martedì 30 novembre 2021

IN THE EARTH di Ben Wheatley (2021)


Durante una pandemia virale i due ricercatori Martin e Alma si avventurano in una foresta nei dintorni di Bristol per indagare sulla recente scomparsa di alcuni colleghi, tra i quali la dottoressa Olivia Wendle, ex-compagna di Martin. Aggrediti di notte da sconosciuti, Martin e Alma incontrano poi Zach, abbrutito dalla vita nei boschi, che si offre di aiutare Martin per una ferita al piede che si è procurato…

Scienza e anti-scienza. In epoca di pandemia è diventato uno dei temi più ricorrenti di qualsiasi dibattito intorno ai destini della cultura mondiale, in modo particolare di quella occidentale, da secoli robustamente radicata in un approccio razionalistico. In questo senso Ben Wheatley propone con la sua ultima fatica, In the Earth, una riflessione che dagli apparenti confini del cinema horror di genere si addentra verso territori filosofici. Innanzitutto, la scelta dell’autore britannico è distante dall’horror canonico dal punto di vista realizzativo ed estetico. Wheatley non si affida infatti alla sovrabbondanza e prepotenza degli effetti speciali, bensì colloca tutta la sua vicenda nelle cornici di un orrore reale, fatto di location dal vero e di corpi che con estrema verosimiglianza (ovviamente frutto di un artificio, ma ben occultato) si lacerano e sono lacerati. La realizzazione di In the Earth è avvenuta in circostanze eccezionali. Durante il lockdown Wheatley ha infatti deciso di intraprendere in segreto le riprese corsare del suo film, trovandosi dunque costretto a limitare numero d’attori, troupe e giorni dedicati agli shot. In tutto le riprese si sono svolte in un paio di settimane; poi ovviamente vi è stata un’evidente e laboriosa fase di postproduzione, ma il risultato finale è comunque sorprendente. Al fondo, Wheatley sembra rafforzato nel suo intento dalla potenza del soggetto al quale si è applicato. Innanzitutto In the Earth prende le mosse dalla pandemia in atto. Come qua e là sta accadendo in varie opere cinematografiche, a poco a poco il tema pandemico si è avviato a occupare un proprio spazio d’espressione, e in tal senso Wheatley mette al centro del proprio racconto una coppia di ricercatori che dopo il lockdown britannico si avventurano alla ricerca di colleghi scomparsi in una foresta nei pressi di Bristol. È una riscoperta della natura, in tutti i sensi. Non si tratta soltanto di passare notti sotto una tenda, all’aria aperta, dopo aver vissuto l’esperienza della segregazione in casa. Si tratta, anche e soprattutto, di ritrovarsi in pieno scontro con una natura decisamente ostile e ominosa, e di riscoprire il rapporto Uomo-Natura come fondato su relazioni ancestrali e relativi riti. Si tratta di ritornare a contatto con un lontano legame inestricabile in cui la Natura è affamata e schiavizza l’Uomo richiedendo atti e procedimenti anche violenti per garantirsi pace, floridezza e clemenza.

In qualche modo, il percorso intrapreso dai protagonisti Martin e Alma è una scala discendente (in ottica razionalistica) o ascendente (in ottica magico-ritualistica) verso primitive strutture di pensiero che mostrano la Natura in tutta la sua intensa carica di aggressività. Sorta di aggiornamento di Un tranquillo weekend di paura (John Boorman, 1972) con l’aggiunta dell’elemento fantastico/ancestrale, In the Earth si delinea dunque come il racconto di una profonda crisi che da individuale può espandersi in ottica socio-antropologica. Forzando la mano dell’interpretazione (ma neanche troppo, in fondo), dietro al calvario di Martin e Alma è facile veder fluttuare il modello scientifico che ha dilagato nella gestione mondiale della pandemia colto nel suo momento di massima fiducia, efficacia e splendore e al contempo sul ciglio del baratro di una profondissima crisi. La risposta è sempre meno sufficiente delle aspettative. Lo scacco e la crisi sono dovuti alle proporzioni del fenomeno da combattere. Martin e Alma si scontrano e vivono sulla propria pelle (di più, e più letteralmente, non si potrebbe…) il conflitto con il fenomeno illeggibile, restandone frastornati e poi stritolati. C’è chi ci è rimasto già sotto, dedicandosi a orrendi riti condotti sul corpo di vittime sacrificali. C’è chi (almeno apparentemente) trepida sul filo del rasoio tra razionalismo scientifico e stupore irrazionale. La scienza è comunque in scacco, travolta dal fenomeno, che nella sua insostenibile violenza o faticosa leggibilità impedisce anche la possibilità stessa della risposta. 

Film complesso, profondamente stratificato, In the Earth conserva anche una superficie di pura e semplice meraviglia audiovisiva dagli esiti davvero sorprendenti e di rara efficacia. Se Ben Wheatley percorre strade verso una sorta di realismo filosofico intorno all’horror, d’altro canto i poco frequenti effetti speciali sono utilizzati con stupefacente sapienza. Ben lontano dall’idea dell’effetto speciale che giustifica se stesso, finalizzato esclusivamente alla meraviglia dell’occhio fino alla nausea e all’assopimento, l’autore connette intensamente lo stupore audiovisivo a uno stringente percorso di senso. Pensiamo in particolare alle terrificanti e caleidoscopiche sequenze finali, dove l’orrore si tramuta in puro fastidio percettivo, conseguito tramite l’uso sagacemente combinato di suoni e colori. D’altro canto, nel più puro spirito del torture movie, In the Earth propone alcune sequenze tra le più rabbrividenti viste di recente al cinema. Tra amputazioni, cauterizzazioni, tagli e ricuciture di varia natura, il corpo del malcapitato Martin si tramuta in una letterale mappa sacrificale dove l’orrore si carica di toni ai limiti dell’intollerabile proprio perché calato in un contesto di realistica credibilità. Intorno al piede martoriato di Martin, per dire, non c’è alcun sovrabbondante effetto speciale a rendere iperrealistica, e paradossalmente irrealistica, l’atmosfera generale e quello specifico brano di racconto. Accade lo stesso con la riscoperta di feroci armi rudimentali, rispolverate per angoscianti cacce all’uomo nella foresta – pensiamo all’inseguimento con arco e frecce. È anche forte la componente ironica, grazie alla quale si è in grado di sostenere una sequela di torture riconvertendo il ribrezzo in una cinica risata liberatoria.

È chiaro a tutti che la sospensione dell’incredulità richiesta è altissima. In the Earth propone una sfida alla quale si può scegliere di stare o non stare. Passato al vaglio di una visione che cerca logica e coerenza ad ogni costo, il film di Wheatley può essere smontato pezzo per pezzo (e fatto a pezzi) in un secondo. Perché Martin e Alma, quando possono, non scappano? Possono davvero fidarsi così tanto del loro ultimo incontro fatto nel bosco? Possibile che siano così ingenui? E la passione per la ricerca scientifica davvero può giustificare tutto fino a questo punto, visto che Martin rimane nella foresta con un piede semi-amputato e un paio di cuciture sulle braccia? Domande che è meglio non farsi, che non bisogna farsi. Perché lo spettacolo proposto da Wheatley, ancorché ammorbidito da sottili notazioni ironiche e autoironiche, è più intelligente dei nostri insormontabili scrupoli di realismo e credibilità.

Girando in pochi giorni e con mezzi limitati, Ben Wheatley è dunque capace di proporre un’opera caratterizzata da una frastornante alternanza tra realismo e barocco. In the Earth è il prodotto di un immaginario e di uno sguardo cinematografico decisamente originali, che possono anche respingere l’adesione dello spettatore. Prendere o lasciare. Resta comunque il dato di un cinema che dal genere affonda verso stratificate riflessioni. Cinema che affonda nella terra, nelle radici di un lontano rapporto preculturale tra Uomo e Natura. Scuote, incolla alla poltrona, spaventa, stordisce. Può essere respingente, ma è indubbiamente un cinema vivace. La vivacità sta nelle idee.

Pubblicato su quinlan.it il 11/01/2021, di Massimiliano Schiavoni

giovedì 21 ottobre 2021

France, di Bruno Dumont (2021)

 


France de Meurs è l’inviata-immagine di una delle principali reti televisive all-news 24 ore su 24 della Francia, comparendo dai dibattiti politici in studio fino nei reportage dalle zone di guerra in giro per il mondo. Nulla sembra in grado di contrastare la sua ascesa, finché un incidente stradale non sarà l’innesco di una serie di disastri professionali e personali. 

Per quanto possa apparire bizzarro, per approcciarsi a France di Bruno Dumont può essere utile cercare un punto di congiunzione che leghi il film alle due opere immediatamente precedenti nella filmografia del regista piccardo, vale a dire Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc e Jeanne, il dittico dedicato alla vita, alle azioni guerresche, al processo e alla morte di Giovanna d’Arco. Quel punto di incontro lo si rintraccia infatti nel pensiero di Charles Péguy, scrittore e saggista transalpino morto agli albori della Prima Guerra Mondiale appena quarantenne e pressoché dimenticato, rimosso nella memoria del mondo progressista francese anche perché considerato reazionario e conservatore. Dumont, in modo del tutto coerente alla propria speculazione filosofica, si è invece impegnato nell’analisi e nella rilettura del pensiero di Péguy, al punto che France in un primo momento si sarebbe dovuto intitolare Par ce demi-clair matin, come l’opera postuma di Péguy che Gallimard diede alle stampe nel 1952 riunendovi all’interno cinque pamphlet mai pubblicati prima, tra i quali i più noti sono senza dubbio Suite de Notre Patrie e Deuxième suite de Notre Patrie, dove l’autore sviluppa uno dei temi centrali della sua poetica, vale a dire l’assoluta eccellenza del popolo francese. Come aveva già dimostrato di saper fare nei due film dedicati alla Pulzella di Orléans, Dumont riesce a essere allo stesso tempo fedele a Péguy pur smentendone in continuazione determinate idee preconcette: la sua è una crasi tra esaltazione e confutazione, in una messa in opera dialettica del pensiero altrui che si tramuta in immagine. Se con la santa mandata al rogo l’immagine si confrontava con il tempo passato, è il presente l’unico spazio-tempo in cui può svolgersi France. “Resta solo il presente”, come dopotutto viene sentenziato. E il presente parla di un mondo occidentale – perché pur essendo lo scandaglio di una nazione, il film è anche una riflessione allargata all’intero sistema culturale europeo e nordamericano – dominato letteralmente dal sistema mediatico, unico creatore e gestore dell’immagine, e dunque del veicolo stesso del potere. “Madame France”, così tutti chiamano France de Meurs, la protagonista interpretata da una splendida Léa Seydoux (vera regina dell’edizione 2021 del Festival di Cannes, dove il film è stato presentato in concorso, visto che sulla Croisette sono passati anche The French Dispatch di Wes Anderson, Story of My Wife di Ildikó Enyedi e Tromperie di Arnaud Desplechin) è l’imperatrice della televisione d’Oltralpe, conduttrice, autrice di reportage nei luoghi più politicamente caldi del pianeta, commentatrice del panorama politico nazionale. È lei dunque “la Francia”, al punto che il film si apre con la donna che ridicolizza con la sua assistente il presidente Macron: perfino la massima carica dello Stato non può che essere un burattino, un effetto speciale nelle mani di France de Meurs. 

In un’intervista  rilasciata per Quinlan a Giampiero Raganelli nel 2018 a Locarno, dov’era premiato con il Pardo d’Onore e presentava al pubblico ticinese la serie Coincoin et les Z’inhumains, seguito ideale di P’tit Quinquin, Dumont dichiarò: «Il giornalismo in televisione è cinema, è sempre montato, mixato con suoni, dunque la televisione è tutta una fiction. La gente pensa che sia vera ma è cinema». France si sviluppa interamente attorno a questa riflessione, riassumibile in tre punti distinti: Il giornalismo in televisione è cinema, La televisione è tutta fiction e La gente pensa che sia vera. Anche i clamorosi reportage portati a termine da “Madame France” sono veri, ma la giornalista li crea e cura in ogni minimo dettaglio: l’inquadratura a riprendere il jihadista, gli immigrati posizionati sul barcone che tenta la traversata del Mediterraneo, e via discorrendo. Tutto è vero, perché tale è la condizione in cui si trovano le persone, ma è costruito, strutturato su una grammatica del racconto per immagini che è paritetica a quella cinematografica. Prima ancora di essere una giornalista France de Meurs è una regista, il linguaggio dei suoi servizi televisivi è quello del cinema, la sua è una messa in scena totale, e totalmente consapevole. Anche solo la prammatica della costruzione delle interviste, con la sua finzione del tempo contemporaneo, basterebbe a sottolineare questo aspetto, ma per l’appunto France, nel tentativo di costruire la sua personale immagine da santificare – e quindi da odiare, che la sacralizzazione contiene già al proprio interno il germe della blasfemia che la distruggerà, e si torna nuovamente a ragionare su Jeanne d’Arc – edifica pezzo per pezzo ogni singolo dettaglio della sua “cronaca”. La prassi, in una società in cui l’immagine pura non è più pensabile, non è più nemmeno ipotizzabile. 

Questa dura reprimenda nei confronti del sistema-Francia Dumont la mette in scena ricorrendo spesso al bozzetto, a quella deformazione del “vero” che è diventato film dopo film uno dei punti nevralgici della sua idea di rappresentazione della finzione. Si presta al gioco una superba Seydoux, che dimostra di sapersi muovere nei campi più disparati dell’interpretazione, e si deve necessariamente prestare al gioco anche il pubblico, perché Dumont gioca con il basso culturale utilizzandolo come elemento primario della scena. Il vero è oramai ridotto a un miserabile orpello? E allora il cinema deve avere il coraggio di spingersi ancora un passo oltre, superando di nuovo le miserie del televisivo. L’irruzione della tragedia nella quotidianità della farsa non può che essere un “incidente”, e così il regista ne mette in scena due: il primo ha il compito di mandare in crisi l’apparato filosofico della protagonista, di fronte alla quale viene svelato in maniera definitiva il volto più putrido della società – il volto degli ultimi della classe, ovviamente –, mentre il secondo serve a mandare in crisi l’immagine stessa costruita fino a quel momento. Un incidente che viene diretto da Dumont come se stesse mettendo in scena un puro action da botteghino: se si deve giocare alle regole del sistema tanto vale farlo fino in fondo, scavare fino a trovare il nucleo al centro della Terra. 

Perché l’immagine del cinema può ancora permettersi, nonostante tutto, il lusso di spingersi nella rappresentazione del vero là dove alla televisione e alla cronaca non è ancora concesso (ma forse è solo questione di tempo): la televisione può fingere la vita e renderla credibile, ma non è ancora in grado di raggelare la morte, fissando negli occhi colui che sta per dipartire. Questa riflessione teorica, questa guerra che il regista-Dumont scatena contro la regista-France (e quindi con la realtà che è costretta nuovamente a vedersela con la finzione) è anche uno degli aspetti più dinamitardi di un’opera così stratificata da poter essere letta con estrema semplicità senza accorgersi dei vari livelli sui quali si muove. France prova a scappare dalla televisione del dolore – dolore eletto a sistema dell’immagine, e quindi edulcorato – per provare finalmente, in maniera fisica e senza reti di protezione, il dolore reale. Ma questo lusso non le è forse concesso. Quel dolore lo assume su di sé la regia di Dumont, così apertamente fuori dal sistema da mandare a gambe all’aria tutto il cinema borghese progressista medio di Francia, un Paese non poi così eccellente come suggeriva un secolo or sono Charles Péguy, e in cui l’immensa violenza che passa indisturbata tra la folla si fa finta che non esista. Fingendo di essere veri, e quindi ancora vivi.

Di Raffaele Meale, pubblicato su quinlan.it il 17/07/2121

venerdì 3 settembre 2021

Il collezionista di carte, di Paul Schrader (2021)

William Tell (!) è un giocatore di carte professionista. Viaggia per le highways d’America, gira per i casinò, tra le luci ipnotiche di Atlantic City o di qualche altra città “folle” e vince a blackjack senza dare troppo nell’occhio. Ogni tanto una puntata ai tavoli da poker e il gioco è fatto. Nessun rischio inutile, nessun’ambizione da grande colpo. Una vita solitaria, da monaco praticamente. Nessun contatto, nessun legame. Dorme nei motel, dopo aver accuratamente coperto tutti i mobili per creare, così, l’ambiente più asettico e silenzioso possibile. Del resto, William ha passato otto anni in un carcere militare. Era, infatti, tra gli aguzzini di Bagram e Abu Grahib, perfettamente addestrato alla follia degli “interrogatori potenziati”, assuefatto alla droga della tortura e del sopruso. Scoppiato lo scandalo delle violenze dei soldati americani nei confronti dei prigionieri afghani, non ha avuto possibilità di cavarsela, a differenza di molti superiori istruttori, mercenari praticamente intoccabili. Ma in William non sembra esserci recriminazione o residuo d’odio. In carcere si è abituato a una vita a orologeria, si è dedicato alla lettura e ha imparato a contare le carte. Eppure il passato è un mostro da cui è impossibile fuggire, un debito accumulato nelle pieghe più profonde dell’anima. Da pagare, in un modo o nell’altro, ben oltre le pene istituite. Finché non riappare lo spettro del maggiore John Gordo (un Willem Dafoe che, come sempre, pare covare il diavolo dietro il sorriso). E un doppio incontro, con il giovane Cirk e con la giocatrice La Linda. Tutto prende, improvvisamente, un’altra forma.

Dopo l’Ernst Toller di First Reformed, Paul Schrader fa appello, di nuovo, a un nome “storico” (o meglio leggendario) per raccontare un altro personaggio ascetico, in cerca di una via di salvezza. Ma qui non si tratta di un’aspirazione cristologica alla redenzione collettiva, quanto di un’espiazione tutta personale, la necessità di una purificazione. E alla tesa, macerante sofferenza del corpo di Ethan Hawke, risponde l’apparente impassibilità di Oscar Isaac, che sembra quasi farsi opaco, imperscrutabile nei pensieri e nelle intenzioni. William si muove in maniera anonima in un mondo di apparenze scintillanti ma altrettanto grigie, rinchiuso in una specie di prigione volontaria, in un circolo (o un circo) di ripetizioni, annotazioni, conteggi e calcoli di probabilità. “È tutto bello, ma è una vita monotona”, gli dice Cirk. Ma sotto quella monotonia, avverti la tensione lacerante dello spirito, il sangue appena raggrumato di una ferita non cicatrizzata. E, soprattutto, senti l’infinita possibilità di una differenza, di una svolta inattesa ma forse predestinata, di una scelta differente. Ognuno ha la sua storia da raccontare, in fondo. Ed è una storia in cui l’avventura interiore è sempre infinitamente più complessa di quella esteriore.

Per Paul Schrader, ancora una volta, la strada morale è tortuosa e imprevedibile. Ma la sua scrittura si muove tra i dilemmi con la nitidezza di una parabola, segna il percorso con la forza inarrestabile del paradosso, mistero di ogni fede. E se il suo sguardo gioca su linee di tensione thriller, punteggiate dalla musica ossessiva di Giancarlo Vulcano, Robert Levon Been, se arriva a impazzire nella prospettiva deformata delle scene di tortura, alla fine  ritrova, sempre, la sua cristallina linearità. Fino a farsi lieve in una passeggiata di straordinaria dolcezza, in due mani che si toccano. E in un finale ancora una volta bressoniano (o forse, ormai bisognerebbe dire schraderiano). Un finale in cui il dramma sembra non esserci più. Di puro amore. La salvezza non si controlla. Segue vie ignote. Ma la senti quando la vita riprende a scorrere.

pubblicato su sentieriselvaggi.it , 2 Settembre 2021 di Aldo Spiniello


giovedì 6 maggio 2021

Superlega, anche l’industria del calcio è globale (di Antongiulio Mannoni)

 


Per qualcuno alla fine hanno vinto lo sport e i suoi ideali, ma se guardiamo ai numeri quello sulla Superlega è stato semplicemente lo scontro di due concezioni differenti dell’industria del calcio, legate alla diversa situazione materiali dei club. Se l’economia è globale e il calcio è un’industria, il piano dei superclub, oggi naufragato miseramente, potrebbe riproporsi.

La vicenda è nota: nella notte tra domenica 18 e lunedì 19 Aprile, 12 club tra i principali del calcio europeo annunciano la creazione di un proprio torneo chiamato Superlega. Un campionato privato tra 12 squadre più cinque che avranno il privilegio di essere scelte di volta in volta per accedere a questo club esclusivo i cui portavoce affermano di avere già in tasca l’impegno di altre potenze calcistiche ad aderire. Nelle 48 ore successive la notizia ha il potere di far sparire dalle prime pagine l’emergenza della pandemia, di mobilitare i massimi vertici politici europei (Macron, Merkel, Draghi, Johnson, Sanchez) in un moto comune di indignazione; di scatenare gli organi di governo del calcio a tutti i livelli nella minaccia di sanzioni, espulsioni, ritorsioni legali contro i club coinvolti; di produrre un fiume di dichiarazioni e analisi da parte di allenatori, giocatori, commentatori sportivi e opinionisti più o meno esperti su tutti i canali della comunicazione contemporanea; persino di generare mobilitazioni di piazza e manifestazioni negli stadi da parte delle tifoserie storiche soprattutto inglesi, ma anche spagnole e, in minima parte, italiane. Di conseguenza, tra retromarce imbarazzanti e scuse pubbliche di alcuni club, il progetto viene ritirato o, nell’interpretazione di alcuni, soltanto accantonato.

Interessa poco, in questa sede, entrare nelle dinamiche specifiche del mondo del pallone che hanno portato a questo scontro. Quello che è interessante approfondire è invece il significato più complessivo da un punto di vista sociale e politico, il carattere rivelatore, paradigmatico, di questa vicenda rispetto al contesto in cui è nata. Perché il calcio, e forse ormai solo il calcio, riesce ad essere un fenomeno che va ben oltre il suo significato strettamente sportivo e di gioco, arrivando a coinvolgere nelle sue vicende, come abbiamo visto, persino i massimi vertici politici europei? In fondo, nel basket esiste da vent’anni l’Eurolega, un vero e proprio campionato dei più forti e ricchi club europei basato su licenze decennali (a pagamento) e ridotti meriti sportivi. Certo, il livello di popolarità tra le due discipline è imparagonabile, ma la popolarità è più un effetto che una causa. Nel tempo, infatti, il calcio si è caricato di significati che vanno ben oltre il suo sistema di gioco e di tecniche, e anche di responsabilità che, in fondo, nemmeno gli competono. E’ uno strumento di geopolitica, una fonte economica, ha sostituito molti elementi di coesione nazionale e di identità in crisi (partiti politici, chiesa, luogo di lavoro, tradizioni locali), oltre a produrre contro e sottoculture (si pensi agli Ultras). Anche il mondo del calcio è quindi investito e vive la contraddizione che caratterizza questa epoca: il superamento delle entità nazionali e locali per effetto della globalizzazione economica e delle tecnologie della comunicazione, e la necessità di conservare o avere un’identità, un’appartenenza di cui, spesso suo malgrado, diventa interprete.

In questo senso, la vicenda della Superlega è, come dicevamo, paradigmatica. I 12 club coinvolti (e anche molti sin da subito contrari) sono da tempo squadre globalizzate e non a caso occupano (con l’eccezione del Bayern di Monaco) tutte le prime posizioni della classifica mondiale dei tifosi dominata dal Manchester United con una stima di 650 milioni di tifosi, cui seguono Barcellona con 450 milioni e Real Madrid con 350 milioni. La prima italiana è la Juventus (ottava) con 27 milioni di tifosi in tutto il mondo. Prendendo ad esempio il primo in classifica, la vendita delle sue magliette nel globo è pari a 2.850.000 pezzi all’anno.  Non è certo un caso se il disegno delle casacche delle squadre cambia ogni anno e il numero delle divise di gioco per stagione si moltiplica a dismisura. A livello proprietario, poi, questo aspetto è ancora più evidente: fondi americani e arabi, società cinesi, magnati russi hanno da tempo acquistato importanti squadre europee, molte delle quali direttamente coinvolte nell’operazione Superlega. Anche laddove il quadro legislativo e la tradizione favoriscono l’azionariato diffuso, come in Spagna e Germania, questo non è certo un antidoto alla gestione dei campionati e dei club come imprese economiche globali. In effetti, si parla ormai comunemente di “industria del calcio” e le cifre economiche in campo non smentiscono certo questa definizione. Il rapporto annuale sul calcio nel nostro paese di PricewaterhouseCoopers Italia, curiosamente a cura e con prefazione di Enrico Letta, fornisce un quadro completo dell’impatto del calcio sull’insieme dell’economia nazionale. L’impatto socio-economico generato dal professionismo calcistico, che riguarda poco più 1.300.000 persone tra calciatori, tecnici, dirigenti e arbitri, è calcolato in circa 3 miliardi di euro. L’apporto al PIL nazionale è dello 0,22%. Non una grande cifra in termini assoluti, certamente sproporzionata al peso di cui gode da un punto di vista politico e sociale questa “industria” un po’ particolare. Chi di fronte alla Superlega si è indignato, invocando una presunta violazione di chissà quale codice di onore e meritocrazia sportiva dell’attuale situazione, lo ha fatto per interesse occultando i privilegi e i favoritismi di volta in volta concessi anche della politica alle società più potenti e alla federazione che le rappresenta: la FIGC. Basti ricordare che per ripulire la sua immagine screditata dallo scandalo di “calciopoli”,  solo uno dei tanti nella sua storia, nel 2007 fu scomodato persino il giudice di mani pulite Saverio Borrelli. La spinta alla trasformazione del calcio in business ha trovato un puntuale supporto legislativo che ha permesso di mutare le società calcistiche in Spa, godendo però di vantaggi e privilegi particolari. L’indebitamento complessivo dei club di serie A nel 2019 ha sfondato i 4 miliardi di euro a fronte di un patrimonio netto aggregato delle società pari a 551 milioni di Euro (BusinessInsider030321). Una situazione catastrofica, aggravata anche dal Covid, e che però periodicamente beneficia di interventi a carico della finanza pubblica per evitare il collasso. Si va dal Decreto “salvacalcio” del Governo Berlusconi (all’epoca proprietario del Milan) fino alle misure del Decreto Rilancio del 2020, che consentono in sostanza un rinvio di pagamenti fiscali e previdenziali, la possibilità di spalmare l’indebitamento nei bilanci fino a venti anni, la sospensione dei canoni di locazione e di superficie degli impianti sportivi, ecc. Un trattamento di favore puntualmente giustificato dai governi di ogni orientamento con l’esigenza di salvaguardare un’industria fondamentale e un introito per l’erario e la previdenza di poco superiore al miliardo di euro grazie anche al contributo del prelievo fiscale sulle scommesse. La politica e la burocrazia statale si mettono a disposizione del calcio per interesse elettorale o per alimentare un circuito di corruzione legato agli enormi flussi di denaro anche pubblico legati al fenomeno del pallone. Il caso più emblematico è stato il mondiale di Italia ’90 (FattoQuotidiano080620) costato alle casse dello stato 6.000 miliardi di lire ,oggi rivalutabili in 7 miliardi di euro, e alla categoria degli edili 24 morti a causa delle deroghe alla sicurezza e alla pressione ad affrettare i tempi nei cantieri. Cantieri di opere faraoniche inutili e già demolite, o rimaste, come gli stadi frettolosamente ampliati o costruiti ex novo sulla base di previsioni di pubblico assolutamente illogiche solo per farne lievitare i costi (fino al 180% nel caso dello Stadio Olimpico di Roma), a carico delle casse comunali per tutti gli oneri di mantenimento e gestione. Un ulteriore, perfetto esempio di profitto privato a spese della finanza pubblica, dato che i ridicoli canoni che le società calcistiche pagano, spesso in ritardo, ai comuni che hanno in gestione gli stadi non compensano affatto il costo di mantenimento di questi impianti. Altri 17 milioni di euro sono stati spesi per ammodernare gli stadi che hanno ospitato i Campionati Europei under 21 nel 2019. Questo ulteriore esborso non ha affatto compensato la vetustà degli stadi italiani e la loro inadeguatezza rispetto agli standard di fruizione da parte del pubblico cui sono orientate le maggiori società di calcio internazionali. Il 93% degli stadi italiani è di proprietà pubblica e ha una età media di 63 anni, e solo il 58% di posti al coperto. Da questo punto di vista il divario con le società calcistiche del club dei 12 scissionisti, anche per le squadre italiane coinvolte nel progetto, è enorme. Gli stadi polifunzionali di ultima generazione, di proprietà e gestione dei club e non più degli enti pubblici, come lo Stamford Bridge del Chelsea, il Tottenham Hotspur Stadium, l’Allianz Arena del Bayern di Monaco, il Camp Nou del Barcellona o Santiago Barnabeu del Real Madrid, solo per fare qualche esempio, sono progettati per ospitare vari eventi tutto l’anno e rappresentano una fonte di guadagno per i club in una logica di diversificazione delle entrate.  Lo stadio più redditizio d’Europa, il Camp Nou, per esempio, nella stagione 2017-2018ha generato un introito di 144 milioni di euro. Il gigantismo architettonico degli stadi da 160.000 posti come il Maracanà brasiliano è stato sostituito da un modello esclusivo fatto di posti a sedere, hospitality, box privati, ristoranti, parcheggi sotterranei, musei, ecc., e ovviamente, biglietti sempre più cari per fare della partita e della trasferta non più un appuntamento settimanale, ma un “evento” cui assistere poche volte lasciando il resto alla visione in tv. Solo la Juventus si è avvicinata in Italia a questo modello, ma a Roma e a Milano il futuro elettorale degli attuali sindaci si gioca anche sulla risposta da dare alle squadre della città rispetto ai loro progetti di ristrutturazione di San Siro e dell’Olimpico. Né poteva mancare un provvedimento ad hoc del Governo, che con Gentiloni ha varato una norma tesa a garantire la “bancabilità” e semplificare l’iter burocratico a quelle società interessate a investire in strutture sportive.

Nonostante gli stadi, il merchandising, gli sponsor, i diritti televisivi, il botteghino, al profondo rosso di bilancio non sfugge nessuno dei top club coinvolti nella Superlega, a causa di una gestione societaria che se si confrontasse con i criteri e le regole delle imprese economiche “normali” avrebbe già determinato il fallimento e probabilmente l’incriminazione dei presidenti e degli organi amministrativi. Il loro indebitamento complessivo ammonta a 7,7 miliardi di euro, e il peggio probabilmente deve ancora arrivare, dato che si stima a causa del Covid una perdita di ricavi tra i 6 e i 7 miliardi di euro da ripartirsi tutti a carico dei vari club.

Si sa che la fonte di introito principale del calcio moderno sono i diritti televisivi sulle partite. Si stima che i diritti televisivi della Superlega, considerato un potenziale di pubblico pari a 4 miliardi di tifosi nel mondo, con i relativi abbonamenti alle pay-tv, avrebbero potuto ammontare a 10 miliardi di euro all’anno. 4-5 volte di più del valore dei diritti televisivi dell’attuale Champions League da spartirsi, inoltre, non più tra 32 squadre, ma al massimo tra 20. Senza contare le ricadute economiche su tutto il resto dell’indotto: dagli sponsor al merchandising. Un affare potenzialmente enorme sia per le società coinvolte, sia per i loro azionisti, che per la JP Morgan che contava su una redditività a due cifre del suo investimento iniziale di 3.5 miliardi di euro. L’interesse economico dei promotori dell’operazione è evidente, così come quello di quanti si sono opposti con così tanta forza e, alla fine, efficacia. In assenza del top club le attuali competizioni internazionali, così come i campionati locali se fosse andato in porto il provvedimento di espulsione dei “ribelli”, si sarebbero rapidamente svalutati agli occhi degli appassionati di calcio e, di conseguenza, anche degli sponsor e delle televisioni. Le squadre e le competizioni escluse sarebbero entrate in un circolo vizioso tra meno risorse disponibili, meno ingaggi di qualità, meno interesse praticamente senza fine con il risultato di una polarizzazione sempre maggiore tra club super ricchi e club in difficoltà.

Oltre che interessata, quindi, la levata di scudi da parte della UEFA, della FIFA (sui cui scandali e corruzione si potrebbe lungamente disquisire) e della FIGC è anche un monumento all’ipocrisia. Tra due anni, infatti, nella stessa logica della Superlega che vede nella moltiplicazione a dismisura delle partite il canale principale di aumento degli introiti per le società calcistiche, la UEFA inaugurerà una nuova formula della Champions League a 36 squadre che garantirà a ogni club partecipante un minimo di 10 partite contro le attuali 3. Inoltre, nella stagione 2021-2022 prenderà il via una terza competizione europea per club: la Conference League aperta a 184 squadre. Anche il Mondiale di Calcio nella prossima edizione passerà dalle attuali 32 nazionali a 48. In Italia, infine, nessuno mette in discussione l’allargamento del campionato a 20 squadre, la moltiplicazione dei tornei o che per raccogliere qualche soldo dalle televisioni, le ultime finali della Supercoppa italiana si sono giocate a Doha, Gedda e Riad.

La bulimia di incontri, paragonabile alla sovrapproduzione di merci, sembra essere l’unica risposta del mondo del calcio modello società per azioni globale alle sue difficoltà finanziarie. C’è da chiedersi se e per quanto questa strada per certi versi obbligata potrà funzionare o non finirà per logorare per troppa offerta e ripetitività anche l’interesse più radicato del tifoso o dell’appassionato di calcio. Anche l’emozione di un clasico Barcellona-Real Madrid se ripetuta per decine di volte può finire per annoiare. Già oggi nel tifoso più giovane l’interesse per il calcio è più legato alla socialità che ne deriva che allo sport in sé, e la partita vera e propria è seguita attraverso gli highlights piuttosto che per tutta la durata dell’incontro (Fan of the future. Defining Modern Football Fandom).

La vicenda della Superlega asseconda e rivela un fenomeno di polarizzazione della ricchezza, di proiezione verso un mercato globale, di lotta senza esclusione di colpi per l’accaparramento delle risorse già ben noto a livello economico complessivo e in via di ulteriore accelerazione in questa fase e che non risparmia nessun settore, nemmeno il calcio. Inoltre, da un punto di vista dei protagonisti: presidenti, dirigenti sportivi, manager, calciatori, mostra la loro natura di super privilegiati interessati a conservare e ad ampliare la loro condizione di distacco e di privilegio fatta di spregiudicatezza finanziaria, senso di impunità, voli privati, feste, cene, tamponi e vaccini proibiti ai più, ancor più evidente in questa fase di emergenza sanitaria e di crisi economica. Un privilegio che è anche “salariale”, come testimoniano due semplici cifre: tra il 2017 e il 2018 il costo del lavoro del calcio  professionistico è aumentato del 14,6%, mentre per i lavoratori dipendenti italiani aumentava tra il 2% e il 2,5%.


giovedì 7 gennaio 2021

The Best of (2020) the worst

podio (dal primo al terzo posto)
La Ragazza d'Autunno (Kantemir Balagov)
Diamanti Grezzi (Josh & Bennie Safdie)
The Lighthouse (Robert Eggers)
La Gomera (Corneliu Porumboiu)
The Outsider (HBO-miniserie)
Mark Fisher - Il nostro desiderio è senza nome (Minimum Fax)
Jeff Parker - Suite for Max Brown
Dark Waters (Todd Haynes)
The Plot Against America (HBO-miniserie)
Laura Marling - Song For Our Daughter
Ben Lerner - Topeka School (Sellerio)
Devs (Hulu-miniserie)
Jonathan Bazzi - Febbre (Fandango)
Il Lago delle Oche Selvatiche (Diao Ynan)
Memorie di un assassino (Bong Joon-ho)
Better Call Saul (Netflix-st.5)
Gil Scott-Heron - We’re New Again–A Reimagining by Makaya McCraven
Years And Years (BBC st.1)
Catherynne Valente - Space Opera (21 Lettere)
The Necks - Three
Bacurau (J. Dornelles & K. Mendoca Filho)
Luigi Nono - La nostalgia del futuro (Il Saggiatore-nuova edizione)
Woody Allen - A proposito di niente (La Nave di Teseo)
Beatrice Dillon - Workaround
Shabaka And The Ancestors - We are sent here by history
Fiona Apple - Fetch the bolt cutters
I May Destroy You (BBC/HBO)
Moses Boyd - Dark Matter
Normal people (BBC-miniserie)
Never Rarely Sometimes Always (Eliza Hittman)
I know this much is true (HBO-miniserie)
Stephen Markley - Ohio (Einaudi)
A Sun (Chung Mong-hong)
Khruangbin - Mordechai
Machado De Assis - Memorie Postume di Bràs Cubas (Fazi)
Andrej Tarkovskij. Il Cinema Come Preghiera (Andrey A. Tarkovskij)
Rote Zora - Mutate or Die. In Viaggio con la Mutoid Waste Company (Agenzia X)
Ema (Pablo Larrain)
Miss Marx (Susanna Nicchiarelli) 
Raised By Wolves (HBO Max - st.1)
Sault - Untitled (Black Is)
Le Strade del Male (Antonio Campos)
Run The Jewels - 4
Obsolete Capitalism & Stefano Oliva - Ritmo, Caos e Uomo Non Pulsato (La Deleuziana10)
Waxahatchee - Saint Cloud
Matthias & Maxime (Xavier Dolan) 
Prince - Sign'O the Times (Super Deluxe box set reissue)
We are who we are (HBO - L. Guadagnino)
Bob Dylan - Rough and rowdy ways
Mademoiselle (Park Chan-Wook)
Global Communications - Transmissions (box)
First Cow (Kelly Reichardt)
David Byrne's American Utopia (Spike Lee)
Stanislaw Lem - L'invincibile (Sellerio-ristampa)
Sault - Untitled (Rise)
Roubaix, Une Lumière (Arnaud Desplechin)
Nomad-In cammino con Bruce Chatwin (Werner Herzog)
Andrea Gentile - Apparizioni (Nottetempo)
Mank (David Fincher)
Rob Mazurek - Dimensional Stardust
Let them all talk (Steven Soderbergh)
Simon Reynolds - Futuromania (Minimun Fax)

(ri)scoperte pandemiche
Killing (Shinya Tsukamoto)
Grass (Hong Sang-soo)
Peppermint Candy (Lee Chan-Dong)

venerdì 30 ottobre 2020

ON THE ROCKS di Sofia Coppola (2020)

 

È forse ozioso, ma inevitabile, pensare che On the Rocks sia un aggiornamento di Lost in Translation. O meglio ancora, una sua versione letterale che esplicita il rapporto padre/figlia là solamente vagheggiato.

Diciassette anni dopo, il legame fra la protagonista Laura (Rashida Jones), scrittrice benestante di Manhattan, madre e moglie in crisi creativa convinta che il marito rampante la tradisca, e Felix (Bill Murray), gallerista e bon vivant che aiuta la figlia a indagare con fin troppa solerzia, non ha nulla di ambiguo o incerto. Nel film le parole sono scandite chiaramente, nulla viene sussurrato all’orecchio e negato allo spettatore. Semmai avviene il contrario, perché a cadere nel silenzio sono i personaggi, incapaci di fischiare o convinti di perdere l’udito per le frequenze più lievi, dunque per le voci femminili.

Nella sua evidente superficialità, come tutti i film di Sofia Coppola, anche On the Rocks sa benissimo di essere sospeso sul vuoto, di raschiare il barile e di rischiare il nulla. On the rocks, per l'appunto, espressione che può indicare un probabile e imminente fallimento, come se Sofia Coppola ammettesse una volta per tutte, nel modo più semplice, intimo e lineare possibile, i limiti del suo mondo di riferimento e del suo sguardo.

Non c’è nemmeno straniamento, nell’esperienza di madre alto-borghese della protagonista Laura; né tantomeno alterità, follia o surrealismo nel cazzeggio compiaciuto di suo padre Felix. On the Rocks esprime solamente consapevolezza del proprio privilegio e, a fianco o mezzo passo indietro, un sentore di disagio persistente, come la colpa per un peccato non commesso. Il senso del plot praticamente inesistente è fin troppo chiaro: il problema di Laura non sono il marito che la lascia sovente sola o la crisi creativa che innesca quella familiare; il problema sono il vuoto che circonda la sua vita in un appartamento da sogno a Soho, in una città che ormai non esiste più per nessuno, nemmeno per quei pochi che ne possono ancora godere; sono l’egoismo autoassolutorio nel quale il padre l’ha cresciuta o la bellezza indiscutibile e mai messa in discussione dei suoi vestiti, delle sue abitudine, dei locali che frequenta, degli oggetti che maneggia. Anche la fuga da Manhattan, verso una splendida località turistica del Messico, si rivela uno sbaglio come un altro, con Laura sempre immersa in contesti di bellezza senza riverbero, tra luci curate e colori calibrati, ripresa da inquadrature semplice, perfette, sostanzialmente piatte. 

Viene in mente un paragone con il cinema di Guadagnino, e in particolare con il corto The Staggering Girl: il regista italiano con la bellezza e la ricchezza ha un rapporto di raffinata passione, di decadente voluttuosità; Sofia Coppola, invece, dà per scontato il proprio mondo e per questo non sa cosa farsene. E di fronte alle ninfee di Monet (che Laura e Felix osservano nell’appartamento di una novantenne milionaria) lo sguardo resta come sempre incerto: non indifferente, nemmeno inerme, bensì offuscato. Poi, nell'inquadratura successiva, Laura è immersa nelle strade di New York attorniata da una luce bellissima, perché Sofia Coppola ha un talento enorme - e su questo non si discute. Ma come per la sua vita, anche di quello non ha saputo bene cosa farsene.

On the Rocks è la forma più onesta del cinema di Sofia Coppola, l’unica che la regista conosca. Un film ripetuto e ripetitivo. Un film vuoto su un vuoto, senza che tutto questo basti per farne un film bello. Un film, ancora, che si sostituisce a un altro, come l’orologio del marito, nel finale, sostituisce quello del padre...

Oggetti, scene, regali, silenzi, film, vita: tutto sullo stesso piano, tutto in superficie. Niente che vada perduto, niente da conservare veramente.

pubblicato su cineforum.it, 25/10/20 di Roberto Manassero

mercoledì 1 luglio 2020

Stephen Markley - Ohio (Einaudi)

Primo romanzo di Stephen Markley, un prodotto di quell’Iowa Writers Workshop che rimane la miglior scuola di scrittura degli Stati Uniti, Ohio (Einaudi Stile libero, traduzione semplicemente perfetta di Cristiana Mennella, pp. 544, € 21,00) si apre con un funerale. A essere sepolto è Rick Brinklan, ex star del football nel liceo di New Canaan, cittadina della Rust Belt, l’antico cuore industriale dell’economia americana colpito dallo spopolamento, dalla crisi del settore siderurgico e da un irreversibile decadimento urbano. Rick, patriota senza se e senza ma, si è arruolato subito dopo l’11 settembre e ha prestato servizio in Iraq, trovandovi la morte.


L’incipit del romanzo di Markley è un omaggio così elegante e insieme smaccato da far sospettare persino un intento parodico, e merita di essere citato quasi per esteso: «Il feretro non conteneva nessuna salma. La bara Star Legacy modello Platinum Rose in acciaio calibro 18, in prestito dal Walmart locale, era solo ricoperta da una grande bandiera americana. Ottobre era stato invaso da una precoce ondata di freddo invernale e una corrente d’aria violenta, instabile, sfrecciava per New Canaan, imprevedibile come i capricci di un bambino».

Il percorso del feretro
Impossibile non pensare al «fronte freddo autunnale» che inaugurava Le correzioni di Jonathan Franzen: un romanzo nel quale alcuni recensori hanno visto una sorta di geniale prefigurazione dell’11 settembre, ma che soprattutto sembra aver fissato un nuovo modello per la narrativa americana, segnato da un recupero del realismo, ma soprattutto dalla stipula di un vero e proprio patto con il lettore, al quale non si chiedono sforzi erculei o voli pindarici, ma solo la volontà di seguire un intreccio complesso di storie e personaggi, con la garanzia che, all’ultima pagina, i conti torneranno.

Il Preludio a Ohio prosegue sulla stessa falsariga dell’incipit, producendosi in uno strepitoso piano-sequenza nel quale il percorso del feretro lungo la High Street offre all’autore il destro per enucleare, attraverso le reazioni della folla radunata sui bordi della strada, quello che forse è il vero tema del romanzo: il tentativo di esorcizzare la morte, che sta mietendo le sue vittime tra guerre estere e tossicodipendenze, – aggrappandosi «all’idea di ciò che era New Canaan, dei valori che rappresentava, le speranze che creava».

Quando però il Preludio sta per concludersi, con un twist da romanziere postmoderno, Markley mescola le carte in tavola. «Rispetto alla nostra storia», ci tiene a sottolineare, «la parata è importante non per le persone che vi parteciparono ma per le persone assenti quel giorno».

I quattro protagonisti del romanzo, che prenderanno la scena uno dopo l’altro, rivivendo spesso le stesse scene del passato e incrociando le rispettive traiettorie, non partecipano al funerale «per ragioni personali» (che scopriremo nel corso del romanzo), ma tornano a New Canaan sei anni dopo, ognuno spinto da una sua motivazione, convergendo «su questa cittadina dell’Ohio da nord, sud, est e ovest».

Il mistero nel pacchetto
Il romanzo di Markley in realtà comincia qui: «con quattro automobili e i relativi occupanti» e con un altro caveat in pieno stile postmoderno: «Difficile dire dove finisca questa storia o come sia cominciata, perché una delle cose che alla fine imparerete è che il concetto di linearità non esiste. Esiste solo questo sogno collettivo scatenato, incasinato, incendiario in cui nasciamo, viaggiamo e moriamo tutti».

In che cosa consista questo sogno appare evidente sin dalla prima sezione, che ha per protagonista Bill Ashcraft: ex campioncino di pallacanestro, rivale (anche) in amore di Rick Brinklan; progressista, pacifista, contrario all’intervento americano e imbevuto di una retorica anti-sistema, che a tratti rischia di farne il portavoce dell’autore (e le pagine che ne derivano sono tra le meno convincenti del romanzo). Bill ha lasciato da tempo New Canaan per inseguire i suoi sogni vedendoli naufragare uno dopo l’altro; vi fa ritorno per consegnare un misterioso pacchetto a Kaylyn, ex ragazza di Rick con la quale aveva avuto una storia, e guarda con un misto di rabbia e disincanto una città nella cui deriva, da alcolizzato e tossico, non può che specchiarsi. Agli ideali di gioventù è subentrato un vuoto insensato, al quale si può forse trovare rimedio solo idealizzando i ricordi e reclamando un tempo, quello dell’adolescenza, del liceo, nel quale a ogni lite seguiva una pacificazione, e a ogni errore c’era sempre la possibilità di porre rimedio.

Rievocando un pomeriggio trascorso in riva a un lago insieme alla sua ragazza di allora e ai suoi amici, Bill tocca un momento di struggente nostalgia, nel quale sembrano risuonare le atmosfere dolceamare di classici adolescenziali come L’ultimo spettacolo, di Larry McMurtry: «Bill era steso al sole vicino alla sua ragazza, languidamente, perdutamente ubriaco. A sua memoria, fu l’ultima volta in cui erano stati giovani e basta, i litigi non duravano, i peccati erano scevri di qualsiasi forma di cattiveria. Aveva delle amanti, sì, ma molto amate. Faceva del male agli amici, come no, ma erano ancora fratelli d’infanzia. Perché erano solo dei ragazzi, e quel giorno bevvero, ballarono e risero guardando il cielo azzurro, e fu come se davvero si potesse aggiustare e perdonare qualunque cosa».

Il sogno di Bill non gli appartiene in esclusiva ma accomuna, con modalità differenti, anche gli altri tre personaggi che raccolgono il testimone del racconto. E che tutti tornano a New Canaan per recuperare un pezzo del loro passato che è andato perduto. Stacy Moore vuole ritrovare la ragazza, Lisa, che le ha fatto scoprire la propria omosessualità e che è scomparsa senza lasciare traccia; Dan Eaton, reduce di guerra tornato dall’Afghanistan ferito nell’anima e con un occhio in meno, ha la possibilità di incontrare nuovamente Hailey, il suo primo e unico amore; Tina Ross, infine, torna a New Canaan per parlare con Todd, il campioncino di football che l’ha brutalizzata e abbandonata senza neppure concederle una spiegazione.

Prodigi tecnici non esibiti
L’operazione di recupero, alla prova dei fatti, si dimostra impossibile: forse perché è proprio il passato ad aver generato le ferite di cui tutti i personaggi soffrono, quasi che le loro singole vite fossero lo specchio fedele di una deriva che tocca il paesaggio urbano, avvelena i rapporti sociali, precipita non solo la Rust Belt ma il Paese intero in un abisso senza ritorno.


Ohio non è un romanzo perfetto. Non ha torto Dan Chaon, che lo ha recensito per il New York Times, a rilevarvi una serie di eccessi dichiarativi e di sbilanciamenti retorici che a tratti possono infastidire. Ma le qualità prevalgono nettamente sui difetti, e fanno sì che in tutto il corso della narrazione si susseguano prodigi di tecnica non esibita, tanto nell’alternanza fluida tra passato e presente quanto nella capacità di evocare i disastri della deindustrializzazione come quelli della guerra. Tanto basta per considerare Stephen Markley un talento da seguire con attenzione, e una delle voci destinate a segnare il romanzo americano dei prossimi anni.

Pubblicato su Il Manifesto, 24/05/2020 di Luca Briasco

lunedì 29 giugno 2020

Matthias & Maxime di Xavier Dolan (2019)




Matthias ha tutto dalla vita: una ragazza che lo ama, una famiglia importante alle spalle e un lavoro che gli sta garantendo una carriera di successo. Maxime, invece, ha un’esistenza che è l’esatto opposto. Il ragazzo, infatti, deve inventarsi ogni giorno una prospettiva e, schiacciato da una madre terribile che cerca invano di salvare, la disperazione invade ogni suo gesto. I due, però, sono amici da sempre. Alla vigilia della partenza di Maxime, diretto per l’Australia, in cerca di una felicità, la coppia si rivede insieme ad altri compagni per una reunion in una casa sul lago. Una scommessa persa e il casting coatto per il corto sperimentale di una loro amica, costringerà i due amici a baciarsi. Un attimo imprevisto che stravolge il loro rapporto, facendo scattare qualcosa di inaspettato.

Dopo il “disastro” di La mia vita con John F. Donovan, Dolan sembra stia pagando sulla propria pelle il disagio di essersi scottato. Il suo primo grande film americano, con cast hollywoodiano e grandi ambizioni, non è stato, infatti, il successo ci si aspettava, relegato presto in un indeterminato dimenticatoio artistico (il film in alcuni paesi non ha nemmeno avuto una distribuzione in sala). L’infelice esperienza deve aver avuto un peso determinante sul regista canadese che, come i suoi personaggi ha vissuto tutto con il terrore di essersi bruciati, l’angoscia di precipitare in un vuoto di anonimato. Quanti giovani autori, pompati e santificati dalla critica mondiale, abbiamo visto sparire nel giro di pochi anni, destinati a una carriera sbagliata? Il fiato mortifero del fantasma del natale futuro è apparso alle spalle di Xavier, sussurrandogli quello che sarebbe potuto essere il suo destino di promessa mancata. Con l’umiltà di chi si è reso conto di aver forse esagerato e con la paura di chi, invece, deve dimostrare qualcosa (agli altri o a se stesso?) Dolan torna con Matthias & Maxime alle dimensioni essenziali dei suoi primi film, realizzando un’opera piccola, lineare, emotiva.

L’inadeguatezza di Xavier si riversa, infatti, nel suo sofferto personaggio. Sbagliato, arrabbiato e triste, con quel marchio sul volto che lo accompagna dalla nascita, Maxime è la sintesi di tutta l’irrequieta voglia di Dolan. Non importa che la sua intrepretazione sia spesso sproporzionata e disturbante, annichilita dal confronto con i suoi compagni di set. Il regista sente l’esigenza di essere presente in questo suo secondo esordio. La sua prova, e tutte le sue incongruenze, si immerge con naturalezza nel fluido equilibrato di un film che, da regista, sa tenere insieme alla perfezione. Dolan ha sempre avuto talento, è innegabile. La consapevolezza emotiva, però, che passa dalle scene di Matthias & Maxime si ripercuote in scelte sempre lucide e presenti. La sceneggiatura eccitata ma mai referenziale, le canzoni (il grande vanto di Dolan) finalmente giuste, e uno sguardo registico empatico, non ostentato o arrogante, segnano un cambio di rotta cosciente e sorprendente.

Matthias & Maxime non è un film che parla di omosessualità repressa, di tensioni sessuali esplosive. Più che di sesso o di identità, il bacio incriminato, quest’attimo imprevisto di intimità ci parla di qualcosa che va oltre. Quella tra Matthias e Maxime è una storia d’amore tra amici, è il racconto di quanto sia essenziale e stravolgente, ancora oggi, il contatto umano. Quante volte abbiamo avuto paura di esternare i nostri sentimenti a chi abbiamo vicino? Quante volte abbiamo dovuto sopprimere emozioni perchè non è il momento, non è giusto, non risponde all’immagine sociale che ci siamo tanto faticosamente attaccati addosso? Il bacio, questo bacio, rompe definitivamente tutte le nostre sovrastrutture, le nostre convenzioni da quattro soldi. In quelle labbra che si toccano e non si riescono a staccare, non leggiamo solo “Io ti voglio” ma “Sei stato importante per me“, “Ci sarò sempre“, “Mi mancherai“.  Emozioni che, dette a voce, non hanno alcun senso. Perchè le parole, lo sappiamo, spariscono nel vento. Sono i gesti enormi, improvvisi, estremi, come un bacio, a rimanerci dentro per tutta la vita.
pubblicato su sentieriselvaggi.it il 29/6/2020 di Luca Marchetti

_______________________________

Matthias & Maxime è stato accolto con grande affetto alla settantaduesima edizione del Festival di Cannes. Nulla di sorprendente, verrebbe da dire, ma solo l’ennesima conferma di ciò che significa essere dei “figliol prodighi”. Xavier Dolan torna infatti in concorso dopo le polemiche che seguirono la sua ultima montée de marche con Juste la fin du monde, che videro il regista pretendere dal festival maggior rispetto per i film e protezione dagli “attacchi” e “insulti” lanciati tramite i social network dagli accreditati – e parte consistente dei problemi che la stampa ha avuto quest’anno sulla Croisette germinano proprio da quelle rimostranze – e ancor più dopo aver auto-sabotato il suo primo film con produzione anglofona, The Death and Life of John F. Donovan, con risultati al botteghino a dir poco preoccupanti (a fronte di una spesa che si aggira intorno ai 30 milioni di dollari il film ha incassato a livello mondiale meno di 5 milioni di dollari). Inevitabile dunque lo srotolamento preventivo del tappeto rosso per questo giovanissimo cineasta canadese che a trent’anni appena compiuti ha già terminato otto lungometraggi. Un enfant prodige, ma che inizia a mostrare evidenti segni di stanchezza espressiva. Dopo la sbornia statunitense e i suoi effetti negativi, Dolan torna in Canada, nel suo Québec, e torna al francese come lingua madre e unico veicolo espressivo possibile. Non è certo un caso che l’incipit del film, un fine settimana tra amici alla casa al lago di uno di loro, punti moltissimo sulla guerra tra il francese e la lingua dominante, imperiale: la regista amatoriale del cortometraggio pseudo-sperimentale Limbo, per colpa del quale si genereranno tutti i dubbi esistenziali dei due protagonisti del titolo, mescola al québécois delle parole anglosassoni, creando un mélange linguistico fastidioso almeno quanto le sue mossette e il suo atteggiarsi.

Come accadrà per la maggior parte degli stimoli disseminati nel corso del film, però, Dolan non sembra aver alcuna intenzione di svilupparli, e neanche di configurarli in un sistema d’immagini che acquisisca corpo e vita. Di fatto la prima macro-sequenza del film, che contiene al proprio interno anche la più sublime delle intuizioni di Dolan (la lunga nuotata notturna di Matthias nel lago, con la macchina da presa che sembra sbracciare nervosa e quasi disperata con lui), rappresenta anche l’atrofizzazione della narrazione. Quella ricerca del proprio desiderio, che dovrebbe essere il punto attorno al quale ruota il film, non esplode mai, non deflagra sullo schermo. Certo, Dolan si affanna a costruire un immaginario che rifletta la sua potenza espressiva, accelerando e rallentando l’azione, mescolando la tragedia intima al bozzetto grottesco anti-borghese, nel tentativo non troppo riuscito di rassodare le forme di un’opera che si ritrova a respirare in modo asfittico. Il problema, forse, è che se di troppa ambizione si può esplodere, di troppa semplicità si corre il rischio di sgonfiarsi. Matthias & Maxime è un film che potrebbe essere aggettivato come piccolo. Ha pochi interpreti, poche situazioni quasi sempre in interno, dialoghi sempre brillanti. Dolan evita le scene madri, si diverte a eliminare completamente dalla scena la figura paterna – perfino quando dovrebbe farsi sentire al telefono uno dei genitori fa telefonare dalla sua segretaria – e per il resto cerca le coordinate di un coming of age classico, con la scoperta della propria sessualità come perno attorno al quale far ruotare i personaggi.

Non si può certo accusare di insincerità Matthias & Maxime, né sarebbe giusto disconoscere a Dolan i meriti di un talento registico innegabile, ma l’impressione è che la gabbia che l’autore di Mommy e Laurence Anyways si è costruito attorno sia ben lontana dall’essere scardinata. La volontà di depotenziare il côté melodrammatico è evidente e apprezzabile, ma il tutto finisce per ridursi a una presa di coscienza un po’ superficiale e senza molto da dire non solo sul tema (nemico pubblico numero uno di un film di questo tipo) ma soprattutto sui suoi personaggi, privi di una psicologia in grado di giustificare o meno comportamenti o scelte di vario tipo. Matthias & Maxime è l’ottavo lungometraggio della carriera di Dolan, come già scritto, ma paradossalmente ha le forme, il respiro e perfino le ambizioni di un’opera prima del Sundance Institute. La maturazione del Dolan autore appare ancora lontana. Restano gli improvvisi scarti registici, alcuni dialoghi brillanti, la bravura degli interpreti – in particolar modo lo stesso regista, che interpreta Maxime – e l’utilizzo mai banale del repertorio musicale. La speranza è che prima o poi Dolan riesca a uscire dal proprio cono d’ombra aprendosi davvero al mondo che lo circonda. Ma in ogni caso c’è chi, non c’è da dubitarne, saprà accontentarsi.
pubblicato su quinlan.it il 23/5/2019 di Raffaele Meale

presentato a Cannes nel 2019 e distribuito da Lucky Red dal 27 Giugno 2020 in streaming

lunedì 11 maggio 2020

FAVOLACCE di Damiano e Fabio D'Innocenzo (2020)



Favolacce è l’opera seconda dei fratelli D’Innocenzo  a due anni di distanza da La terra dell’abbastanza. Racconto corale ambientato a Spinaceto, quartiere a sud di Roma e a una quindicina di chilometri dal mare, Favolacce mette in mostra un cinema elegante e barbarico, e un immaginario a cui la produzione italiana non è più abituata. Crudele racconto di una giovinezza senza speranza alcuna, Orso d'Argento alla Berlinale 2020.

Una favola nera che racconta senza filtri le dinamiche che legano i rapporti umani all’interno di una comunità di famiglie, in un mondo apparentemente normale dove la rabbia e la disperazione sono pronte ad esplodere.

Cosa sono le favolacce, se non il racconto quotidiano di un’esistenza priva di scopo, di ragione, perfino di direzione? Se le possono raccontare tra loro i bambini sottovoce, la notte prima di addormentarsi, o possono condividerle attorno a un tavolo due famiglie che decidono di cenare insieme, oppure le si possono ascoltare alla televisione, quella televisione che non cerca più neanche di trovare il senso agli accadimenti ma lascia che la cronaca cruda entri con la sua dirompente violenza nelle case di persone che guardano e ascoltano distrattamente. Inizia con un tono fiabesco il secondo film dei fratelli D’Innocenzo (gemelli trentunenni che esordirono due anni fa con il bel noir sottoproletario La terra dell’abbastanza): un uomo, la cui voce narrante tornerà di quando in quando a far capolino nel corso del film, afferma di aver trovato il diario di una ragazzina, scritto con la penna blu, e di aver deciso una volta arrivato alla sua fine, di continuarlo a sua volta. Quindi, per dirla con le parole del narratore, Favolacce è ispirato a una storia vera, a sua volta ispirata a una storia falsa. La storia falsa, conclude la voice over, non è molto ispirata. Giocano da subito con le forme del linguaggio i D’Innocenzo, quasi a sottolineare la volontà di far percepire un’evoluzione dall’esordio; lì, nel suburbio di Ponte di Nona, grigia periferia della Capitale, si doveva aderire al reale, o supposto tale, per poter entrare in contatto con quell’umanità giovanile e vitale, nonostante la necessità – quasi ineludibile – di uccidere. Nella Spinaceto che è il cuore pulsante di Favolacce ci si può facilmente smarcare da questa adesione alla verità: da quella si parte, in ogni caso, perché il telegiornale riporta la notizia tragica di due genitori che hanno ucciso la figlia appena nata per poi gettarsi a loro volta dal balcone. Ma si cambia immediatamente registro, già durante una cena tra due famiglie amiche e vicine: dopo aver parlato del lavoro che non c’è, e che il capofamiglia di uno dei due nuclei vorrebbe trovare (un sempre ammirevole Elio Germano, in una prova attoriale completamente dissimile, per timbriche e posture, a quella messa in mostra in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, a sua volta in concorso alla Berlinale), si passa ai figli, che devono leggere in maniera plateale, quasi teatrale, i voti delle loro pagelline. Tutti 10, eccezion fatta per un 9 che la figlia più piccola ha preso in condotta.

Per una volta, rarità assoluta nello scenario cinematografico dell’Italia di oggi, un luogo non serve a marcare le esistenze che lo agitano. Anzi, la Spinaceto mostrata nel film è anonima, del tutto priva di identità, per niente caratterizzata, se non per quella struttura fatta di villini a schiera che poco si adegua all’immaginario capitolino e metropolitano, e sembra semmai veleggiare dalle parti del Tim Burton degli esordi e dei fratelli Coen (ma anche Todd Solondz, ovviamente). E non è un caso, forse, che il registro scelto sia quello del grottesco, senza però che questo aspetto vada in alcun modo a intaccare la sincera tragicità di un microcosmo ebete, nevrastenico, insoddisfatto senza neanche essere in grado di comprenderlo, invidioso dell’altro e attaccato solo agli eredi. I figli, le nuove generazioni. Unica speranza di emancipazione di un’umanità che non ha fatto nulla della propria vita. Non si sa che lavori facciano gli adulti di Favolacce, se non che uno di loro è cameriere in un ristorante. Lo si ignora perché questo aspetto non ha nulla a che vedere con la mediocrità delle esistenze dei personaggi in scena.

Da un punto di vista narrativo i gemelli procedono in modo ellittico, sfiorando le vite degli abitanti del quartiere nel corso dei mesi, dall’inizio dell’estate fino al ritorno sui banchi di scuola. C’è una ragazza giovanissima incinta e sul punto di partorire, i due fratellini che tanto vanno bene a scuola, una ragazzina che invece tanto bene non va e per di più si prende i pidocchi ed è costretta ad andare in giro con una parrucca à la Mia Wallace, il figlio del cameriere che potrebbe riuscire a perdere la verginità solo grazie al morbillo, visto che la madre di una sua amichetta (quella della parrucca) pretende che anche sua figlia riceva in dono la malattia esantematica.

Così come sono ordinate e all’apparenza impeccabili le villette a schiera (ma il cameriere con il figlio vivono in una casetta prefabbricata isolata che sembra uscita fuori dal sud degli States, quei territori abitati dalle macchine da presa di Terrence Malick o David Gordon Green; e infatti il padre emancipa il pargolo facendogli guidare il suo pick-up), altrettanto sono disordinate sia le vite che vi si svolgono all’interno sia il racconto episodico dei D’Innocenzo. Un racconto che si riempie di turpitudini, cercando idealmente lo sposalizio tra la New Hollywood – e quel che venne dopo – e la parte più esacerbata della commedia all’italiana, come se i Coen, Malick e l’Ettore Scola di Brutti, sporchi e cattivi potessero unirsi in un unico amplesso, vitale e mortifero allo stesso tempo (nei rintocchi della colonna sonora a un certo punto pare echeggiare anche un passaggio dello score di Stelvio Cipriani per Reazione a catena di Mario Bava, altro film che potrebbe benissimo dare del tu a Favolacce). All’interno di una produzione cinematografica per lo più anodina o protesa verso l’educazione del pubblico, i giovani gemelli D’Innocenzo diseducano lo sguardo sempre più prono verso il piccolo schermo ricordando quali siano le potenzialità del cinema, del racconto per immagini (la messa in scena è stordente e sempre brillante, senza mai perdere in eleganza formale), e allo stesso tempo quanto sia necessaria la messa in mostra delle atrocità del vivere, e di un’umanità non più vista come elemento d’analisi sociologica ma come esseri viventi che urlano, sbraitano, e possono essere sgradevoli, sguaiati (i commenti triviali dei due vicini di casa quando alla festa arriva una mamma che “non si è messa le mutande” vengono spinti ben oltre il canonico, senza censura alcuna), violenti, vili, orribili. In questa diseducazione l’unico atto di formazione possibile è quello che passa per la (auto)distruzione. Sempre consci che si può fuggire da Spinaceto – come ricordava Nanni Moretti in un celeberrimo passaggio di Caro diario – ma non si deve nutrire la speranza di trovare l’Eldorado una volta entrati nel Grande Raccordo Anulare (ma il discorso ovviamente non varrebbe solo per Roma e neanche solo per l’Italia). E non si può mai davvero dormire. Non si riesce più a dormire. E allora tanto vale accendere la televisione, e ascoltare le notizie delle tragedie degli altri.

Pubblicato su quinlan.it il 02/25/2020, di Raffaele Meale

venerdì 28 febbraio 2020

LA GOMERA - Corneliu Porumboiu (2019)



Cristi è un ispettore di polizia corrotto da trafficanti di droga, è sospettato dai suoi superiori e messo sotto sorveglianza. Imbarcato controvoglia dalla conturbante Gilda per l’isole de La Gomera, deve imparare nel minor tempo possibile il Silbo, una ancestrale lingua fischiata. Grazie a questo linguaggio segreto potrà liberare in Romania un mafioso che si trova in prigione e recuperare i milioni di euro nascosti. Ma non tutto è così semplice.

La Gomera (il titolo internazionale è The Whistlers) arriva in concorso alla settanduesima edizione del Festival di Cannes e spariglia tutte le carte dimostrando di possedere una dote sempre più rara nel cinema d’autore, europeo e mondiale: saper narrare con estrema naturalezza un racconto popolare senza per questo lasciare in secondo piano la riflessione teorica. Non è certo un caso che a mettere in scena questo prezioso gioiello sia Corneliu Porumboiu, che Cannes – per l’esattezza la Quinzaine des réalisateurs – scoprì nel 2006 all’epoca dell’esordio A est di Bucarest e che sempre sulla Croisette portò nel 2009 Police, Adjective e nel 2015 The Treasure, questi ultimi due entrambi inseriti nel programma di Un certain regard. La Gomera segna dunque la prima volta di Porumboiu all’interno della corsa per la conquista della Palma d’Oro, un riconoscimento che in questo momento parrebbe tutt’altro che peregrino.

Porumboiu riprende le fila del discorso da dove si era interrotto con The Treasure, a sua volta opera che ruotava attorno alla riconquista di un tesoro – lì era denaro risalente all’epoca di Ceausescu, qui il frutto del narcotraffico della mafia – e se sui titoli di coda di quel film irrompevano le musiche di Life is Life dei Laibach a dominare la scena nell’incipit di La Gomera è l’arcinota melodia di The Passenger di Iggy Pop. Quello che può sembrare solo un dettaglio, o il vezzo di un amante del rock, nasconde invece al proprio interno il senso della ricerca teorica che il regista rumeno svilupperà nel corso del film.
Come già accaduto in passato, si prendano ad esempio Police, Adjective e The Second Game, Porumboiu riflette sulle dinamiche relazionali tra i personaggi ragionando sui codici del linguaggio, sia esso verbale, visuale o puramente sonoro. È un suono ma anche una lingua il Silbo, il fischio con cui i pastori dell’isololotto de La Gomera nelle Canarie riuscivano a comunicare a distanza di chilometri, come fossero uccelli o scimmie urlatrici. Ed è un linguaggio anche la scelta dei diversi brani che compongono la ricca colonna sonora, dal rock rampante di Iggy Pop ad arie celebri come Casta Diva fino ad arrivare all’Orfeo all’Inferno di Jacques Offenbach. Brani che compongono un percorso, una contro-narrazione, che servono a “educare”, come sottolinea il nuovo concierge del sordido alberghetto in cui i soldi sono nascosti. Ed è un’opera a suo modo educativa, La Gomera, perché insegna a spettatori spesso troppo disattenti o abituati a un cinema preconfezionato che la materia narrativa è qualcosa su cui si può lavorare, approfondendo discorsi che potrebbero apparire anche ostici senza per questo dimenticare l’urgenza dell’intrattenimento.

Porumboiu dirige infatti un noir in piena regola, con tutti i crismi necessari: c’è il poliziotto corrotto, la sua capa che lo utilizza come talpa, la femme fatale, l’arzigogolato piano criminale, e via discorrendo. Eppure ogni passaggio del film serve a sottolineare l’importanza dell’utilizzo dei codici di linguaggio. Il fischio è uno strumento linguistico utilizzato da tempo immemore nello sperduto isolotto atlantico, ma è poi così dissimile da quello di cui si servivano le tribù native nel nord dell’America, come testimonia non un documento reale, ma una sequenza di Sentieri selvaggi che Cristi, il poliziotto corrotto, e la sua superiora Magda guardano alla cineteca di Bucarest.

Ed è inevitabilmente il cinema il punto di caduta che più interessa Porumboiu. L’immagine, la cui verità non può essere messa in dubbio neanche quando la finzione è dichiarata, come certifica la sequenza in cui la bella Gilda si finge una prostituta d’alto bordo per giustificare agli occhi degli “spioni” della polizia la sua presenza in casa di Cristi. Quel rapporto sessuale, costruito ad arte, diventerà il grimaldello sentimentale che in un modo o nell’altro sconvolgerà la prassi del piano, con tutte le conseguenze del caso. È di nuovo il cinema a ricostruire il vero quando Gilda e Magda si trovano a tu per tu, pistola contro pistola, davanti all’ospedale in cui è internato Cristi. Quest’ultimo sente lo sparo mentre sta vedendo la televisione, e se ne accorgerebbe anche l’infermiere che è con lui in camera se in televisione non fosse trasmessa la sequenza d’azione di un poliziesco, con tanto di sparatoria incorporata.

Facendo ricorso a tutti gli stratagemmi possibili – specchi, finestre che incorniciano i personaggi, camere di sorveglianza – Porumboiu ricompone la narrazione attraverso frammenti tra loro solo all’apparenza inconciliabili, e così fa anche con un racconto che va avanti e indietro nel tempo “fingendo” di interessarsi di volta in volta di un personaggio diverso. Divertentissimo e appassionante noir che non smentisce mai la propria forma per pretese autoriali La Gomera è un piccolo capolavoro, testimonianza della vitalità della scena rumena e del ruolo di primaria importanza svolto da Porumboiu. Arrivasse in dono un premio rilevante sulla Croisette forse inizierebbe ad accorgersene anche la distribuzione italiana, con solo un decennio di ritardo.

Pubblicato su quinlan.it il 05/19/2019, di Raffaele Meale