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di Beatrice Mele, Il Mucchio ilmucchio.it
Tutti i bambini vanno a scuola, vero; tutti gli adulti hanno un
telefono connesso ad Internet, piuttosto vero; tutti i genitori sono in
un gruppo whatsapp “di classe” probabilmente silenziato con mamme e papà
che non vedono l’ora di tornare ad ignorare, verissimo. Costretti a
frequentazioni più o meno impegnative, dalla riunione con le insegnanti
alla condivisione dell’attesa del suono della campanella fino alle feste
unadietrol’altra, ai 30/40enni con prole di oggi piace
definirsi spettatori di altrui manie in un contesto scuola-famiglia
pieno di originali/problematiche/disfunzionali personalità, le stesse
che Big Little Lies, patinata miniserie HBO in onda su Sky
Atlantic, mette in scena cogliendo l’attimo: in questa storia, un
romanzo scritto e ambientato in Australia da Liane Moriarty e per
l’occasione trapiantato a Monterey in California, è facile riconoscere
gli altri, meno se stessi.
C’è Madelaine (Reese Witherspoon), madre in controllo
equa-solidale-riformista che sembra soffrire la nuova relazione dell’ex
marito, c’è Celeste (Nicole Kidman) – bella lei, belli il marito, i
gemellini e la villa fronte mare – così perfetta da non essere
credibile, c’è Jane (Shailene Woodley), madre-single appena arrivata in
città, nuova e dunque misteriosa. C’è poi il chiacchiericcio di chi
guarda e dall’esterno giudica.
Tra case da urlo e scogliere a picco sull’oceano, i sette episodi diretti da Jean-Marc Vallée (Dallas Buyers Club) e introdotti da Cold Little Heart di Michael Kiwanuka ribadiscono che anche i ricchi piangono
e si premurano di mettere in chiaro che l’infelicità è un sistema
complesso che richiede presenza: della vittima, del suo aguzzino – i cui
ruoli capita sfumino l’uno nell’altro – e del coro che spia, così ben
descritto, ad esempio, in Libertà di Franzen.
Big Little Lies avvia i motori quando il piccolo Ziggy viene
accusato di aver messo le mani al collo di una sua compagna. Un gesto
aggressivo, forse frainteso, forse mai avvenuto, che lo confina
all’angolo e che rimesta nelle paure irrisolte degli adulti intorno. Un
incipit che, con le dovute differenze – lì era un uomo a strattonare un
bambino – ricorda il riuscito The Slap, nella sua versione australiana, dove dinamiche relazionali solo apparentemente sane venivano via via smascherate.
La violenza, tanto più prepotente nella disparità di fisicità tra i due
sessi, è inequivocabilmente un tema sensibile della serie che prevede
come The Affair un omicidio di cui fino alla fine si sa
pochissimo e che non porta nulla in più all’appeal della storia (ma
chiuderà il cerchio in maniera fin troppo tonda).
Più intrigante, seppure non inedito, è l’accento su ciò che spesso si
nasconde nell’intimità della famiglia, con la penetrazione come mezzo
attraverso il quale l’uomo si rivale di una posizione defilata, con
segreti taciuti anche agli amici più cari e condivisi con difficoltà
solo con una psicoterapeuta; ma più interessante ancora è il rapporto
tra genitori e figli, con i secondi visti come possibilità attraverso
cui riscattarsi da torti e frustazioni e con i primi sempre più fragili
nella loro capacità di essere figure di riferimento.
Così quando Madelaine organizza un evento alternativo per boicottare
il compleanno faraonico della bambina che ha accusato Ziggy, la madre
della festeggiata (Laura Dern) le giura vendetta sia per il “trauma”
procurato alla figlia sia per lo sgarbo da lei patito. In quel
frangente, così come in altri, ogni azione è esagerata, messa in atto
come dimostrazione di una supremazia nella popolarità e nella
leadership, mentre dei bambini non resta che qualche inquadratura di
sfuggita.
Big Little Lies sembra dire che l’infanzia è una faccenda da
adulti, il loro Risiko personale dove i più piccoli possono finire a
letto in anticipo per permettere ai grandi di seguire una serie tv che
parla di loro, ma in cui riconosceranno solo gli altri.
Pubblicato su Il Mucchio n. 753 – Aprile 2017
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