giovedì 3 novembre 2011

"PUSHER" La Trilogia di Nicolas Winding Refn, Palma d'Oro alla regia all'ultimo festival di Cannes

Vincitore per la miglior regia all’ultimo festival di Cannes, “Drive” del danese Nicolas Winding Refn, oltre ad essere il suo primo film hollywoodiano, è l’opera che lo ha definitivamente sdoganato da autore acclamato dalle ristrette visioni festivaliere a il vasto pubblico, grazie  ai quanto mai errati paragoni con Tarantino, piuttosto che per il suo personale talento. Tralasciando le valide e precedenti prove di “Bronson” del 2008 e il violento fantasy, visivamente folgorante, “Valhalla Risin” (2009), la trilogia di “Pusher”, facilmente reperibile anche in dvd, è l'opera che meglio identifica il talento di Refn.

Dopo studi, e relativa espulsione dalla American Academy of Dramatic Arts, al ritorno in patria il ventiseinne Refn inizia a mettere mano a quella che si sarebbe successivamente tramutata in una trilogia, anche se girata a distanza di qualche anno tra una pellicola e l’altra. “Pusher – L’inizo” è del 1996, storia di piccoli, perduti violenti ladri, boss di quartiere e spacciatori del folto sottobosco criminale di Copenaghen, mostrata sempre e solo negli squallidi sobborghi suburbani, restando come sfondo grigio e indistinto, come la New York del primo Scorsese (Mean Streets) o di Abel Ferrara, e ispirata espressamente da un regista nostrano come Sergio Sollima e il suo film “Città violenta”.
Una storia in cui personaggi, perduti in un continuo vagare di sopravvivenza giornaliera, tra piccoli spacci e tentati crimini più grandi di loro, vengono didascalicamente presentati all’inizio della pellicola. Un incipit quasi teatrale (quel teatro immaginario e dell’assurdo, ma così presente e vivo
come in “Bronson”) presente anche nelle pellicole successive;personaggi da cui siamo costantemente attorniati, senza prestare la minima attenzione alle loro vite .Vite  condotte come se facessero parte della vena folkloristica delle nostre città , dei nostri quartieri, che a volte guardiamo perfino con ironia, senza mai “leggere” con profondità cosa si nasconde dietro quella che definiamo comunemente una vita al limite. Con un approccio solo apparentemente basico, il film non vive solo  di una sterile "poetica" della violenza, anche grazie ai continui movimenti della camera a mano di Refn, dove brutalità e  picchi di violenza vengono quasi occultati, perché la ferocia non ha bisogno di essere mostrata, ma trasuda nel girovagare del sempre più inguaiato Frank. Spacciatore che non riuscirà a far fronte ai suoi debiti, grazie anche agli scorretti, quanto ingenui interventi dell’amico Tonny, uno sbruffone semi demente con il tatuaggio “respect” sulla testa rasata (quasi simbolo di un destino che lo vedrà interprete del secondo film), e Milo, piccolo boss e trafficante turco pervaso da minacciosa cordialità, personaggio che ritornerà anch’esso nei due film successivi.
Una discesa senza speranza, che sembra invece per un attimo illuminare il destino di Tonny, protagonista di “Pusher 2 - Sangue sulle mie mani (2004)”, che uscito di prigione dopo l’ennesima condanna, nel tentativo di riconquistare il rispetto (il suo tatuaggio, la sua richiesta non urlata ma che diventa urgenza di vita) del padre, boss violento e privo di alcun istinto paterno, attraverso furti, minacce e pestaggi, sarà costretto  verso un destino plumbeo e vuoto come il bus notturno su cui fuggirà portando con se il figlio, di cui era venuto a conoscenza avvicinandosi all’ex fidanzata prostituta e cocainomane. L’aria di desolazione e degradazione di una fetta di umanità disperata, spinta dagli eccessi, dalla droga, dalla mancanza di rispetto subita e perpetrata a tutto e per tutti, donne o bambini che siano, è quella che pervade anche l’unica scena finale in cui Tonny cercherà di lasciarsi alle spalle il suo passato, sembra a voler aprire un velo di speranza. Speranza che Refn sembra poi volutamente fare perdere nei titoli di coda, neri come il destino che sembra avvolgere il protagonista ed i personaggi, i finti amici, gli ipocriti parenti coprotagonisti del film.
“Pusher 3 – I Am The Angel of Death (2006)” torna ad avere come protagonista principale Milo, nel giorno del matrimonio della figlia, che sfruttando i sensi di colpa del padre, arriverà perfino a ricattarlo per usurpare lei stessa, il decadente, imbrattato di sangue, piccolo trono di Milo. Trono del quartiere di cui il trafficante non ha più il controllo incontrastato, poco per volta estromesso dalle nuove leve criminali di immigrati che gli ha dichiarato guerra. E’ il racconto più lucido, violento e nero, e forse anche il capolavoro, dell’intera trilogia di una Copenaghen assunta a simbolo di una
umanità, che trova il suo luogo di sopravvivenza e ineluttabile caduta in luoghi a noi vicini, nei quali è anche facile vedere Scampia o le periferie di tante città italiane, così come delle metropoli statunitensi, solo geograficamente distanti, ma che rappresentano, in fondo, lo stesso spazio, lo
stesso teatro, sul quale i personaggi si muovono come burattini retti da fili di un destino che sembra scritto in caratteri rosso sangue.
“Drive”, pur raggiungendo  livelli registici inespressi nella trilogia di “Pusher”, grazie anche ad un alto budget e l’eccellente maschera di Ryan Gosling, non riesce a replicarne l’impatto emotivo e territoriale di Pusher, avendo però  il merito di riscoprire opere che altrimenti non avrebbero avuto la visibilità meritata. Punto.

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