venerdì 7 settembre 2018

First Reformed di Paul Schrader (2017)

Ex cappellano militare, Toller è devastato dalla perdita del figlio, che lui stesso aveva incoraggiato ad arruolarsi nelle forze armate. Travagliato da un forte dissidio spirituale, la sua fede viene ulteriormente messa alla prova quando la giovane Mary e il marito Michael, ambientalista radicale, si rivolgono a lui per aiuto. Consumato dal pensiero che il mondo stia per essere distrutto da grandi e spietate corporation, complici della Chiesa in loschi traffici, Toller decide di intraprendere un’azione molto rischiosa, nella speranza di riuscire a ritrovare la fede.

Dall’oscurità alla luce, dall’umana, terrestre orizzontalità alla vertiginosa verticalità del divino. È una vera e propria dichiarazione d’intenti la prima inquadratura di First Reformed di Paul Schrader, dentro ci sono tutte le sue ossessioni, tutto il suo cinema. Un cinema mai conciliato con se stesso, né con l’umano né col divino, un cinema violento, specie in “parole, opere e omissioni”. No, non c’è niente di conciliatorio in quella lunga, splendida carrellata iniziale dal basso, c’è solo la furia dell’uomo nel lanciarsi verso Dio, anche a costo (anzi, nella malcelata speranza) di distruggersi.

Presentato in concorso a Venezia 2017, First Reformed segna il ritorno di Schrader, dopo la spassosa ma esile boutade Dog Eat Dog, ai temi che hanno attraversato tutta la sua filmografia (la fede, la superbia, la grazia) e che qui si snocciolano in un crescendo implacabile, arricchendosi con innesti inediti, fino a costituire l’amalgama di una valanga montante fatta di intuizioni teologiche, filosofiche e sensoriali, pronta a riversarsi sullo spettatore.

Protagonista del film è un ottimo Ethan Hawke, nelle vesti talari di un pastore che, abbandonato dalla moglie dopo la morte del figlio (che lui stesso aveva esortato ad arruolarsi), si ritrova ad amministrare la piccola parrocchia di First Reformed e la relativa comunità. Toller, questo il nome del religioso, ha deciso di tenere un diario (torna l’ossessione di Schrader per Robert Bresson e il suo Diario di un curato di campagna) perché non riesce più a pregare. Ogni tanto presta i suoi servigi in un’altra, ben più popolosa diocesi, che segue la dottrina nota come “Abundant Life, inneggiante alla pienezza della vita. Ma i suoi pensieri sembrano andare in tutt’altra direzione.Non solo Toller non riesce più a parlare con Dio, ma ha un serio problema con le tubature del bagno, anche lì sussiste un blocco, che va spurgato. Dopotutto, Martin Lutero non ha composto uno dei suoi inni religiosi più famosi proprio dall’abitacolo del suo gabinetto? O almeno, così dice la leggenda.Una luce di speranza si fa viva poi quando una giovane parrocchiana (Amanda Seyfried) incinta gli chiede di parlare con suo marito: un attivista ecologista che preferirebbe non mettere al mondo un figlio in un mondo che l’uomo ha da tempo condannato alla distruzione. Ma nonostante il suo intervento, il giovane uomo si suicida, e Padre Toller inizia a prendere una serie di decisioni. Il calvario è un destino, tanto vale lanciarcisi contro a tutta velocità, o comunque con un certo fragore.

Con uno script magistrale, che largo spazio offre alla parola, mentre ne mette in discussione il potere salvifico, Schrader realizza con First Reformed un film che non solo contiene tutta la sua carriera, ma ne supera la portata, amplificandone tutte le ossessioni. Da grande ammiratore di Sentieri selvaggi (in originale: The Searcher), Schrader è un “cercatore”, di conoscenza, più che di risposte. E poi, come nel più classico del western, anche in First Reformed si fa largo la possibilità di andare contro la legge – umana o divina in questo caso fa poca differenza – per una causa giusta. Tutti i grandi pensatori e teologi, in qualche misura l’hanno fatto. Compreso Lutero.

Emerge poi con particolare forza, data l’ambientazione e il ruolo rivestito dal protagonista, la questione, cara al regista, dell’etica protestante di stampo capitalista, con il relativo rifiuto di “porgere l’altra guancia” perché, come dice un ragazzo durante un gruppo d’ascolto, “i cristiani non devono per forza essere degli sfigati”.Molto meno direttamente incentrato sul cinema rispetto a The CanyonsFirst Reformed, si interroga però con forza su un problema tutto connesso al ruolo dell’autore (cinematografico o meno) quale è quello della superbia. 

È da essa in fondo che proviene ogni forma di espressione umana, dalla scrittura ai film, e ancor più protervo è proprio l’atto della preghiera poi, che si pone l’obiettivo di comunicare nientemeno che con Dio.Vero e proprio atto di fede verso il suo cinema e di devozione verso il suo attore (mai Ethan Hawke è stato trattato con tali amorevoli cure, in grado di farne emergere tutto il talento), First Reformed si pone (e ci pone) inoltre un problema fondamentale: ci avviciniamo di più al divino quando proteggiamo ciò che ci è stato affidato – la Terra, come il nostro corpo – o quando, con la superbia di accostarci al Dio del Vecchio Testamento, puntiamo a distruggerlo?La risposta è semplice e Schrader la affida alle parole della preghiera di un profeta tutto americano come Neil Young.

Pubblicato su Quinlan.it il 09/01/17 da Daria Pomponio


lunedì 19 marzo 2018

Visages villages, di Agnès Varda & JR

Tutta una vita. Che si condensa in un incontro magico, quello tra Agnès Varda e JR, l’artista francese che utilizza la tecnica del collage fotografico. 89 anni lei (90 il 30 maggio), 35 lui.Un abisso anagrafico, ma una spinta comune: la passione per le immagini in generale e soprattutto sui dispositivi per mostrarle, condividerle, esporle. L’incontro tra loro è avvenuto nel 2015. E, insieme, hanno deciso di girare un film lontano dalle città.
Visages villages. Quasi un gioco di parole. Ma anche due elementi che si fondono, che diventano indistinguibili. Un documentario on the road sulle diverse forme del guardare. Un’opera teorica potentissima ma dalla naturalezza disarmante. Gli occhi sulle cisterne sono già il segno di un movimento per cui possono essere gli oggetti stessi che guardano. Nelle fotografie ingrandite che vengono esposte come murales. Di persone vere. Dove ogni loro volto nasconde una storia. Ci sono molti modi per riprendersi e raccontarsi, oltre allo scatto frontale. Tra passato e futuro: le vecchie foto dei minatori e i selfie.
Un’autentica lezione. Fatta con una semplicità impressionante. Con un istinto per il cinema che non ha perso nulla in una carriera di oltre 60 anni della cineasta. Dove i volti hanno segnato anche il suo cinema di finzione. Come quello di Cléo dalle 5 alle 7. E il recupero anche di quegli scarti fisici della materia di Les glaneurs et la glaneuse e dei luoghi, con il ritorno sulle spiagge e il mare di Les plages d’Agnès. Con la marea che ha spazzato via le immagini. E la tempesta di vento e sabbia che sembra eliminare dall’inquadratura anche i loro corpi.
Visages/Villages. Ogni inquadratura, pur nell’appiattimento digitale, conserva lo strepitoso senso della prospettiva e l’uso del colore in chiave pittorica. Richiamato in quella folle corsa al Louvre dove JR spinge la regista in carrozzella. Con quella gioia di Bande à part di Godard. Già, Godard. L’amico, il traditore. Quello che, secondo la Varda, “ha cambiato il cinema”, il suo protagonista quasi ‘keatoniano’ con Anna Karina nel corto burlesque Les fiancés du Pont Mac Donald di cui si vede un frammento nel film. Ma anche l’uomo che oggi le tiene la porta chiusa, che le lascia un biglietto che richiama Jacques Demy dove la cineasta si commuove rabbiosamente, in un frammento di un’intensità sconvolgente. Con una complicità di JR che con lei sembra progressivamente sciogliersi, aprirle le porte della sua famiglia nell’incontro con la nonna. La videocamera sparisce. C’è leggerezza e mobilità prima. Poi, magica assenza. Lo scarto generazionale, l’amicizia (quella brutalmente negata oggi da Godard) in un’inquadratura. Lui che sale le scale di corsa, lei in modo affannato, le loro ombre sui muri.
Visages/Villages. Innanzitutto, gli occhi. Quello tagliato di Un chien andaloudi Buñuel. JR che porta sempre gli occhiali da sole. I problemi alla vista di Agnès. La sua malattia. Che si incontrano come se il cinema esistesse senza nessun dispositivo. Come tante videocamere che si moltiplicano e stanno dappertutto. Con la soggettiva sfocata di lei. E lo sguardo di JR su di lei. Dove la regista diventa sempre protagonista di collage, dipinti. Come quello della ruota rossa nel trattore. Passa tutta una vita. E ogni personaggio che incontrano mostra parte della propria esistenza. Anche guardando solo nell’obiettivo. Ghirlandaio, Raffaello, Botticelli. Con la regista che li attraversa in velocità. Ma forse vorrebbe fermarsi ed entrare dentro ogni quadro. E poi Agnès Varda. E poi (o insieme) JR. Cambiano i dispositivi. Ma ogni immagine non ha età. Soprattutto quelle di Visages villages. Così piene che ogni volta lo stacco di montaggio è una rivelazione e anche un dispiacere. Perché non si vorrebbe mai abbandonare l’immagine precedente. In un film strepitoso che non è un testamento. “Dopo ogni incontro per me è come l’ultima volta”. Ma questo cinema sembra quello della prima volta. Del 1954. Di La pointe courte. In mezzo ci sono 63 anni. Ma sembra già domani.

di Simone Emiliani, pubblicato su sentieriselvaggi.it, 14 marzo 2018

giovedì 25 gennaio 2018

2017 and Catch Fire

Paterson (Jim Jarmusch)
Arrival (Denis Villeneuve)
Frank Miller/Dave Gibbons - Una vita americana (Magic Press)
Gimme Danger (Jim Jarmusch)
Austerlitz (Sergei Loznitsa)
Clarice Lispector - Acqua viva (Adelphi)
Jackie (Pablo Larrain)
Colin Stetson - All this I do for glory
American Honey (Andrea Arnold)
Thundercat - Drunk 
Cosey Fanny Tutti - Art Sex Music (Faber&Faber)
Song To Song (Terrence Malick)
Personal Shopper (Olivier Assayas) 
Geoff Dyer - Sabbie bianche (Il Saggiatore)
The Necks - Unfold
The Leftovers (HBO - series finale)
Civiltà perduta (James Gray)
Prince and The Revolution - Purple Rain | Deluxe Expanded Edition 2017
Alice Coltrane -World Spirituality Classics 1: The Ecstatic Music of Alice Coltrane
Lcd Soundsystem - American Dream
Sonny Liew - L'Arte di Charlie Chan Hock Chye (Bao Publishing)
Twin Peaks - The Return (Showtime)
The Deuce (HBO - s.1)
madre! (Darren Aronofsky)
Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve)
The Dream Syndicate - How did I find myself here ?
Halt and Catch Fire (AMC - series finale)
Steve Coleman's Natal Eclipse - Morphogenesis
Nico, 1988 (Susanna Nicchiarelli)
Ryuichi Sakamoto - async
Lady Macbeth (William Oldroyd)
The Meyerowitz Stories (Noah Baumbach)
Dawson City - Il Tempo tra i ghiacci (Bill Morrison)
Vijay Iyer Sextet - Far from over
Good Time (Ben Safdie, Joshua Safdie)
Kevin Kelly - L'Inevitabile (Il Saggiatore)
Giorgio Falco - Ipotesi di una sconfitta (Einaudi)
Detroit (Kathryn Bigelow)
Nocturama (Bertrand Bonello)
A Ghost Story (David Lowery)
Paul Auster - 4 3 2 1 (Einaudi)
runners-up:
Silence (Martin Scorsese)
Il Ragno Rosso (Marcin Koszalka) 
Manchester By The Sea (Kenneth Lonergan)   
Les Sauteurs (M. Siebert, E. Wagner, Abou Bakar Sidibè)
Visible Cloacks - Reassemblage
Kendrick Lamar - DAMN
Logan (James Mangold)
Big Little Lies (HBO)
Cesare Basile - U Fujutu se neschi chi fa ?
Guardiani della Galassia Vol. 2 (James Gunn) 
L'infanzia di un Capo (Brady Corbet)
Moshin Hamid - Exit West (Einaudi)
The Handmaid's Tale (Hulu - s.1)
Sieranevada (Cristi Puiu)
Geoff Dyer - Un'altra formidabile giornata per mare (Einaudi)
Mauro Ermanno Giovanardi - La mia generazione
Enrico Gabrielli - Le piscine termali (Ekt Edikit)
Loveless (Andrey Zvyagintsev)
Babylon Berlin (Sky - St. 1 e 2)

Last Flag Flying di Richard Linklater (2017)

Trent’anni dopo aver servito insieme in Vietnam, l’ex medico della marina Larry “Doc” Shepherd incontra di nuovo i suoi compagni, l’ex Marine Sal Nealon e il Reverendo Richard Mueller, per dare degna sepoltura al figlio di Doc, un giovane marine rimasto ucciso nella guerra in Iraq. Con l’aiuto dei suoi vecchi amici, Doc intraprende un viaggio verso la East Coast per riportare il figlio a casa. Nel tragitto, i tre ricordano il loro passato componendo un mosaico di memorie comuni e riflessioni sul passare del tempo.


Non è ancora prevista una data di uscita in Italia

Per quanto possa sembrare paradossale, Last Flag Flying sembra una revisione del tracciato narrativo edificato trenta anni fa da John Hughes con Un biglietto in due. Nel 1987 la strana coppia Steve Martin/John Candy attraversava gli Stati Uniti passando da un mezzo di locomozione all’altro e imparava a conoscersi, a ri-conoscersi e a provare sentimenti sperduti nell’etica yuppie quali empatia, affetto, consapevolezza di classe; oggi Richard Linklater torna alla regia per raccontare l’incontro nel 2003 di tre ex commilitoni, fermi alla memoria del tempo passato insieme sotto le armi, in Vietnam: uno di loro, il più giovane, ha ricevuto la notizia della morte dell’unico figlio in Iraq, e vuole il conforto di quelli che un tempo erano i suoi fratelli più cari per vivere il lutto fino alla sepoltura, nel mausoleo per e forze armate di Arlington, in Virginia. Hughes raccontava il disperato viaggio per raggiungere in tempo la cena del Ringraziamento, passando da New York al Kansas, dal Missouri a Chicago: l’America profonda, quella dei redneck che consegnarono la nazione a Reagan e più recentemente a Donald Trump. Il viaggio di Larry Shepherd – chiamato Doc dagli amici – con Salvatore e Mueller, diventato negli anni predicatore battista, si muove invece tutto sulla costa est, dalla Norfolk in cui Sal gestisce uno scalcinato pub senza troppi avventori fino alla già citata Arlington, per poi passare dal Delaware, New York e Boston fino al New Hampshire. Il tentativo è dunque quello di tracciare una topografia dell’America ancora ferita dall’attentato alle Twin Towers e immerso fino al collo nel conflitto armato in Iraq: nel clima pre-natalizio arriva la notizia dell’arresto di Saddam Hussein, capo indiscusso di una nazione che si rifugia in un buco di ragno per salvarsi, come commenta con disprezzo ma non poca mestizia Sal.

Richard Linklater, e dopo diciannove lungometraggi diretti sarebbe giunto il momento di riconoscerlo al di là di ogni dubbio, è uno dei principali cantori contemporanei degli States: come tutti i veri cantori non è mai agiografico, non si lascia condurre per mano dalla retorica e non si limita mai a credere alla “versione ufficiale”. Ed è proprio sul tema della verità negata, della necessità o meno di ricorrere alla bugia, che Last Flag Flying gioca le sue carte: da un lato un governo che mente spudoratamente ai propri cittadini, inventando prove per poter giustificare una guerra, guerra in cui verranno mandati a morire i figli delle classi meno abbienti, ovviamente. Dall’altra parte della barricata c’è però una verità che non può essere detta a cuor leggero, perché è una verità che riguarda la morte di un figlio, del migliore amico, di qualcuno che era parte integrante della vita. E una bugia può essere l’unica verità raccontabile, come testimonia la straziante sequenza che vede i tre ex commilitoni rintracciare la madre oramai anziana (e bisnonna) di un ragazzo che avevano visto morire in Vietnam tra mille dolori perché la morfina era stata finita proprio da loro, per sballarsi al punto da non capire più dove erano, in quale inferno si erano cacciati, un inferno in cui l’area posticcia dei bordelli era chiamata amichevolmente Disneyland per cercare di evadere da una realtà che nessuno avrebbe potuto reggere a lungo.

La memoria di quell’incubo è in qualche modo anche l’unica àncora di salvezza di tre uomini che non sono mai stati davvero in grado di integrarsi nel paese nel quale hanno fatto ritorno: conservano l’orgoglio per la Marina, anche se Larry è stato congedato con disonore per essersi caricato la colpa condivisa con Mueller e Sal, e conservano l’idea di un corpo che dovrebbe difendere l’America dalla minaccia nemica, prima il comunismo e poi l’islam. Ma il condizionale è d’obbligo, perché a San Diego i rossi non sono mai sbarcati, e lo stesso sta avvenendo con i popoli del medio-oriente. L’America di Last Flag Flying è un’America spaventata, traumatizzata da una guerra dopo l’altra, costretta a vivere in una paura che non ha alcuna ragion d’essere, se non per la preservazione di un organismo statale che per il resto sembra sfaldarsi sempre di più. Come già in Fast Food Nation e a ben vedere in Boyhood, Linklater si interroga anche sul concetto stesso di patria, sul valore che un termine simile può acquistare a seconda delle diverse storie personali e delle diverse sensibilità. Tutti in Last Flag Flying amano in maniera viscerale gli States, ma di volta in volta il corpo di questi States si fa diverso, mutevole, come un profilo che si cerca di disegnare a mente, e si ha davvero chiaro solo quando si chiudono gli occhi: l’America di Sal – lo stesso nome del Sal Paradise/Kerouac di On the Road – è ancorata a ideali che sono stati smentiti da troppi corpi, da troppi cadaveri con il volto sfigurato come il ragazzo di Larry; quella di Mueller è rinchiusa nel piccolo e forse anche pacifico mondo della sua chiesa, e della sua famiglia devota e religiosa; è Doc a essere il più sfiduciato e indifferente, scioccato dalla perdita della moglie per cancro e solo pochi mesi dopo del figlio sul campo di battaglia. Anzi, del figlio inevitabilmente eroe (come altro si potrebbe giustificare una guerra, altrimenti?) ma in realtà morto per una fucilata alla nuca mentre andava a comprare un po’ di coca per i suoi amici.

In un film costruito come un piccolo miracoloso puzzle di dialogo in dialogo, Linklater ha la fortuna di potersi affidare a un trio d’attori in forma smagliante, con un trattenuto e dolorosissimo Steve Carell a spadroneggiare la scena: attraverso loro, e lo script scritto dal regista insieme a Darryl Ponicsan (di quest’ultimo dopotutto il materiale di partenza, un romanzo pubblicato nel 2005: non è la prima volta che il novellista si “ricicla” nelle vesti di sceneggiatore, visto che nel 1973 scrisse per Mark Rydell Un grande amore da 50 dollari), prendono vita tre psicologie tutt’altro che semplificate o banali, complesse, costruite a strati come le diverse esistenze che hanno affrontano nei loro decenni sulla Terra. Uomini in fuga da loro stessi, prima di tutto, fuori dal tempo: gli sketch che riguardano la scoperta della telefonia mobile non solo non sono fini a loro stessi, ma tranciano la realtà in due metà, ponendo i tre nella zona più oscura, liminare, sconfinata – nel senso di fuori dai confini. Per quanto siano i primi a non esserne consapevoli, Sal Doc e Mueller sono tre figure borderline, tre reietti che non hanno più nulla tra le mani: gli affetti, anche quelli, gli vengono strappati via.

Il loro ostinato viaggio contro la volontà dell’esercito – che vorrebbe il cadavere del figlio di Larry sepolto con tutti gli onori del caso ad Arlington, in quel cimitero bianco come la colomba della pace e privo di ombreggiature di qualsiasi tipo – è una forma di resistenza che ha il sapore del tempo andato, e che possiede un furore classico che lo pone in ogni modo fuori dal moderno, dall’odierno, da contemporaneo. Dopo aver narrato generazioni che ambivano ancora a un sogno da poter rendere materiale (ma non è certo un caso che Dazed and Confused e Everybody Wants Some!! siano entrambi ambientati nel passato), Linklater racconta coloro che possono solo volgere indietro lo sguardo e cercare di capire dove si è interrotto quel viaggio che li avrebbe dovuti condurre a quel maledetto sogno, diventato sempre più un incubo. Lo fa con un tono crepuscolare e ironico, in grado di penetrare in profondità nello spettatore e condurlo per mano, con la nettezza e la pulizia di un tracciato lineare, privo di sbavature, brillante e dominato da un’intelligenza non comune. Sui titoli di coda un altro mesto edificatore di sogni, Bob Dylan, canta: «Well my sense of humanity has gone down the drain, behind every beautiful thing there’s been some kind of pain; She wrote me a letter and she wrote it so kind, She put down in writing what was in her mind. I just don’t see why I should even care… It’s not dark yet, but it’s getting there». Anche l’umanità dei tre protagonisti di Last Flag Flying è anno dopo anno scivolata nella fogna, e se da quella fogna possono di nuovo uscire è solo contando su quella che un tempo, mentre i proiettili volavano sulla loro testa, poteva essere chiamata “una vera amicizia”. Quella che ti fa prendere la macchina per viaggiare insieme a un uomo che non vedi da oltre trenta anni, che ti fa pentire dei tuoi sbagli, che ti fa indossare un’uniforme che avevi dimenticato nell’armadio. E che te la fa indossare sgualcita, come fa Sal, perché l’ordine geometrico e impeccabile è dei rituali. Rituali vuoti, privi dell’uomo. Bare viventi, simili a quelle che a migliaia riportano indietro cadaveri di ragazzi morti – chissà perché, chissà per cosa – dall’altra parte del mondo.

Pubblicato su quinlan.it il 29/10/2017 da Raffaele Meale

giovedì 29 giugno 2017

Civiltà Perduta (The Lost City of Z) di James Gray

http://www.sentieriselvaggi.it/civilta-perduta-di-james-gray/

Non è uno di noi, ma non è nemmeno dei loro: che ne facciamo di lui?”, si chiede il capo indio al cospetto dell’esploratore Fawcett, forse il personaggio tra tutti quelli dipinti da James Gray nella sua manciata di film che più abissalmente esplicita il problema centrale del desiderio di appartenenza alla base della poetica del cineasta – se si potesse essere un indiano, subito pronto, esordiva Kafka: se si potesse esserlo, diventare cittadino di Z pur proveniendo da A, allora che fine farebbero le tue radici, le tracce che ti sei lasciato dietro, ad aspettarti? Vanishing Act. Appartenenza, per forza di cose, vuol dire sangue del proprio sangue, paternità: si, esatto, un altro grande film di padri, figli e fratelli, di dedizione e di scelte d’amore. Gray mette l’avventura tra parentesi, andando incontro all’ambizione disumana di inquadrare l’infilmabile, mapparlo, disegnarne i contorni precisi e la strada, perchè più dell’ossessione per l’impresa straordinaria, la spedizione fino alla fine del mondo, quello che importa è poter rivisitare il desiderio che ti tiene sveglio di notte, tornare ancora e ancora (a Manderley) a quella visione originaria e purissima. Trasformare il cinema e il luogo del classico in una dimensione dentro cui precipitare ciclicamente come al cospetto di una parete dipinta e preda di un attacco di sindrome di Stendhal.
Ecco, James Gray soffre con ogni evidenza di sindrome di Stendhal nei confronti del cinema, e quando hai una malattia, perdere i sensi e la coscienza non diventa più un istante straordinario, da raccontare con i toni epici e gonfi dell’intrattenimento di genere seppur virato d’autorialità, ma le traveggole entrano a far parte della tua quotidianità, elementi dell’ordine delle cose. Il miracolo più grande di Civiltà perduta, già accennato nel precedente The Immigrant che racchiudeva tutta la storia di New York vista da sotto un ponticello anonimo di Central Park, è questa andatura stranissima, questo racconto sospeso di un’irrequietezza con cui fare i conti per tutta una vita: non un eroe titanico che compie un’impresa straordinaria, ma un padre di famiglia (“ho moglie e figli”, non fa che ripetere Fawcett alla sua squadra, davanti ai pericoli della giungla) che crede nell’esercizio ritornante della propria missione, un viaggio in Amazzonia e poi un altro, e poi un altro ancora, e in mezzo la guerra, la trincea, il fronte.
Sienna Miller, personaggio abbacinante di moglie e madre, non si sorprende più di tanto quando suo figlio dichiara la decisione di seguire il padre per un’ultima spedizione alla ricerca della città d’oro narrata dai conquistadores: capisce subito che si tratta di un vincolo di famiglia, sacro e inviolabile, impossibile da spezzare.
Non siamo destinati a morire, afferma Fawcett, ed è una possessione che finisce per investire tutte le persone che ama, come gli è stato predetto da una cartomante durante la guerra, in una delle sequenze-chiave, che svelano come per Gray il sogno, il miraggio siano totalmente interiori. La città non può essere visualizzata neanche dal cinema, sullo schermo non appare mai se non intravista alle spalle del protagonista e della fattucchiera, e poi nello specchio in cui si perde la donna amata, portale d’entrata per la versione leggendaria della Storia, quella che appartiene a suo marito e alla sua famiglia, nell’ennesimo finale di fantasmi, nuovamente da mozzare il fiato nella precisa tradizione dell’autore.
Le armi e le potenzialità del cinema allora per Gray sopravvivono davvero come interruzione, digressione, lato oscuro della luna (matter of fact it’s all dark), isola non trovata ma bella piu’ di tutte, che aumenta familiarità e riconoscibilità proprio rimettendo in circolo canoni, immaginari, stili e riferimenti (d’accordo Coppola, ma l’apertura è innegabilmente ciminiana, e in ogni caso la cocciutaggine del progetto, totalmente impossibile da veicolare sul mercato, ancora una volta accomuna Gray a questi due autori-suicida di film che non sembrano volersi mai chiudere, assumere una forma definitiva: anche di Civiltà perduta percepisci in ogni istante la possibilità di mille montaggi alternativi, director’s cut con scene diverse, tagliate aggiunte o allungate…). Con l’intento lucidissimo di riaffermare “siamo gia’ stati qui”, qualcuno ci è già passato. 
Amare il cinema di James Gray significa perciò condividere con lui e con i suoi personaggi la luce incommensurabile e indescrivibile che ti colpisce ogni volta che ti rendi di nuovo conto che l’entrata per un giro alla ricerca della Citta’ di Z è sempre aperta, ancora li, davanti (e dentro) ai nostri occhi. Farsi divorare dal sogno, per essere liberati dalla condanna.
di Sergio Sozzo, pubblicato su sentieriselvaggi.it il 22/06/2017

venerdì 14 aprile 2017

Personal Shopper (2016) di Olivier Assayas










 

http://quinlan.it/2016/05/17/personal-shopper/

Maureen, ventisettenne, ha un lavoro che detesta: è una personal shopper, si occupa del guardaroba di una celebrità dei media. Non ha trovato nulla di meglio per potersi permettere un affitto a Parigi. E aspetta. Aspetta un segno dallo spirito del fratello gemello, Lewis, morto pochi mesi prima. Fino a quel momento, la sua vita resterà sospesa.
C’è un’immagine materiale che prende vita sullo schermo all’inizio di Personal Shopper, ed è quella della giovane e bella Maureen, medium che per riuscire a permettersi l’onerosa Parigi accetta di lavorare come personal shopper per una celebrità; l’immagine è quella di Maureen che, rimasta sola nella grande magione oramai disabitata in cui viveva il fratello gemello morto per crisi cardiaca pochi mesi prima, si aggira per le stanze. L’intero set sembra svanire nel buio e nell’ombra, solo Maureen resta sempre al centro dell’inquadratura, unico elemento vivo della scena, unico elemento mobile a parte la macchina da presa, che la segue con la steadycam. Basta la prima sequenza ad Assayas per informare lo spettatore: in una storia in cui si cerca disperatamente un contatto con l’immateriale e l’ectoplasmatico, Kristen Stewart è il punto di riferimento dello spettatore. Rimarrà l’unico: Parigi appare come un guscio di lumaca, vuoto ma ancora rumoroso, quasi fastidioso; il treno che la porterà a Londra (per fare shopping, ovviamente) non è da meno, così come sono privi di anima gli alberghi in cui uno sconosciuto che la tampina al cellulare – dimostrando di saper non poche cose su di lei – la invita a raggiungerlo. Maureen cerca il “suo” fantasma, quello di un gemello morto per uno scompenso cardiovascolare che minaccia anche la qualità della vita della ragazza; lui gli aveva promesso che se ci fosse stato un qualcosa dopo la morte sarebbe tornato indietro per darle un segno della sua presenza.
Alla ricerca di questo segno Maureen si imbatte in spiriti privi di pace e violenti, e in persone fisiche forse altrettanto prive di pace. Chi è che la perseguita al telefono?

Le uniche forme tangibili che Assayas mette a disposizione della sua protagonista sono gli abiti, le borse e le scarpe che deve quotidianamente andare ad acquistare nelle più rinomate boutique per assecondare il “vizio” della sua datrice di lavoro. Non c’è relazione umana “reale” nella vita di Maureen: via skype quella con il fidanzato – forse – Gary, che si trova per lavoro in Oman, attraverso whatsup quella con colui (o colei) che le manda messaggi, e che è l’unico a riuscire a cogliere l’aspetto dominante della ragazza. Ha paura dei fantasmi, Maureen, e li teme perché in realtà li desidera; e li desidera perché sono proibiti (inatti alla vita). Lo stesso motivo per cui la ragazza continua a lavorare per Kyra: non per una soddisfazione economica – che potrebbe probabilmente trovare anche altrove –, ma per la paura di poter desiderare qualcosa che le è proibito, come gli abiti dei grandi stilisti che, da principio riluttante e poi senza più troppe remore, prova prima di avallarne l’acquisto.
È il suo essere ancora carne e sangue a rappresentare lo scarto rispetto al mondo che la circonda. Lei è tangibile, è ancora davvero un medium: Kyra, che è parte dei media, è ancora sola apparenza, immagine sfuggente di un desiderio inappagabile, e inappagato. Quello di apparire ed essere a una volta sola. Con Personal Shopper Olivier Assayas propone un passaggio ulteriore al proprio cinema, trasportando la questione del campo/fuori campo e della “sparizione” in territori direttamente collegabili al genere. Tra il thriller e l’horror, Personal Shopper prosegue lo studio del cinema come ultima arma possibile per trovare un punto di contatto tra l’umano e ciò che non è visibile agli occhi – fossero acnhe solo quelli degli spettatori.

Ma, soprattutto, Assayas compone un poema oscuro e a tratti barbarico per il corpo della Stewart, in moto(rino) e immobile, nudo e vestito, centro di quell’inquadratura che non teme l’horror vacui ma si aggrappa in ogni caso all’unico elemento vivo, inseguendolo e a volte superandolo. Lo sguardo della camera brama Maureen così come lei brama quei vestiti che non le appartengono; lo sguardo della camera teme Maureen così come lei teme quegli antri dalle grandi stanze in cui si agitano spettri reali e immaginari; lo sguardo della camera spia Maureen così come lei cerca di trovare una verità in quei messaggi che arrivano, sempre più personali e inquietanti.
Accolto da bordate di fischi alle proiezioni stampa di Cannes (i fantasmi sulla Croisette portano con loro sempre fastidiosi risolini autocompiaciuti; basti pensare al bellissimo La frontière de l’aube di Philippe Garrel), Personal Shopper è un’opera teorica eppur carnale, umana e fantasmatica. Insieme a Paterson di Jim Jarmusch, fino a questo momento il titolo migliore del concorso del 2016.




 

giovedì 6 aprile 2017

Big Little Lies - I segreti degli altri (HBO serial)

http://ilmucchio.it/articoli/cinema-tv/big-little-lies/
di Beatrice Mele, Il Mucchio  ilmucchio.it










Tutti i bambini vanno a scuola, vero; tutti gli adulti hanno un telefono connesso ad Internet, piuttosto vero; tutti i genitori sono in un gruppo whatsapp “di classe” probabilmente silenziato con mamme e papà che non vedono l’ora di tornare ad ignorare, verissimo. Costretti a frequentazioni più o meno impegnative, dalla riunione con le insegnanti alla condivisione dell’attesa del suono della campanella fino alle feste unadietrol’altra, ai 30/40enni con prole di oggi piace definirsi spettatori di altrui manie in un contesto scuola-famiglia pieno di originali/problematiche/disfunzionali personalità, le stesse che Big Little Lies, patinata miniserie HBO in onda su Sky Atlantic, mette in scena cogliendo l’attimo: in questa storia, un romanzo scritto e ambientato in Australia da Liane Moriarty e per l’occasione trapiantato a Monterey in California, è facile riconoscere gli altri, meno se stessi.
C’è Madelaine (Reese Witherspoon), madre in controllo equa-solidale-riformista che sembra soffrire la nuova relazione dell’ex marito, c’è Celeste (Nicole Kidman) – bella lei, belli il marito, i gemellini e la villa fronte mare – così perfetta da non essere credibile, c’è Jane (Shailene Woodley), madre-single appena arrivata in città, nuova e dunque misteriosa. C’è poi il chiacchiericcio di chi guarda e dall’esterno giudica.
Tra case da urlo e scogliere a picco sull’oceano, i sette episodi diretti da Jean-Marc Vallée (Dallas Buyers Club) e introdotti da Cold Little Heart di Michael Kiwanuka ribadiscono che anche i ricchi piangono e si premurano di mettere in chiaro che l’infelicità è un sistema complesso che richiede presenza: della vittima, del suo aguzzino – i cui ruoli capita sfumino l’uno nell’altro – e del coro che spia, così ben descritto, ad esempio, in Libertà di Franzen.
Big Little Lies avvia i motori quando il piccolo Ziggy viene accusato di aver messo le mani al collo di una sua compagna. Un gesto aggressivo, forse frainteso, forse mai avvenuto, che lo confina all’angolo e che rimesta nelle paure irrisolte degli adulti intorno. Un incipit che, con le dovute differenze – lì era un uomo a strattonare un bambino – ricorda il riuscito The Slap, nella sua versione australiana, dove dinamiche relazionali solo apparentemente sane venivano via via smascherate.
La violenza, tanto più prepotente nella disparità di fisicità tra i due sessi, è inequivocabilmente un tema sensibile della serie che prevede come The Affair un omicidio di cui fino alla fine si sa pochissimo e che non porta nulla in più all’appeal della storia (ma chiuderà il cerchio in maniera fin troppo tonda).
Più intrigante, seppure non inedito, è l’accento su ciò che spesso si nasconde nell’intimità della famiglia, con la penetrazione come mezzo attraverso il quale l’uomo si rivale di una posizione defilata, con segreti taciuti anche agli amici più cari e condivisi con difficoltà solo con una psicoterapeuta; ma più interessante ancora è il rapporto tra genitori e figli, con i secondi visti come possibilità attraverso cui riscattarsi da torti e frustazioni e con i primi sempre più fragili nella loro capacità di essere figure di riferimento.
Così quando Madelaine organizza un evento alternativo per boicottare il compleanno faraonico della bambina che ha accusato Ziggy, la madre della festeggiata (Laura Dern) le giura vendetta sia per il “trauma” procurato alla figlia sia per lo sgarbo da lei patito. In quel frangente, così come in altri, ogni azione è esagerata, messa in atto come dimostrazione di una supremazia nella popolarità e nella leadership, mentre dei bambini non resta che qualche inquadratura di sfuggita.
Big Little Lies sembra dire che l’infanzia è una faccenda da adulti, il loro Risiko personale dove i più piccoli possono finire a letto in anticipo per permettere ai grandi di seguire una serie tv che parla di loro, ma in cui riconosceranno solo gli altri.

Pubblicato su Il Mucchio n. 753 – Aprile 2017

lunedì 23 gennaio 2017

Riflessioni su Paterson di J. Jarmusch


Mentre lo guardavo pensavo fosse una storia minimalista, fatta di piccole cose, silenzi, sospensioni.
A ripensarci invece lo trovo un film di peso e che dice grosse cose.
Importanti.
Poetico, sicuramente, ma anche in qualche modo assertivo.
Forse più per le cose che non mostra e che non dice. Quelle cui siamo abituati, quelle che pensiamo debbano esserci e invece non ci sono. 
I protagonisti sono due giovani. Non sognano il successo, non cercano di entrare in un’idea di felicità non loro. Sono sé stessi, vivono in modo semplice, stanno bene, non recitano ruoli.
Sono onesti, sinceri, condividano la vita, non se la raccontano.
Sognano e vivono, guidano il bus e scrivono poesie, decorano la casa e  aspettano un chitarra.
Dormono abbracciati, ma non devono esibire le loro scopate. La televisione è sempre spenta. La casa è semplice, in un posto anonimo, ma si veste della luce della sera e del mattino non meno di altri luoghi.
Nulla è altisonante o ridondante per paura del silenzio. Il silenzio va bene.
In tutto questo non c’è l’ambizione, la carriera, il peso del sistema, i soldi come misura della propria affermazione,  l’immagine di sé come un prodotto da vendere,  l’uso di un linguaggio forte ma vuoto, l’idea di sconfitta e di successo legata a questi falsi valori, il male di non essere perfetti.
Non tutte quelle cose che pare debbano esserci sempre, nei film come nella vita.
Posso dire che tutto questo è un discorso dannatamente politico?
Non la politica cui siamo abituati, non il teatrino dei contrapposti battibecchi in cui spesso anche noi cadiamo.
Ma la politica che facciamo ogni momento con le nostre vite.
Ecco un film poetico, ma anche politico. Anticapitalista, più di tante parole che ho sentito negli anni.

Edoardo Badano

lunedì 9 gennaio 2017

2016 (★)

Carol (Todd Haynes)
David Bowie - Blackstar
American Crime (ABC - st. 2)
Mistress America (Noah Baumbach)
Fuocoammare (Gianfranco Rosi)
Il Club (Pablo Larrain)
Under The Sun (Vitalij Manskij)
Tortoise - The Catastrophist
Weekend (Andrew Haigh)
Vijay Iyer & Wadada Leo Smith - A Cosmic Rhythm With Each Stroke
Al di là delle montagne (Zhang-Ke Jia)
The Invitation (Karyn Kusama)
                                 
Paul Mason - Postcapitalismo (Il Saggiatore)
Vinyl (HBO - st.1)
Daniel Clowes - Patience (Bao Publishing) 
The Witch (Robert Eggers)
Laurence anyways (Xavier Dolan)
Kim Gordon - Girl in a band (Minimum Fax)
Tutti vogliono qualcosa (Richard Linklater) 
V.A. - Boombox/Early Indipendent Hip Hop 1979-82
The Night Of (HBO)
Kent Aruf - Crepuscolo (NNE)
The Assassin (Hou Hsiao-hsien)
Halt and Catch Fire (AMC - st. 3)
Nick Cave - Skeleton Tree 
Barry Miles - Io sono Burroughs (Il Saggiatore)
Neruda (Pablo Larrain)
A Tribe Called Quest - We got it from here
Elle (Paul Verhoeven)
Percival Everett - In un palmo d'acqua (Nutrimenti)
Spira Mirabilis (Martina Parenti, Massimo D'Anolfi) 
Rectify (SundanceTv, 4 st.)
Jeff Parker - The New Breed 

last but not least:
Billions (Showtime-st.1)
Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti) 
Jules Feiffer - Kill my mother (Rizzoli Lizard) 
Beyoncè - Lemonade
Giordano Meacci - Il cinghiale che uccise Liberty Valance (Minimum Fax)
Un padre una figlia (Cristian Mungiu)
Frantz (François Ozon)
Indivisibili (E. De Angelis)
Bill Evans - Some Other Time, The Lost Session
Selene Pascarella - Tabloid Inferno (Ed. Alegre)
Train to Busan (Yeon Sang-ho)
Don DeLillo - Zero K (Einaudi)
Paolo Conte - Amazing Game 
E' solo la fine del mondo (X. Dolan)