mercoledì 30 gennaio 2013

Ten Best Screen Experiences of 2012 (Delayed Version)


Ten Best Screen Experiences of 2012 (Delayed Version)

1. Anna (dir. Alberto Grifi & Massimo Sarchielli, Italy, 1957)@Festival de Nouveau Cinéma, Montreal.
2. Tess (dir. Roman Polanski, Great Britain, 1979)@Cinema Ritrovato, Bologna.
3. La noche de enfrente (dir. Raul Ruiz, Chile, 2012)@rainy day in Paris with Roger.
4. Post-Tenebra Lux (dir. Carlos Reygadas, Mexico, 2012)@Festival de Nouveau Cinéma, Montreal.
5. Homeland (Season 1, HBO, 2011)@chez nous
6. Melancholia’s Blue-Ray Featurette: Interview with astrophysicist Michael J. Linden@chez nous
7. Game of Thrones (Season 2, HBO, 2012)@chez nous
8. Post-Mortem (dir. Pablo Larrain, Chile, 2010)@ Habana Film Festival.
9. This is not a film (dir. Jafar Pahani Iran, 2011)@VA114, Concordia University, Montreal.
10. Amin (dir. Shahin Parhami, Iran, 2010)@seminar on “Cinema and Exploration”, Concordia University, Montreal

lunedì 28 gennaio 2013

that's entertainment parte 2°... "Django Unchained" "Lincoln" di S. Spielberg, "Flight" di R. Zemeckis

Non amo la veste del bastian contrario o tantomeno quella del solo contro tutti, e mi riferisco a questo spazio dove, in modo artigianale, mi diletto a riportare emozioni e giudizi, sindacabili come quelli di tutti, trasmessa, in questo caso, dalla visioni di un film. Anzi, di films (si scrive così, giusto?)
Per il Django senza catene, vi rimando ad una bellissima recensione di Rapporto Confidenziale scritta da Leonardo Persia, eccellente digirivista di critica cinematografica http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=25959 . Pur posizionato all'opposto di quanto espresso da R.C., posso capire l'incensare il nuovo Tarantino ma, per quanto apprezzi l'enorme capacità di muovere la macchina da presa del Quentin superstar, sono stanco del suo continuo citazionismo, dei dialoghi surreali che se fino a "Pulp Fiction" erano realmente esilranti, qui sono sterili e noiosi; non avevo necessità, e sottolineo il non avevo, di un "Unglorious Bastards" virato western. Non mi associo nemmeno a Spike Lee, che aveva attaccato "Django Unchained", senza nemmeno averlo visto perchè, a suo parere, andava a toccare un tema scottante e delicato come quello dello schiavismo, condito in salsa spaghetti-western . Semplicemente non ho bisogno di queste velleità, di questi giochi pseudo-autoriali avvinghiati su se stessi. Aspetto con fiducia un ritorno di Tarantino alle attualizzate atmosfere  blaxploitation del grande, grandissimo "Jackie Brown", dell'ormai lontano 1997. Se poi si vogliono trovare, al di là del (da me) tanto vituperato citizionismo, letture più profonde ben vengano. Non credo, comunque, sia quello che interessa il regista, ormai allineato con la sua idea di divertissment.
Lo schiavismo sembra quindi essere un tema di estrema attualità al di là dell'Oceano, visto che in contemporanea con i massacri dell'ex-schiavo affamato di vendetta, sul grande schermo riprende vita, per mano di Spielberg, chi contribuì in maniera determinante alla sua abolizione, il 16° Presidente degli US Abraham Lincoln. Materia e personaggio decisamente scottante per gli americani, "Lincoln" è a metà tra lo Spielberg autoriale, quello che prova a raccontare la Storia (Schindler's List) con (troppa) enfasi e un grande dispendio di mezzi, e quello che la racconta con toni aspri ed amari (il più riuscito "Munich"). Con una posta in gioco così alta, la storia del Tredicesimo emendamento che di fatto abolì la schiavitù, coadiuvata, e lo si immaginava, da un ottimo D. Day Lewis, è troppo in stile  (televisivo) HBO, però quello meno riuscito. Colmo, a seconda di quello che si legge sul web, di errori e sviste storiche, si potrà ricordare per qualche scena e detestare per molte (la sempre presente figura della moglie del Presidente, i poco efficaci dialoghi-dibattiti dell'emendamento, la parte finale con l'assassinio di Lincoln).
"Flight" di Zemeckis, per quanto non riuscito e come spesso accade per i blockbuster statunitensi, rovinato dal solito finale-buonista (la redenzione del personaggio), è forse il prodotto di maggior entertainment del trittico. Peccato, perchè la causticità di certi dialoghi e situazioni, la notevole prova di D. Washington (un pilota di aerei di linea cocainomane e alcolizzato, alle prese con un incidente aereo in cui perdono la vita passeggeri e membri dell'equipaggio), preannunciavano una lettura - apparentemente - senza enfasi ed efficace sull'uso e abuso di alcool e droga; temi, anche questi, molto cari agli spettatori stelle e striscie. Varebbe la pena solo per il fantastico cameo del pusher, un ironico, dissacrante e magistrale John Goodman.

giovedì 24 gennaio 2013

personali (ri)scoperte: "La guerra è dichiarata" (2011) di Valèrie Donzelli

Empatico. Non c'è miglior definizione per descrivere questo piccolo film, da noi passato praticamente inosservato; l'ho scoperto per puro caso, leggendo il classico "best of 2012"  su uno dei pochi mensili di critica musicale e cinematografica che acquisto regolarmente. Il trafiletto ad esso dedicato, non accennava praticamente nulla alla trama, ne conoscevo l'autrice: Romeo (Jeremie Elkaim) e Juliette (Valèrie Donzelli) si incontrano ad una festa, si innamorano, vanno a vivere insieme, hanno un figlio, Adam. Due anni dopo, mentre al telegiornale scorrono le immagini della scoppio della guerra in Iraq, scoprono che Adam ha un tumore al cervello. La guerra è dichiarata, la loro guerra contro la malattia, contro le difficoltà che si troveranno ad affrontare nel lungo calvario tra operazioni, chemioterapia, anni passati in ospedale al fianco del bambino, supportati dall'affetto degli amici e parenti più stretti.
Racconto dell'odissea vissuta realmente da Jeremie Elkaim e Valèrie Donzelli, difficilmente si era visto affrontare, sul grande schermo, un tema così drammatico, evitando magistralmente i toni più finti e accesi da melò strappalacrime. Uno splendido inno alla vita, colmo di momenti ironici (Romeo e Juliette..), caustici, coadiuvato da brevissimi intermezzi surreali e accenni da videoclip, supportati da una colonna sonora che spazia da Bach a Laurie Anderson.
L'autrice sceglie di non lasciare in sospeso il racconto, dando inizio al film con l'interpretazione reale di suo figlio, Adam, 9 anni, guarito. Lo spettatore conosce quindi la fine, lasciando spazio al racconto della guerra di  Juliette/Valèrie e Romeo/Jeremie, al loro modo di ringraziare i parenti e gli amici più stretti che hanno condiviso con loro le armi, diventando una sorta di tribù in lotta contro la malattia che colpisce il più giovane di loro; mai una goccia di finto pathos, evitando superbamente di prendere in ostaggio il pubblico. 



 
 
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martedì 22 gennaio 2013

una fantastica avventura sul Cinema, dentro al Cinema "Holy Motors" (2012) di Leos Carax

Paradossale, criptico, psichedelico, surreale, spropositato, onirico. Uno sguardo profondo sul Cinema, uno scossone alle platee ormai immobili, come quelle riprese all'inizio del film, assuefatte alla povertà delle immagini e dei racconti che, banalmente, ci vengono propinati per arte. Un'avventura non facile per chi vive il cinema fatto di sceneggiature "tradizionali", ma che coinvolgono, lasciano interdetti, immagini che si trascinano, che si portano a casa come le visioni di Lynch in "Strade Perdute" e "Mullholland Drive, in cui la trama è giocoforza costituita da un fluire di  non-storie.


Sorretto superbamente dall'attore feticcio di Carax, Denis Lavant, magnifico camaleonte in limousine, che interpreta una vita dopo l'altra, un personaggio dopo l'altro: ora barbone, ora gangster della banlieu, ora padre di famiglia, ora anziano morente.Se ci fosse una giustizia artistica, a Lavant andrebbero tanti Oscar, nel senso di premi, tanti quanti sono i suoi personaggi; ad iniziare da Monsieur Oscar, enigmatico uomo d'affari traghettato per Parigi nel retro di una limousine bianca, per una serie di appuntamenti di lavoro, in ciascuno dei quali applica un elaborato travestimento, preparando un volto per incontrare i volti che incontriamo.
Niente da aggiungere; i camei di Eva Mendes e Kylie Minogue , interprete di una magnifica e dolente pop-song scritta dallo stesso Carax ? Solo un tassello di un'opera travolgente e fragorosa. 


Un diamante, raro.

giovedì 29 novembre 2012

HK13 L'ORGIE ROMAINE di Alberto Valgimigli, Alessio Caors

I mondi a parte di Wes Anderson: “Moonrise Kingdom” (2012)



E’ spesso divertente interloquire sul cinema, così come su altri aspetti dell’arte tout-court. Divertente e appassionante mettere a confronto i più disparati giudizi e le diverse sensazioni che suscita  un film come una canzone; si passa dall’esaltazione, al moderato entusiasmo per arrivare fino all’incazzatura o, cosa peggiore, alla totale indifferenza. Wes Anderson è artefice effettivamente di film che riescono a generare tutta questa serie di sensazioni.
Nominato nel 2001 all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale per “I Tenenbaum”, ha comunque dalla sua un marchio di fabbrica ben distinguibile, un tocco tipicamente europeo nella sua ossessione per l'estetica, e basta guardare un paio di fotogrammi di uno dei suoi film per individuarne il tocco personale, una sorta di visione grandangolare di fantasie infantili. Malinconico, ridicolo, ironico, ma con un buio strisciante che si snoda in dialoghi spesso stralunati, in cui ricorrono temi come la nostalgia, il fallimento, le famiglie divise. Il risultato è spesso l’apparente costruzione di un mondo a parte, debordante ma in fondo perfettamente parallelo alla quotidianità, che sia quello degli eccessivi figli, madri, padri e nipoti dei Tenebaum, come quella della famiglia delle volpi antropomorfe del bellissimo film d’animazione “Fantastic Mr. Fox” del 2009.
“Moonrise Kingdom”, in uscita i primi di dicembre, non sfugge a questa regola.  Ambientato su un'isola al largo delle coste del New England nell'estate del 1965, racconta la storia dei dodicenni  Sam e Susy che si innamorano, fanno un patto segreto per scappare via sia dal campo scout che dai folli genitori (Frances McDormand e il suo attore feticcio Bill Murray) della ragazza. Mentre le autorità inizieranno la loro ricerca, una violenta tempesta è all’orizzonte e la vita della tranquilla comunità dell’isola sarà sconvolta più di quanto ci si potesse immaginare. 
Scritto da Anderson insieme al figlio e fratello d’arte Roman Coppola (Francis F. e Sofia…), riprende i temi delle stranezze familiari e sociali, colorandoli al solito con riprese che sembrano quadri, personaggi eccentrici e sopra le righe, comicità stralunata, evocando l’amore giovanile forse come il ritratto di una più giovane e più innocente America/mondo. La fanciullezza come contraltare della crisi delle generazioni più anziane: i genitori di Susy immersi in un continuo stato d’ansia e autocommiserazione per il matrimonio in crisi, lo sceriffo Bruce Willis solo e depresso per motivi personali,  lo stralunato capo scout Edward Norton in mutande assurde e calzettoni lunghi, l’ostile addetta ai servizi sociali Tilda Swinton in abito blu elettrico che vuole riportare Sam in orfanatrofio.
Non c’è dubbio che le visioni del regista siano vulnerabili all’accusa di essere arroganti stranezze (vedere per credere “Le avventure acquatiche di Steve Zissou” del 2004, lasciando perdere il noioso “Il treno per il Darjeeling”), ma regna comunque quell’estetica fatta in casa che riesce ad evocare un universo ben distinto, da osservare come una sorta di giocattolo d’epoca apprezzato da adulti e bambini. Ma anche qui si alteneranno i giudizi più disparati, e sarà sempre divertente assistervi.



mercoledì 14 novembre 2012

that's entertainment...: "Argo" di Ben Affleck, "Le Belve" di Oliver Stone, "Skyfall" di Sam Mendes



That's entertainment…il brano dei Jam di Paul Weller, purtroppo, c’entra poco o nulla con queste tre diverse interpretazioni di action movie, anzi due e mezza, dato che il film di Affleck, oltre che basarsi su un fatto storico, ha un registro decisamente diverso dai film di Stone e Mendes.
“Skyfall (2012)” lo attendevo con una certa curiosità, proprio per aver affidato alla mani dell’autore di “American Beauty (1999)” (soprattutto dello splendido “Revolutionary Road (2008)”, cosi come dell’ottima commedia “Away we go (2009)” da noi passata praticamente in sordina) la nuova avventura di 007, reincarnato per la terza volta in Daniel Craig.  Il risultato rimane inalterato, non fatevi trarre in inganno da roboanti recensioni che lo annunciano come una rivoluzione della saga bondiana. A parte il villain, per la prima volta gay, di Javier Bardem e la sete di vendetta personale, gli acciacchi e l’incalzare dell’età  che porta fino alle lacrime l’agente segreto meno segreto del mondo,  umanizzandolo rispetto ai precedenti Connery/Moore/Brosnan, “Skyfall” rimane il solito film  infarcito di spari, sbadigli (miei), inseguimenti,  belle fighe e paesaggi più o meno esotici.
Il film di Stone vede muoversi, sugli sfondi assolati e perennemente vacanzieri della California del Sud, la coppia di giovani e ricchi commercianti della “migliore marijuana del mondo”, Ben e Chon. Amici fraterni, condividono tutto, dalla villa all’amore per la concubina Ophelia; Chon, ex marine, ha riportato i primi semi dall’Afghanistan, e Ben, botanico e buddista, ne ha ricavato un prodotto eccellente, viatico per ricavarne migliaia di dollari, così come per alleviare il dolore dei malati terminali. La vita idilliaca del trio viene interrotta quando un brutale cartello di trafficanti messicani non decide di fare affari con loro, che lo vogliano o meno. Il rifiuto dei due di collaborare con il cartello, guidato dalla Regina (Salma Hayek), darà il via ad una serie di ricatti, violenze più o meno efferate  per liberare Ophelia, rapita dai messicani proprio per farli cedere ed accettare la joint-venture criminosa. Tra agenti della Dea corrotti (John Travolta) e killer spietati (Benicio Del Toro), “Le Belve (Savages, 2012)” riporta Stone ai tempi di “Natural Born Killers (‘94)” e “U Turn ( con Sean Penn e Nick Nolte, ‘97)”, alla propria rilettura del noir, infarcita dei soliti personaggi borderline e spesso sopra le righe.  Se “Assasini nati-Natural Born Killers”, per quanto sopravvalutato, utilizzasse un linguaggio che vent’anni fa poteva essere interessante, per “Le Belve” la domanda che mi è sorta spontanea appena terminata la visione è stata quanto  abbiamo bisogno di questi film, diventati ormai una sorta di (in)volontario stereotipo del genere. Dai citati film di Stone alle eccezionali opere di esordio di Tarantino, lo pseudo-noir (almeno così mi piace definirlo) si è avvinghiato su se stesso, diventando, non necessariamente, iperadrenalico come in questo caso o, cosa assai peggiore, clonando situazioni, personaggi e dialoghi che non colpiscono più nessuno – da “Slevin (di P. McGuigan, ’07)” per arrivare al “Killer Joe” di Friedkin. Per quanto riguarda Don Winslow, lo scrittore assurto a star del genere,  dal cui libro è stato tratto, consigliatissimo “Il Potere Del Cane (Einaudi, ‘09”)”, durissima e avvicente saga sui cartelli messicani della droga. Per gli altri libri vale, ovviamente per il sottoscritto, la stessa considerazione espressa per il film di Stone.

L’opera migliore del lotto è indubbiamente “Argo (2012)”, pur palesando quel gusto retorico del comunquenoisiamoimigliori di cui ogni americano sembra essere intriso fino al midollo, anche quando denuncia episodi sporchi e scottanti della recente storia statunitense.
Nel 1979, l'ambasciata americana in Iran viene invasa dai rivoluzionari iraniani e gli americani sono presi in ostaggio. Tuttavia sei riescono a scappare e nascondersi nella residenza ufficiale dell'ambasciatore canadese e la CIA è incaricata di farli uscire dal paese. Con poche opzioni e tempo a disposizione, l’esfiltratore (se siete curiosi del termine, cercatavelo…) Tony Mendez (Affleck) escogita un piano curioso e audace: creare un film canadese di fantascienza, Argo, da girare in Iran, e far passare i sei  come il suo team di produzione. Con l'aiuto di alcuni contatti di Hollywood, come il premio Oscar per gli effetti speciali John Chambers (John Goodman) e il produttore Lester Siegel (Alan Arkin), Mendez crea l'inganno e procede verso l'Iran come produttore associato. Nonostante i due giorni di tempo disponibili a Teheran, con le forze di sicurezza iraniane sempre più vicine alla scoperta di dove siano nascosti i sei terrorizzati fuggitivi, e i dubbi della Casa Bianca sull’annullamento dell’operazione, Mendez riesce nell’impresa sul filo del rasoio.
Alla terza prova da regista, che segue il  successo del notevole poliziesco “The Town” di due anni fa, Affleck azzecca anche questa volta volti e ritmi, romanzando un’operazione (Argo per l’appunto) resa nota al mondo, solo anni dopo dall’accaduto, dall’amministrazione Clinton. I pregi sono quelli dell’ottima messa in scena, sia quando si tratta di descrivere la parte hollywodiana della realizzazione del finto film, con interventi ironici stranamente non fuori luogo, che della suspense della fuga, tra le incertezze e la tensione dei fuggitivi e i controlli ai checkpoint dell’aeroporto da parte della Guardia islamica.
Come spesso accade per questo tipo di progetti, rimane comunque in bocca quel gusto amaro per non aver osato di più, come in certa cinematografia aggressiva della Hollywood degli anni '70 fatta da registi come Sidney Lumet (gli eccellenti “Quel pomeriggio di un giorno da cani” del ‘75 o “Quinto potere” 1976, solo per citarne alcuni) o Alan Pakula (“Perché un assassinio” del ’74 e “Tutti gli uomini del presidente, ‘76).
Dato che di denuncia della politica estera degli Stati Uniti si tratta, allora valeva la pena di arrivare fino in fondo. L’assalto all’ambasciata americana fu generato, dopo un anno dall’instaurazione di Khomeini e dal rovesciamento dello scià Pahlavi, dal rifugio che gli USA offrirono a quest’ultimo e che loro stessi, insieme alla Gran Bretagna, aiutarono nell’insediamento alla guida dell’Iran per circa 30 anni, dopo il rovesciamento del laico M. Mossadeq. Il tutto, ovviamente, per riprendersi gli impianti di petrolio nazionalizzati da Mossadeq e lasciare spazio al regime del terrore di Pahlavi, fatto di polizia segreta e torture. Per carità, questo viene quasi urlato nell'ottimo incipit, ma nel finale si avverte comunque il messaggio che l'America e gli americani sono sempre in grado di farcela, a scapito del fondamentalismo come nel rimediare ai propri, terribili, errori e disastri.
Affleck suscita l’impressione delle prime prove di Eastwood da regista, toccando diversi generi con sapienza, alla ricerca di una propria identità autoriale, ma la strada intrapresa sembra quella ottimale.

p.s. : That's Entertainment! è anche il titolo  di un film del 1974 , una compilation dei musical prodotti dalla M.G.M. per la celebrazione del proprio 50° anno...ho sempre odiato i musical...