rischio e dell’incertezza tratta
anche Gran Torino (2008) di Eastwood,
dove il protagonista, in questo caso padre putativo, insegna al vicino di
casa- adolescente, timido e imbranato perché cresciuto con sole donne- come un
uomo deve vivere, parlare e farsi rispettare. Questo film è citato da diversi
testi per tematizzare la necessità di figure paterne di rilievo in una società
preoccupantemente “senza padri né maestri”, in particolare mi riferisco alle
riflessioni di Massimo Recalcati, guru contemporaneo della divulgazione del
discorso psicoanalitico lacaniano, ma non solo. In ogni caso la riflessione di
Recalcati nei suoi ultimi lavori (per esempio Cosa resta del padre, Raffaello Cortina Editore 2011) è centrata
proprio sulla preoccupazione per il declino dei punti di riferimento - la scena
del balcone vuoto all’ inizio del film Habemus
Papam (2011) di Moretti, secondo l’ autore, mette in scena
efficacemente questa sparizione -in cui il venir meno della funzione paterna è
considerata concausa tra le più pericolose a tutti i livelli sia
personali che sociali. Certamente, negli ultimi anni, lo spostamento
di attenzione delle psicoterapie e delle psicoanalisi sulla problematicità del
rapporto con la figura paterna è un dato evidente che si riverbera in tutti i discorsi
e le narrazioni, con quella tipica riflessività che non permette di capire se è
la psicoterapia che concorre a creare la realtà con i suoi schemi diagnostici o
viceversa. Comunque, senza addentrarci nei moltissimi esempi letterari (persino
l’ultimo libro di Amelie Nothomb lo tematizza), rimanendo invece nel campo
cinematografico, due film sono piuttosto emblematici di questo discorso: The tree of life (2011)
di T. Malick e This must be the place
(2011) di P. Sorrentino, dove peraltro è lo stesso attore, Sean Penn, a
interpretare il ruolo di figlio intrappolato nel rapporto irrisolto con un
padre autoritario nel primo caso e lontano nel secondo. Nel film di Malick è
centrale la scena in cui il padre, interpretato da Brad Pitt, cerca di
esprimere il rancore per quel ruolo di garante dell’ordine e della disciplina
che ha imprigionato e reso infelice lui prima degli altri.
Quindi, per
riassumere: da un lato appare sulla scena un padre che per poter essere
affettivo deve essere senza una madre a fianco, tuttavia questa figura
preoccupa perché contrasta con i modelli di maschilità tradizionale, dall’altro
si problematizza la figura del padre sia quando è assente, sia quando è
incardinato in vecchi modelli. Insomma, una vera contraddizione: non si può più
essere come un tempo, ma neppure in modo nuovo. Ma c’è qualcuno che propone una
soluzione a queste contraddizioni? Sì che c’è. Il grande, visionario, Alejandro
González Iñárritu con quella
meraviglia di film che è Biutiful
(2010). Anche qui il protagonista è costretto a fare il padre perché la madre
non è in grado (soffre di disturbi psichici) ma lo fa bene e lo fa fino in
fondo e anzi non fa il padre, fa tutto. Uxbal, un grandioso Javier
Bardem, è capace di prendersi cura di chi gli sta intorno, non solo
dei figli, di assumersi la responsabilità delle sue azioni, di educare e
di proteggere affettuosamente chi ama. Forse lo fa perché non ha avuto
vicino un padre che gli ha fornito un modello o che lo ha ossessionato: lui non
ha conosciuto il padre, ma in realtà la figura dentro di lui c’è, in una
dimensione onirica e poetica, ad immagine e somiglianza di quello di cui lui ha
bisogno.
Ecco cosa
ha detto Iñárritu del
film: “Biutiful è, di nuovo, su un tema che mi ossessiona da tutta la vita e
che ossessiona il mio lavoro: è un film sulla paternità – sulla paura di perdere
un padre, di essere padre e su quel momento in cui cominci a diventare il tuo
proprio padre e i tuoi figli cominciano a diventare te. È sulla perdita –
perché alla fine noi siamo anche quello che abbiamo perso." (questa stessa
frase chiudeva il primo film di Iñárritu, Amores Perros). Mi
convince.
1 commento:
Sono rimasto molto colpito dalla tua, davvero bellissima, analisi sul ruolo del padre nei film, americani in modo particolare. Il cinema statunitense, pur recitando la parte del leone per la quantità produttiva, solo recentemente ha iniziato a evidenziare il ruolo che giustamente definisci del “nuovo padre”, pur avendo spesso proposto – in ogni genere cinematografico e televisivo, dal drama al poliziesco – come protagonisti coppie divorziate e relativa prole, dipinte però come elemento naturale e non preponderante nella trama.
A cosa sia dovuta questa presenza, tralasciando volutamente ruoli di padri malati come quello di John Huston in “Chinatown (R. Polanski, 1974), o borderline e più articolati come il Kevin Spacey di “American Beauty (S. Mendes, 1999)” o il Jason Robards di “Magnolia (P.Thomas Anderson, 1999) non so dirlo con esattezza. Grazie alla tua preziosa citazione sugli studi dei modelli familiari e la Fatherless Society, posso solo supporre che tanto sia dovuto all’enorme quantità di divorzi – e alla diversa giurisprudenza statunitense e ad i processi che essa instaura, quasi paradossale e teatrale ad i nostri occhi – che si consumano sul territorio americano, al disfacimento di interi nuclei familiari nelle periferie più povere di megalopoli come New York o Chicago, così come nelle linde case a schiera con giardino dei quartieri della middle-class.
L’Hollywood massiva ama/va produrre storie sul divorzio, i conflitti e le tragedie che questo evento scatena. Il dramma al cinema e in televisione sembra essere lo strumento più efficace per educare molti americani. “Imparano” di tutto, dal fondamentalismo islamico, alle cause del conflitto medio-orientale, ai diritti del loro sistema giudiziario guardando la televisione (non si contano i serial tv che hanno come protagonisti avvocati e aule di tribunale) o andando al cinema. L’immagine del padre che ne scaturisce è quello che è stato per anni (mal)definito dai film o show televisivi, ed è una percezione distorta ed imprecisa, come se molti padri ritenessero che i loro diritti vengono automaticamente persi in un divorzio, e non credo che questo sia vero.
Non so dirti se siamo di fronte ad una svolta nel cinema, o nella cultura in generale; già a partire da “Il buio oltre la siepe (1962)” - dal bellissimo romanzo omonimo di Lee Harper – effettivamente il ruolo del padre, interpretato da Gregory Peck, così affettivo e “mammo” dei due piccoli protagonisti è tale perché la moglie è morta (pur essendo scritto da una donna, amica e consigliera di un altro grande scrittore del ‘900 come Truman Capote. Ci vorrebbero altre righe perchè il libro è sopratutto una storia sul razzismo visto dai bambini).
L’assenza della madre, per diversi motivi, ha spesso eletto, come in questo caso, il ruolo del padre a figura “eroica”, come se il ruolo della donna fosse scontato, quale simbolo dell’educazione e punto di riferimento dei figli.
Forse si devono ringraziare scrittori e sceneggiatori - da me spesso citati fino alla nausea – come John Cheever, Richard Yates, John Dos Passos, John Fante la rottura dello schema del padre “eroe” che già da mezzo secolo cercavano di ricondurre ad una visione più realistica della famiglia, dove il ruolo della donna-madre non aveva nulla di scontato, ma a cui veniva finalmente riconosciuta la figura e il ruolo chiave che spesso, banalmente, certa cultura semplificava fino alla banalizzazione.
Ho voluto, ma soprattutto potuto, soffermarmi solo sulla parte cinefila della tua osservazione sul mondo paterno e maschile, per il quale i lettori dovrebbero davvero ringraziarti.
W le Donne!
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