giovedì 24 novembre 2011

"Melancholia" (2011) , Lars Von Trier

Lars Von Trier. Non credo di aver mai assistito, se non per ogni film del regista danese, o almeno da “Le Onde del Destino” in poi, ad una così feroce spaccatura, difficilmente riscontrabile dalla critica cinematografica verso altri registi, suddivisa tra una maggioranza che lo detesta in modo assoluto, e chi lo idolatra per ogni suo film. Premesso che nella storia del cinema, anche coloro che sono considerati tra i massimi esponenti della settima arte (Kubrick, Truffaut, Tarkovskij solo per citarne alcuni), hanno avuto critiche non benevole e duri attacchi, su Von Trier ci vorrebbe un capitolo a parte proprio per analizzare questa vero e proprio accanimento di vari recensori riversata sui suoi film, cui nemmeno “Melancholia” è scampato. Sarà perché l’essere umano descritto dal regista danese è spesso descritto come peccatore (non in senso religioso), malevolo, ma anche pronto al sacrificio, con toni e personaggi spesso esasperati, Von Trier viene addittato come pretenzioso, arrogante, inutile, addirittura pericoloso, con un accanimento raro se non unico, pur dovuto anche ad atteggiamenti arroganti da pseudo anti-star, come l'infelice, anche se decisamente strumentalizzata, dichiarazione sul nazismo all'ultimo festival di Cannes.

Indossando i panni del fan del regista, e che, personalmente, ritengo le sue opere migliori “Epidemic” (1998), “L’elemento del crimine” (1984) e l’inarrivabile “The Kingdom”  - nelle sue due parti del ’94 e del ’97 -,  “Melancholia” è comunque un'esperienza narrativa e visiva da non mancare. Tornano le affascinanti elaborazioni/elucubrazioni dei suoi temi preferiti: la paura, le fobie, un destino ineluttabile che non risparmia nessuno, la solitudine. Temi, che per quanto drastici e negativi, l'Uomo affronta, come quelli della redenzione e del cambiamento. Definito dal regista stesso “un film sulla fine del mondo” (ecco il primo ritorno ad uno dei temi “classici” del regista danese, l’umanità destinata all’oblio), quale in effetti è, viene però raccontato attraverso ciò che accade all’interno di un nucleo familiare borghese in una sontuosa villa, mentre un enorme pianeta si avvicina gradualmente alla Terra, minacciandone la distruzione. Justine (Kirsten Dunst, palma d’oro a Cannes per l’interpretazione femminile), e il novello sposo Michael , arrivano a una festa organizzata dalla sorella di lei, Claire (Charlotte Gainsbourg) e dal cognato John (Kiefer Sutherland), dove li attende il resto della famiglia. Mentre il tono della festa diventa poco per volta più cupo, fino a raggiungere toni imbarazzanti e destabilizzanti, Von Trier  destina  Justine all’incarnazione del male di vivere, della depressione,  della malinconia, mutandola in una sorta di ribelle del nucleo borghese cui appartiene, sfidando le norme sociali e rigettando i comportamenti di tutti intorno a lei, fino all'abbandono del novello sposo durante il ricevimento. La sua trasformazione finisce per abbattersi anche su Claire (cui è dedicata la  seconda parte del film, in una sorta di visione speculare della figura bambina-figlia-madre ), John e il loro bambino, mentre l’enorme pianeta blu - chiamato "Melancholia", come se il simbolismo non fosse già abbastanza chiaro -, comincia a coprire il cielo. Mentre John, da astronomo dilettante, assicura la moglie che il passaggio di Melancholia non avrà alcuna conseguenza, Justine, nella sua apatica depressione, muta fino a diventare l'unica ad aver fatto pace con il suo destino, avendo trovato - nella sua solitudine e nell'espiazione - la forza per essere madre, protettrice e guida di Claire e del nipote nell'incombente fine del mondo.
Ho letto "Melancholia" come la descrizione di un’apocalisse sociale, che bilancia quella fisica e distruttiva che seguirà, investigando sempre nella complessità dei personaggi posti di fronte a un all' inevitabilità del destino, con Justine e Claire a rappresentare le diverse modalità di reazioni di fronte ad eventi caotici e imprevedibili: la paura e la “riverenza spirituale”, il cambiamento, il dolore e l'accettazione del proprio essere. Il tutto pervaso, comunque, da un senso estremamente lirico (anche dal punto di vista musicale, come il Wagner del prologo), animato da una personale sensibilità , giocata su toni intimi ed una solida abilità estetica. La scena in cui il pianeta drena una parte dell'atmosfera terrestre, costringendo i suoi abitanti in iperventilazione, può essere anche letto come un attacco di panico prolungato, di cui Von Trier ha detto spesso di soffrire, così come della depressione, espressa visualizzazione del male di vivere.
Riallacciandomi al prologo del post, ho letto da più parti che Von Trier , con questo ennesimo film, continua ad essere un regista pretenzioso, “che prende per il culo pubblico e critica”. Qualsiasi opera artistica, musicale , pittorica, cinematografica è per sua stessa natura soggetta a giudizi e critiche; personalmente preferisco toccare con mano, prima di farmi condizionare da "autorevoli firme" dei cosiddetti critici cinematografici, che riempono i più inutili salotti televisivi di (non)stile marzulliano o le pagine dei quotidiani.

Nessun commento: