venerdì 28 febbraio 2020

LA GOMERA - Corneliu Porumboiu (2019)



Cristi è un ispettore di polizia corrotto da trafficanti di droga, è sospettato dai suoi superiori e messo sotto sorveglianza. Imbarcato controvoglia dalla conturbante Gilda per l’isole de La Gomera, deve imparare nel minor tempo possibile il Silbo, una ancestrale lingua fischiata. Grazie a questo linguaggio segreto potrà liberare in Romania un mafioso che si trova in prigione e recuperare i milioni di euro nascosti. Ma non tutto è così semplice.

La Gomera (il titolo internazionale è The Whistlers) arriva in concorso alla settanduesima edizione del Festival di Cannes e spariglia tutte le carte dimostrando di possedere una dote sempre più rara nel cinema d’autore, europeo e mondiale: saper narrare con estrema naturalezza un racconto popolare senza per questo lasciare in secondo piano la riflessione teorica. Non è certo un caso che a mettere in scena questo prezioso gioiello sia Corneliu Porumboiu, che Cannes – per l’esattezza la Quinzaine des réalisateurs – scoprì nel 2006 all’epoca dell’esordio A est di Bucarest e che sempre sulla Croisette portò nel 2009 Police, Adjective e nel 2015 The Treasure, questi ultimi due entrambi inseriti nel programma di Un certain regard. La Gomera segna dunque la prima volta di Porumboiu all’interno della corsa per la conquista della Palma d’Oro, un riconoscimento che in questo momento parrebbe tutt’altro che peregrino.

Porumboiu riprende le fila del discorso da dove si era interrotto con The Treasure, a sua volta opera che ruotava attorno alla riconquista di un tesoro – lì era denaro risalente all’epoca di Ceausescu, qui il frutto del narcotraffico della mafia – e se sui titoli di coda di quel film irrompevano le musiche di Life is Life dei Laibach a dominare la scena nell’incipit di La Gomera è l’arcinota melodia di The Passenger di Iggy Pop. Quello che può sembrare solo un dettaglio, o il vezzo di un amante del rock, nasconde invece al proprio interno il senso della ricerca teorica che il regista rumeno svilupperà nel corso del film.
Come già accaduto in passato, si prendano ad esempio Police, Adjective e The Second Game, Porumboiu riflette sulle dinamiche relazionali tra i personaggi ragionando sui codici del linguaggio, sia esso verbale, visuale o puramente sonoro. È un suono ma anche una lingua il Silbo, il fischio con cui i pastori dell’isololotto de La Gomera nelle Canarie riuscivano a comunicare a distanza di chilometri, come fossero uccelli o scimmie urlatrici. Ed è un linguaggio anche la scelta dei diversi brani che compongono la ricca colonna sonora, dal rock rampante di Iggy Pop ad arie celebri come Casta Diva fino ad arrivare all’Orfeo all’Inferno di Jacques Offenbach. Brani che compongono un percorso, una contro-narrazione, che servono a “educare”, come sottolinea il nuovo concierge del sordido alberghetto in cui i soldi sono nascosti. Ed è un’opera a suo modo educativa, La Gomera, perché insegna a spettatori spesso troppo disattenti o abituati a un cinema preconfezionato che la materia narrativa è qualcosa su cui si può lavorare, approfondendo discorsi che potrebbero apparire anche ostici senza per questo dimenticare l’urgenza dell’intrattenimento.

Porumboiu dirige infatti un noir in piena regola, con tutti i crismi necessari: c’è il poliziotto corrotto, la sua capa che lo utilizza come talpa, la femme fatale, l’arzigogolato piano criminale, e via discorrendo. Eppure ogni passaggio del film serve a sottolineare l’importanza dell’utilizzo dei codici di linguaggio. Il fischio è uno strumento linguistico utilizzato da tempo immemore nello sperduto isolotto atlantico, ma è poi così dissimile da quello di cui si servivano le tribù native nel nord dell’America, come testimonia non un documento reale, ma una sequenza di Sentieri selvaggi che Cristi, il poliziotto corrotto, e la sua superiora Magda guardano alla cineteca di Bucarest.

Ed è inevitabilmente il cinema il punto di caduta che più interessa Porumboiu. L’immagine, la cui verità non può essere messa in dubbio neanche quando la finzione è dichiarata, come certifica la sequenza in cui la bella Gilda si finge una prostituta d’alto bordo per giustificare agli occhi degli “spioni” della polizia la sua presenza in casa di Cristi. Quel rapporto sessuale, costruito ad arte, diventerà il grimaldello sentimentale che in un modo o nell’altro sconvolgerà la prassi del piano, con tutte le conseguenze del caso. È di nuovo il cinema a ricostruire il vero quando Gilda e Magda si trovano a tu per tu, pistola contro pistola, davanti all’ospedale in cui è internato Cristi. Quest’ultimo sente lo sparo mentre sta vedendo la televisione, e se ne accorgerebbe anche l’infermiere che è con lui in camera se in televisione non fosse trasmessa la sequenza d’azione di un poliziesco, con tanto di sparatoria incorporata.

Facendo ricorso a tutti gli stratagemmi possibili – specchi, finestre che incorniciano i personaggi, camere di sorveglianza – Porumboiu ricompone la narrazione attraverso frammenti tra loro solo all’apparenza inconciliabili, e così fa anche con un racconto che va avanti e indietro nel tempo “fingendo” di interessarsi di volta in volta di un personaggio diverso. Divertentissimo e appassionante noir che non smentisce mai la propria forma per pretese autoriali La Gomera è un piccolo capolavoro, testimonianza della vitalità della scena rumena e del ruolo di primaria importanza svolto da Porumboiu. Arrivasse in dono un premio rilevante sulla Croisette forse inizierebbe ad accorgersene anche la distribuzione italiana, con solo un decennio di ritardo.

Pubblicato su quinlan.it il 05/19/2019, di Raffaele Meale

lunedì 3 febbraio 2020

DIAMANTI GREZZI di Ben Safdie, Joshua Safdie (2019)


Ultimo baluardo del cinema indie americano, Benny e Josh Safdie, giunti al terzo lungometraggio di finzione, proseguono ardimentosi nel loro percorso autoriale dissertando per immagini, in Diamanti grezzi (Uncut Gems), su uomo e capitalismo, cosmo e denaro, mentre esplorano, ancora una volta, il produttivo binomio tra supporto fisico (la pellicola) e performance attoriale. L’incanto visivo della loro regia fluida e precisa, l’inventiva narrativa di questa nuova odissea urbana e umana trafiggono gli occhi e stimolano le sinapsi, con un continuo rimestare tra cellule e minerali, uomini e cose, sentimenti e metafore, mentre il paradosso regna sovrano, dentro e fuori dal film: Diamanti grezzi è girato in 35mm, visibile solo su Netflix.

Colori saturi e grana bene in vista, la pellicola fotografata mirabilmente da Darius Khondji (Okja, Civiltà perduta, Amour, Midnight in Paris, per citare qualche titolo) riserva momenti di puro piacere visivo, tra improvvise tinte bluastre pronte a sprigionarsi dai neon delle gioiellerie del Diamond District newyorkese, immersioni lisergiche nella materia e una sorprendente sequenza sotto luci ultraviolette ambientata in un locale notturno. Nuovo tassello di una già brillante carriera, Diamanti grezzi prosegue l’indagine umana dei due registi ampliandone la portata metaforica, senza offrire, come d’abitudine, alcuna morale o messaggio pre-confezionato sul protagonista e le relative vicende. Se il precedente Good Time lambiva i toni del dramma sociale statunitense e concedeva a Robert Pattinson di esprimersi in una prova fisica ai limiti dello slapstick, in Diamanti grezzi la scena è stabilmente governata da Adam Sandler, la cui parlantina tonitruante in slang ebraico-newyorkese, accompagnata dall’appropriata gestualità nervosa, costituisce la vera forza centrifuga di ogni singola inquadratura. Recitando costantemente tra i denti, questo stand up comedian raffinato e brutale offre allo spettatore prova costante del suo talento attoriale, opportunamente esaltato dalla devozione che i due registi gli dedicano senza sosta, proponendosi così quali degni eredi del cinema empatico e straziante, performativo e libero, di John Cassavetes. Come il Cosmo Vittelli incarnato da Ben Gazzara in L’assassinio di un allibratore cinese anche l’Howard Ratner di Adam Sandler è uno scommettitore compulsivo, poco interessato in fondo al denaro di per sé, guidato solo dall’istinto e dal desiderio di rischiare, e vincere.

Tutto ha inizio per lui in un altro tempo e un altro luogo, nel 2010, tra gli ebrei etiopi che scavano, anche al costo della vita, in una miniera. Lì, dalle viscere delle terra, viene estratto un opale nero, ancora incastonato nella roccia, pietra millenaria ma sondabile, le cui componenti minerarie non sono affatto diverse da quelle che troviamo, pochi istanti dopo, nel corpo di Howard. Disteso su un lettino ospedaliero, mentre gli viene effettuata una colonscopia, il nostro antieroe è vulnerabile, ma pronto a rialzarsi, marionetta impazzita nelle mani dei suoi autori, galvanizzata continuamente, all’interno del racconto, dal denaro e dal suo scorrere impetuoso. Howard è così, può essere solo o inerte o scatenato, nessuna via di mezzo. È il mattatore folle e logorroico di una realtà che vuole ricacciarlo in un buco nero. È un gioielliere traffichino, un gambler made in USA senza desiderio di redenzione.
Il cognato, Arno (Eric Bogosian), rivuole indietro un prestito di 100mila dollari e gli ha scatenato contro i suoi scagnozzi, la moglie brama il divorzio, l’amante e sua dipendente lo ama follemente, lui è uno nessuno e centomila, il family man che porta via la spazzatura e presenzia alla recita della figlia, l’intrallazzatore immerso in baratti, compravendite, transazioni, interessi e strozzini, vecchie tradizioni, Storia e Geologia, Religione e Minerali, cellule e atomi, vitalità e morte.

Attraverso di lui si manifesta l’ultima frontiera del capitalismo, ipertrofico, insensato, dove il lavoro dell’uomo non produce più nulla da tempo e l’oggetto (l’opale nero), proprio come il denaro, ha il valore che l’uomo gli attribuisce. Entrambi poi non sono che “materia”, proveniente dalle viscere della terra e pronta a dissolversi in essa. Tetra eppure vitalistica metafora offerta alla nostra libera interpretazione, Diamanti grezzi è ad oggi il frutto più maturo della filmografia di Benny e Josh Safdie, la cui fascinosa estetica retrò, frutto di un manierismo mai ruffiano, mira a comporre un’elegia tonante, carnale e triviale, al corpo dell’attore, alla materia, alla grana della pellicola, al cinema.

Pubblicato su quinlan.it il 02/02/2020, di Daria Pomponio


giovedì 9 gennaio 2020

The Lighthouse (Robert Eggers, 2019)


Ambientare un film su un’isola sperduta e in un secolo remoto (dove comunicare con la terraferma è impossibile) sembra aver contagiato non pochi registi, lo abbiamo visto recentemente con Xavier Gens (le valide derive fantastiche di “Cold Skin”) e con Kristoffer Nyholm (suo l’interessante ma incompiuto “The Vanishing”). Storie di solitudine e di follia da cui non poteva sottrarsi neppure Robert Eggers, artefice di uno dei titoli più celebrati durante il decennio appena trascorso, “The Witch” (2015).
Ci troviamo alla fine del diciannovesimo secolo: su un piccolo isolotto del New England approdano due uomini, il guardiano del faro Thomas Wake e il tuttofare Ephraim Winslow. Il primo interpretato da un monumentale Willem Dafoe, il secondo da un altrettanto eccellente Robert Pattinson, ma non avevamo dubbi sulla bravura di Eggers nel saper dirigere gli attori (inoltre nel film i dialoghi fanno davvero la differenza). Il rapporto tra i due protagonisti non è idilliaco, il carattere scorbutico e dominante di Thomas si scontra fin da subito con l’alienazione e il comportamento paranoide del più giovane Ephraim (solo l’alcol è capace di rompere le barriere tra questa coppia di individui in perenne conflitto). Improvvisamente un evento infausto scatena la pazzia e l’orrore in quel mondo perduto, mettendo a dura prova la sopravvivenza dei nostri e la loro salute mentale, ormai divorata da un confronto (dalle tinte persino omoerotiche) destinato a sfociare nella tragedia più assoluta.the-lighthouse“The Lighthouse” è un’opera che cresce come un fiume in piena durante la prima ora di visione (sulle quasi due complessive), per poi cedere a qualche piccola ridondanza di troppo nella seconda parte, in attesa di concludersi in maniera egregia. Il carattere visionario della pellicola raggiunge il climax attraverso una serie di eventi sempre più concitati, nei quali Robert Eggers riesce letteralmente a far parlare la natura e le sue forze inquietanti (il vento, la pioggia, il mare in tempesta e gli immancabili gabbiani). Il regista racchiude tutte queste sensazioni dentro un claustrofobico formato 4:3, penetrando fin dentro l’incubo grazie a una fotografia dalle tinte espressioniste, persino surreali nelle scene notturne. Inoltre la pellicola è stata girata in condizioni climatiche proibitive (questa fredda location si trova nella regione della Nuova Scozia, in Canada), un valore aggiunto che ha reso ancora più drammatica la partecipazione emotiva dei protagonisti.
80624865_10218025050036904_3493065909352792064_oLe influenze da cui Robert Eggers ha attinto sono tante: Howard Phillips Lovecraft, Edgar Allan Poe, Samuel Coleridge, Herman Melville, Robert Louis Stevenson ma anche la pittura simbolista di Jean Delville o quella di Sascha Schneider (nella foto qui sopra il parallelismo con l’omaggio esplicito del regista), oltre a un immaginario legato alla mitologia greco-romana che parte da Nettuno spingendosi fino alla figura di Prometeo, elemento quest’ultimo da assimilare al personaggio di Ephraim, in quanto metafora di ribellione all’autorità e alle imposizioni (il fuoco – in questo caso la luce del faro – rubato agli dei).

Non è certo facile paragonare “The Lighthouse” al precedente “The Witch”, due opere entrambe di altissimo livello: se “The Witch” lo abbiamo amato per la sua semplice e totale naturalezza, questo atteso ritorno lo possiamo celebrare per la sua grande potenza visiva e simbolica, giusto per farci capire che il giovane Eggers è davvero capace di tutto. “There is enchantment in the light”, una luce che illumina magistralmente il cinema contemporaneo.
pubblicato su https://cinemaestremo.wordpress.com/ , 01/01/2020 di Paolo Chemnitz

giovedì 2 gennaio 2020

2019 rewind

Suspiria (Luca Guadagnino)
The Sisters Brothers (Jacques Audiard)
The House That Jack Built (Lars Von Trier)
Paolo Angeli - 22.22 Free Radiohead
Burning (Lee Chan-Dong)
Guido Ceronetti - La Rivoluzione Sconosciuta (Adelphi)
La Favorita (Yorgos Lanthimos)
The Comet Is Coming - Trust in the Lifeforce of The Deep Mistery
Beth Gibbons & Polish National Radio Symphony Orchestra - Henry Gòrecki: Symphony N.3
Oro Verde (Ciro Guerra, Cristina Gallego)
Ultramarine - Signals into space
Dragged Across Concrete (S. Craig. Zahler)
Alive in France (Abel Ferrara)
Il Traditore (Marco Bellocchio)
High Life (Claire Denis)
Noi (Jordan Peele)
Rolling Thunder Revue:A Bob Dylan Story (Martin Scorsese)
The Beach Bum (Harmony Korine)
Mark Fisher - Spettri della mia vita (Mininum Fax)
Olga Tozarczuk - I Vagabondi (Bompiani)
The Nightingale (Jennifer Kent)
75 Dollar Bill - I Was Real
Parasite (Bong Joon-ho)
Coil - The Gay Man's Guide to Safer Sex
City On A Hill (Showtime-s.1)
Vox Lux (Brady Corbet)
La mafia non è più quella di una volta (Franco Maresco)
Chris Ware - Rusty Brown (Penguin R.H. Edition)
Once upon a time in...Hollywood (Q. Tarantino)
Ad Astra (James Gray)
James Bridle - Nuova Era Oscura  (Not Nero Editions)
Underworld - Drift Series 1
L'Ufficiale e La Spia (Roman Polanski)
The Irishman (M. Scorsese)
Watchmen (HBO)
Storia di un matrimonio (Noah Baumbach)

runners-up
Escape at Dannemora (Showtime miniserie)
La Paranza dei Bambini (Claudio Giovannesi)
Dolor Y Gloria (Pedro Almodovar)
I Figli del Fiume Giallo (Jia Zhang-ke)
Martin Eden (Pietro Marcello)
Sally Rooney - Persone Normali (Einaudi)
David Szalay - Turbolenza (Adelphi)
The Deuce (HBO - s.3)
Angel Olsen - All Mirrors
Zombi Child (Bertrand Bonello)
Where'd you go, Bernadette (Richard Linklater)

martedì 17 dicembre 2019

CHE FINE HA FATTO BERNADETTE? di Richard Linklater



Che fine ha fatto Bernadette?, il ventesimo lungometraggio di Richard Linklater, è stato accolto negli Stati Uniti come un flop (con conseguenti pessimi incassi). In realtà, con la giusta distanza, la storia di una donna di successo che vive senza aiuti esterni la propria depressione, appare come un ulteriore e doveroso tassello nella ramificata filmografia di uno dei più affascinanti e completi autori della produzione statunitense dell’ultimo trentennio.

Seattle. Elgie e Bernadette sono una coppia con figlia (Bee), benestante e apparentemente felice. Elgie, però, è sempre più occupato a sviluppare il proprio progetto per Microsoft, mentre Bernadette vive con difficoltà crescente i rapporti con il vicinato e la sua condizione di casalinga. Perché Bernadette, anche se nessuno lo sa, era uno dei più brillanti architetti d’America. Quando l’equilibrio tra le tensioni contrapposte sembra cedere, Elgie decide di correre ai ripari e di intervenire, prima che la depressione della moglie abbia il sopravvento. 

Quando Che fine ha fatto Bernadette? è uscito in sala negli Stati Uniti, lo scorso agosto, la critica ha decisamente storto il naso, arrivando a definire il film come “il più deludente del 2019”; affermazioni che lasciano molto poco spazio al dibattito, perentorie come oramai è divenuta abitudine in un sistema critico sempre più polarizzato – un argomento che torna valido anche su altri piani, a partire ovviamente da quello politico. Opinioni, quelle della stragrande maggioranza della critica a stelle e strisce, che si sono mosse di pari passo con le scelte del pubblico, che non ha premiato il ventesimo lungometraggio di Richard Linklater: a fronte di un budget complessivo stimato attorno ai 18 milioni di dollari la storia della crisi umana e professionale di Bernadette Fox ha raggranellato in patria appena 10 milioni di dollari. Un insuccesso commerciale che per Linklater fa seguito a quello di Last Flag Flying (neanche 2 milioni di dollari, ma è giusto precisare come il film sia ben presto finito sulla piattaforma di Amazon) e anche di Everybody Wants Some!!. In realtà se si escludono Boyhood e il terzo capitolo delle avventure sentimentali di Jesse e Céline (Before Midnight, 2013), per il regista texano i rapporti con il botteghino non sono mai stati idilliaci negli ultimi anni, per utilizzare un eufemismo. Dispiace però annotare come per l’ennesima volta si sia persa l’occasione di cercare di comprendere il cinema di Linklater, ridotto sovente con troppa superficialità a una declinazione personale dell’indie movie. Un approccio produttivo e artistico con cui nella realtà dei fatti Linklater ha poco a che vedere: il suo è fin dagli esordi un cinema alla ricerca (a volte ironica, a volte beffarda, a volte disperata) dell’intima verità dei suoi personaggi, in un viaggio perenne che è anche speculazione sul senso profondo dell’aggettivo americano, sugli usi e consumi di un tempo spezzato dalla routine di un Paese che è marcito nelle fondamenta.

Parla di crolli e marciume assortito anche Che fine ha fatto Bernadette?, che prende ispirazione dal best seller letterario pubblicato nel 2012 da Maria Semple. Rispetto al romanzo Linklater fa a meno da subito della componente epistolare, anche se lascia – come contrappunto – la voce più riflessiva che narrante della figlia della protagonista, la quindicenne Bee (convincente l’interpretazione dell’esordiente Emma Nelson). Ciononostante resta la persistente presenza di email, telefonate, sms, messaggi vocali: i tentativi di una società che ha scavallato il senso stesso del suo esistere di mantenere un contatto, di creare una parvenza di relazione umana. Perché quel che interessa a Linklater, anche firmatario della sceneggiatura insieme a Vince Palmo e Holly Gent – lo stesso terzetto responsabile dello script di Me and Orson Welles, altro clamoroso insuccesso per il regista, visto che nel 2008 racimolò appena un paio di milioni di dollari a fronte di un impegno produttivo che si aggirava intorno ai 25 milioni –, non è l’indagine su dove sia “scappata” Bernadette. Quello che era il centro pulsante del romanzo viene rapidamente risolto fin dalla primissima inquadratura, che vede Bernadette affrontare in kayak le gelide acque della penisola antartica. Linklater elimina da subito qualsiasi velleità da detective nello spettatore: il suo film non è un giallo. O meglio, lo è, ma l’indagine non è ferma a “dove va” Bernadette, piuttosto a ciò che sta provando, e per quale motivo il resto del mondo non sembri minimamente accorgersi del suo disagio.

Splendidamente resa da Cate Blanchett, che sembra tornare a ragionare su alcuni elementi psicologici già presenti nella Jasmine raccontata da Woody Allen in Blue Jasmine – ma qui destinati a tutt’altro percorso e sviluppo, sia mentale che emotivo –, Bernadette Fox non è “una donna in crisi”, ma semmai una donna che ha scientemente chiuso con il mondo di cui fa parte. Ha chiuso con l’architettura, di cui era genio incontrastato (meglio, contrastato da chi ne voleva svilire il pensiero, basato sul recupero dei materiali, sull’armonia tra costruzione e natura); ha chiuso con la California, ma odia Seattle, la città in cui si è trasferita e che non ha mai neanche cercato di instaurare un rapporto con lei. Ha chiuso con amici e vicini, a partire dalla petulante borghesuccia che le vive accanto e su cui riverserà parte della sua crudele vendetta. Ha chiuso con l’America, nella quale non sa più collocarsi, tema centrale della poetica linklateriana. Riversando tutto sulla propria famiglia l’ha parzialmente crepata, senza sapervi trovare rimedio. Un ritratto umano dolorosissimo e coraggioso, soprattutto negli Stati Uniti sempre più conservatori e bigotti, abbarbicati all’apparenza e alla superficie.

Se si può rintracciare una colpa in Che fine ha fatto Bernadette? essa risiede nella volontà netta di suddividere il film in due tronconi. Così come esistono due Bernadette – una passiva e l’altra attiva, o ri-attivata – esistono due film, due tipologie di racconto. La prima, che è anche la più convincente, è lo scandaglio preciso e acuto di una crisi umana in corso. Una progressiva disgregazione, un collasso lento ma inesorabile (come la slavina di fango e terra che distrugge una festa per bambini). A questo spezzone fa da contrappunto una seconda parte schizoide, bizzarra, che gioca sul registro della commedia indie di fatto smentendone alcuni dei punti cardine, ma allo stesso tempo immergendosi in profondità in una palude da cui è molto difficile poter uscire indenni. Qui il racconto si fa più difficoltoso, con il suo ritmo rocambolesco, la sua tendenza al picaresco, il ricorso a personaggi esasperati fino alle estreme conseguenze – in tal senso la sequenza centrale, con l’irruzione in scena di un goffo agente dell’FBI, è anche la più spiazzante in assoluto.

Si può facilmente voltare le spalle al film, bollandolo come indeciso o imperfetto e passando oltre. Ed è quello che ha fatto, senza eccezioni, la critica d’oltreoceano. Ma così agendo si corre seriamente il rischio di smarrire la perla nascosta dall’ostrica, la riflessione sempre accorata e coinvolta (prima ancora che coinvolgente) su una donna e un’artista, sulla sua incapacità di comunicare con il mondo esterno, di ritrovarsi in un’immagine che non sente propria. In quel bozzetto che solo bozzetto non è Linklater sa rintracciare come sempre la sua fiducia nell’umano, pur disperso com’è nell’abbrutimento di una contemporaneità vacua e pretenziosa. Lì, nell’immagine di una donna e di sua figlia che cantano a squarciagola in automobile Time After Time di Cyndi Lauper, c’è la differenza tra la ricerca “avventurosa” che prevede viaggi di migliaia di chilometri e quella di tutti i giorni, con troppa facilità smarrita nel cumulo di tecnocrazia in cui si avvolge, a mo’ di coperta protettiva, l’umanità occidentale.

pubblicato su quinlan.it, 12/12/2019 di Raffaele Meale


giovedì 10 ottobre 2019

VOX LUX di Brady Corbet (2018)

L’ascesa della quattordicenne Celeste dalle ceneri di un’immensa tragedia nazionale a superstar pop. Una parabola umana e artistica di diciotto anni, dal 1999 al 2017, attraversando alcuni importanti momenti culturali, storici e politici degli Stati Uniti, filtrati dallo sguardo dei Celeste…


Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2018, Vox Lux è uno A Star Is Born cinico, programmaticamente schizofrenico, smaccatamente ambizioso. Uno sguardo impietoso sulla deriva culturale e politica degli Stati Uniti e del mondo contemporaneo: la giovane Celeste, nel suo percorso da eroina a superstar pop, è Madonna, è Britney Spears, è Miley Cyrus, ed è soprattutto l’incarnazione di un vuoto dilagante, della mutazione genetica dei valori, della cancrena del mondo dello spettacolo (dove spettacolo sono anche politica e informazione). Esteticamente e narrativamente debordante, fertilmente trieriano.


Erano elevate le attese per l’opera seconda di Brady Corbet, che nel 2015 aveva sbancato Orizzonti con l’ambizioso e potente The Childhood of a Leader. Tre anni dopo, potenza e ambizione restano intatte: presentato in concorso (e accolto da non pochi fischi), Vox Lux è un lavoro complesso, stratificato, persino intricato. Martellante, come la sua colonna sonora. Impietoso nella sua analisi, nella lettura della realtà e della Storia recente. Una parabola morale, estetica, culturale. Una parabola ovviamente discendente, luciferina.

Vox Lux indaga i lati oscuri taciuti dall’innocuo A Star Is Born, è una sorta di trasversale biopic del pop e di Madonna (e Britney Spears, e Miley Cyrus), è il punto di arrivo di un percorso iniziato con l’edonismo reaganiano. È l’America che ha perso ripetutamente la sua innocenza, tragedia dopo tragedia, risveglio dopo risveglio: una lenta ma inesorabile discesa morale che ha radici lontane, interne, come il brutale omicidio della famiglia Clutter (1959), la morte di JFK (1963), il Vietnam (1965/75) e poi, via via, fino all’11 settembre 2001 e oltre. Corbet unisce una lunga serie di puntini: il massacro della Columbine High School, le Torri Gemelle, l’agonia dell’informazione e del mondo dello spettacolo, la perdita dell’innocenza di una nazione, il dilagare del cinismo (social), la sconfitta del talento. Cinema di contenuti, ma anche di messa in scena, altrettanto ambiziosa, elaborata, spavalda. Tra gli altri, riecheggia prepotentemente von Trier. Notevole.

1986. Madonna pubblica il suo terzo album, True Blue. Per la prima volta, un album di una cantante entra direttamente alla numero 1 nella Billboard Top 200. È nata una stella. Nello stesso anno, nella storia quasi vera di Vox Lux, nasce Celeste.

1999. I giovani Eric Harris e Dylan Klebold entrano a scuola, armati fino ai denti. È il 20 aprile, il giorno del tristemente noto massacro della Columbine High School. Lo abbiamo visto in Elephant di Gus Van Sant, lo ha raccontato a suo modo Michael Moore con Bowling for Columbine. In un’altra cittadina, in un’altra scuola, lo rimette in scena Corbet: lo vive, sopravvivendo, Celeste. La brava, buona, morigerata Celeste.
Prologo, primo atto, secondo atto, epilogo. Vox Lux scandisce soprattutto il tempo degli Stati Uniti, le sue ferite visibili e invisibili. Anche quelle lontane, come l’attentato a Sousse (Tunisia), qui diventata Croazia. Spiaggia, mare, ombrelloni, mitra e cadaveri.

Come nel precedente The Childhood of a Leader, la pellicola è cadenzata in atti. Una scelta elegante ma non gratuita, funzionale anche alle ampie ellissi narrative, ai balzi spazio-temporali, alle mutazioni fisiche, caratteriali, etiche. Come la voce narrante, evidentemente d’ispirazione trieriana – è di Willem Dafoe, non sembra un caso, come la presenza di Stacy Martin. Una sequenza mirabile tra le tante: il soggiorno a Stoccolma, un passaggio fondamentale, il punto di non ritorno. Corbet lo risolve con la voce narrante che segue e illumina uno sfrenato fast forward: la ragazzina religiosa è pronta per costruire una nuova Chiesa.
Genesi e Rigenesi. Primo e secondo atto. I passaggi da vittima a carnefice, da ragazzina di provincia a (abbondantemente sovrastimata) star del pop, sono intrisi di intuizioni estetiche e narrative. Forma e contenuto. Ancora una volta, preziosissime, le noti stordenti di Scott Walker. E poi la glaciale messa in scena del primo massacro, il dinamismo frenetico del secondo. Slittamenti stilistici e di senso. E di costume, di informazione. Di estetica imperante.

Vox Lux accatasta una sorprendente quantità di materiale, di riflessioni e intuizioni. Riporta sullo schermo le Torri Gemelle, gioca con i suoi attori (Raffey Cassidy, giovane volto da seguire con attenzione), rallenta e accelera, tratteggia sconfitte e sconfitti che riportano a Viale del tramonto, a Eva contro Eva a È nata una stella. Ci mostra il dietro le quinte dello Show, ci mostra il trionfo del Nuovo Testamento di Celeste. Il trionfo del vuoto, del nulla. Il proseguimento del reaganismo, il tradimento degli anni Settanta. L’epilogo è abbacinante, come la performance di Natalie Portman nella sua triplice veste di Madonna/Spears/Cyrus. Lei che è stata il cigno di Aronofsky (Black Swan). Lei che può tutto. Bravissima.

pubblicato su quinlan.it il 9 Ottobre 2018, di Enrico Azzano

lunedì 26 agosto 2019

PARASITE di Bong Joon-ho (2019)



da www.sentieriselvaggi.it , 22 Maggio 2019 di Simone Emiliani

La strada, gli interni. Dove c’è spesso qualcosa che viene nascosta. Il cinema del coreano Bong Joon-ho è spesso pieno di zone d’ombra. Che si possono manifestare a livello più intimista come in Mother. Ma che possono costituire anche il nucleo narrativo principale (i delitti di Memories of Murder). Oppure manifestarsi anche al livello di spazi. Il treno di Snowpiercer sembra avereuna conformazione più irregolare nello scantinato di Parasite. Però appaiono luoghi infiniti. Che dietro una porta, se ne apre ancora un’altra.

Forse anche Parasite, come The Host, è un film di mostri. Si, non è sci-fi. Anche se il titolo potrebbe ingannare. Perchè dietro ogni volto dei protagonisti, sembra nascondersene un altro. Quasi satanico. Come se fossero pronti a un’improvvisa mutazione. Questo sicuramente avviene per tutta la famiglia Ki-taek. Vive in uno scantinato, cerca ai collegarsi a qualunque wi-fi degli altri. E padre, madre e i due figli sono tutti disoccupati. Il figlio però trova un impiego come insegnante di inglese della figlia della ricca famiglia Park. Visti gli ottimi risultati, riesce a far assumere tutti gli altri. Poi però, una scoperta inaspettata scatena una serie di eventi incontrollabili.

Dopo la trasferta statunitense di Snowpiercer e Okja, il cineasta coreano torna in patria con una commedia nera che si mescola alla satira sociale. Dove ogni azione sembra tutta controllata al millimetro. Soprattutto nella scena dove le due famiglie si trovano, all’insaputa dell’altra, nello stesso soggiorno. Lo scarto sociale è diretto. Ed entra in gioco un’altro elemento di Bong Joon-hoo, ossia quello dell’identità. I Ki-taek guardano i Park per prenderne il posto. Il metodo è sicuro. Anche funzionale. Ma schematico. C’è spesso un’inquadratura di troppo nel suo cinema, una disperazione e, insieme, un umorismo sempre controllati. Una recitazione nella recitazione che diventa ripetitiva una volta svelato il gioco. Traiettorie geometriche che poi si spezzano come nella festa del bambino. E in cui scatena quel delirio che puzza ancora di forma. Cerca continuamente lo spiazzamento. Anche con l’uso di brani particolari come In ginocchio da te di Gianni Morandi. Ma in realtà la strada è molto sicura. Non c’è nessuna intenzione di smarrirsi.

Bong joon-ho usa i suoi protagonisti come pedine per il suo gioco al massacro. Haneke non è poi così lontano. Ricicla il proprio immaginario visivo come nella scena della pioggia che ha allagato l’abitazione dei Ki-taek. Nella distinzione di classe non gli interessa il mistero del’ottimo Burning di Lee Chang-dong, in concorso proprio l’anno scorso. E le sue famiglie sembrano lì proprio per il tempo del film. Nascono e muoiono con lo script. Tutto all’opposto di quelle di Kore-eda. Di cui si vorrebbe vedere la vita che c’era prima e quella dopo.


da www.quinlan.it, 23 Maggio 2019 di Enrico Azzano

Ki-taek, Chung-sook, Ki-jung e Ki-woo. Padre, madre, figlia e figlio. La famiglia di Ki-taek è molto unita, ma sono tutti disoccupati, vivono in un appartamento fatiscente e sembrano condannati a un futuro desolante. Grazie alla raccomandazione di un amico, studente in una prestigiosa università, il giovane Ki-woo riesce a ottenere un lavoro ben retribuito: sarà l’insegnante d’inglese di Da-hye, figlia adolescente della ricca famiglia Park… 

Che cos’è Parasite?
Una prima possibile risposta.

Il musicarello è un sottogenere cinematografico italiano, in gran voga negli anni Sessanta. Il termine è gergale, un po’ come i sandaloni, ma calza a pennello. Ci son passati un po’ tutti: Domenico Modugno, Fred Buscaglione, Adriano Celentano, Mina, Teddy Reno, Tony Dallara, Little Tony, Bobby Solo, Caterina Caselli e via discorrendo. Sì, anche Gianni Morandi. Tra i vari registi che hanno frequentato il genere, Ettore M. Fizzarotti è stato tra i più prolifici, quello con la produzione più significativa: Una lacrima sul viso (1964), Non son degno di te (1965), Perdono (1966), Stasera mi butto (1967), per citarne alcuni. Poi, certo, anche In ginocchio da te (1964) con Gianni Morandi, Laura Efrikian, Margaret Lee e Nino Taranto. Rapidamente sulla trama: Gianni parte per Napoli per il servizio militare, si innamora di Carla, la figlia del maresciallo, ma la tradisce con la bella e soprattutto ricca Beatrice. Ovviamente tornerà, in ginocchio da lei. Il film è un veicolo pubblicitario per l’omonima canzone, e viceversa. La differenza di classe, le frizioni pur ingenue e pallidissime tra poveri e ricchi, è un tema ricorrente nei musicarelli.

Che cos’è Parasite?
Una seconda possibile risposta.

Volendo impuntarsi su Noi (US), horror apertamente e splendidamente socio-politico, potremmo sottolineare alcune smagliature narrative, forzature che fanno parte del gioco e che giustificano allegramente la sagace struttura geometrica messa in piedi da Jordan Peele. Un sotto-sopra tagliente, rabbiosa metafora di una società spietata e impermeabile. Quasi impermeabile. Molte domande restano lì, sospese: in fin dei conti, ci si riempie gli occhi col quadro generale, con l’intuizione narrativo-schematica, e si può sorvolare a cuor leggero sulle falle dei due meccanismi.
In Snowpiercer la lotta di classe era lineare, vagone dopo vagone. Un film muscolare con qualche crepa nella scrittura e nella sua geometrica struttura. L’idea della possibile via d’uscita, anche se intrisa di improbabile ottimismo, rendeva monca la metafora socio-politica e imperfetta la relativa linearità. 

Imperfezioni spazzate via dall’ultimo tassello di Bong Joon-ho: Parasite si inserisce in una poetica che si nutre da sempre di politica, stratificazioni, schemi e circolarità (ad esempio, i finali di The Host e Memories of Murder). Uno sguardo umanissimo e al contempo da puntiglioso entomologo – la sequenza degli scarafaggi, la corsa a quattro zampe su per le scale.

Che cos’è Parasite?
Una terza possibile risposta.

Nel finale di Una vita difficile di Dino Risi, Magnozzi (Alberto Sordi) rifila un celeberrimo ceffone all’affarista carogna Bracci, facendolo finire in piscina. Un finale liberatorio, consolatorio, ma non esattamente un lieto fine. Nel cinema sudcoreano, in particolare nella trilogia della vendetta di Park Chan-wook, il riscatto è inevitabilmente intriso di violenza e passa spesso attraverso qualche lama affilata – emblematica la sequenza di Mr. Vendetta in cui un disperato ex-dipendente di Park Dong-jin si autoinfligge con un coltellaccio delle terribili ferite, mentre Park lo osserva con glaciale noncuranza. Il Park di Mr.Vendetta è il talentuosissimo Song Kang-ho, capo della sbalestrata famiglia di Parasite. Vendetta e riscatto hanno varie forme, motivazioni e cause scatenanti.

Che cos’è Parasite?
Una quarta possibile risposta.

Di Parasite ci porteremo dietro/dentro alcune immagini.L’incipit, il primo fotogramma: i calzini stesi – odore e profumo sono una questione di classe. La sequenza della corsa notturna lungo quelle interminabili scale, quasi una discesa agli inferi che traccia la distanza tra ricchi e poveri. A ognuno il proprio posto. Con buona pace di Peele.

Il disco di In ginocchio da te, una perfetta parte per il tutto: l’abuso di inglesismi, le lezioni di espressione artistica, la musica lirica, l’incapacità di saper realmente valutare il valore degli oggetti, di un dipinto, della preparazione di una persona, ma anche di un piatto. Levigata apparenza e profonda ignoranza.

Il codice Morse, perché la lotta di classe è anche lotta contro se stessi. Spesso si perde.
Parasite è una commedia, un thriller, un dramma. È la calzante rappresentazione della nostra società, delle sue dinamiche – un po’ paradossalmente (ma nemmeno troppo), è anche la fotografia della rigida struttura gerarchica di Cannes, della divisione in caste e delle stesse lotte intestine tra le caste, tra i fantomatici colori dei badge. Barking Dogs Never Bite. È cinema ricco di invenzioni e intuizioni narrative, apparentemente debordanti, eppure perfettamente inserite in uno schema. Nello schema. È Peele, è Loach, ma con una stordente lucidità e un ritmo travolgente. Si ride, si ride amaro, poi non si ride più. Bong colpisce duro: il flashback e il flashforward sono come un uno-due. Destro e sinistro. Al tappeto. Dura rialzarsi.

martedì 11 giugno 2019

Il Traditore, di Marco Bellocchio



pubblicato su sentieriselvaggi.it, di Carlo Valeri – 24 maggio 2019

“Si muore sempre per qualcosa. La morte ci accompagna” dice Giovanni Falcone a Tommaso Buscetta durante un interrogatorio. Si muore e basta. Il traditore è quasi un film gemello di Fai bei sogni. È un altro affresco sulla morte e soprattutto sulla sua (impossibile) rimozione. Il Tommaso Buscetta di Marco Bellocchio e Pierfrancesco Favino ripete a tutti di non aver paura di morire, ma viene continuamente risucchiato da una scia luttuosa che lo insegue fino alla fine dei suoi giorni. I cadaveri delle persone che ha ucciso, quelli dei figli e dei fratelli, quelli di Falcone e dei poliziotti uccisi: Il traditore è costellato di morti e funerali. Del resto in una scena onirica tipicamente bellocchiana è lo stesso Buscetta a immaginare una cerimonia funebre circondato dai familiari che lo piangono e lo sigillano in una bara.

Ecco allora che la fotografia di Vladan Radovic sembra sempre velata dalla cenere, avvolge il film nel grigiore burocratico dei piani alti del Potere e nell’oscurità di un Paese e di un personaggio memorabile e ambiguo. Il pentito che con le sue confessioni mise in ginocchio Cosa Nostra contribuendo all’arresto di almeno trecento mafiosi è un donnaiolo che rifiuta di invecchiare, si veste come un uomo d’affari, abbandona la Famiglia per mettersi in proprio e costruire un impero in Brasile, è un gangster che attraversa due mondi. C’è qualcosa del Carlos di Olivier Assayas nel Buscetta libertino e “internazionale” de Il traditore – la sceneggiatura è scritta dallo stesso Bellocchio in collaborazione con Francesco Piccolo, Valia Santella, Ludovica Rampoldi e Francesco La Licata – in una aperta contrapposizione con lo psicopatico e moralista Totò Riina, che nelle scena del confronto in tribunale diventa un duello simbolico tra due tipologie di villain contrapposte e ostentatamente speculari: l’imprenditore moderno che crede nei vecchi ideali di onore e diventa eroe mediatico (Buscetta), il boss tradizionalista e ignorante che vive nell’ombra e cambia le regole uccidendo donne e bambini (Riina).

Dopo Buongiorno Notte, Vincere e Bella addormentata, Bellocchio aggiunge un altro tassello alla sua personale rivisitazione della storia d’Italia. Lo fa attingendo al repertorio linguistico e narrativo del cinema civile per poi comporre una materia tutta sua e firmare quello che per costi e dimensioni è il film più mainstream della sua carriera. Il montaggio serratissimo di Francesca Calvelli ci porta inizialmente alla festa di Santa Rosalia del 1980, dove vengono presentati con i nomi in sovrimpressione i boss di Cosa Nostra, Riina appunto, Salvatore Contorno, Pippo Calò, Gaetano Badalamenti. La narrazione attraversa gli anni ‘80 e ‘90, fino all’epilogo nel 2000 ed è scandita da una prima mezz’ora velocissima, violenta e inconsueta per la filmografia bellocchiana. La prima parte ambientata in Brasile con l’arresto di Buscetta, le minacce in elicottero e le torture da lui subite sembrano infatti venire direttamente da un gangster movie sudamericano. Poi arriva la collaborazione con lo Stato italiano, il rapporto con Falcone raccontato in poche scene, con stile essenziale, il processo anti-mafia, in cui la macchina da presa si fa più statica e si ferma a registrare l’ironia tragica e teatrale di una commedia umana sulla giustizia dove è la parola e il linguaggio a prendere il sopravvento – memorabile la scena in cui il Contorno interpretato da Luigi Lo Cascio parla in dialetto siciliano e non viene capito da nessuno. 

E poi Il traditore (il film come il personaggio!) cambia di nuovo registro e il racconto si concentra sul romanticismo e sui sensi di colpa: Buscetta piange sui figli che ha lasciato morire durante la sua latitanza e canta Historia de un amor connotando un’ultima parte che diventa straziante e crepuscolare.
Un film cupo insomma, decisamente bellocchiano. E allo stesso tempo nuovo e ricco di soluzioni e di tanti possibili film diversi. Cinema di genere, cinema civile, cinema d’autore. Un ritratto che già meriterebbe di entrare di diritto nella storia recente del cinema italiano.

martedì 21 maggio 2019

Dragged Across Concrete (2019) di S. Craig Zahler


Di Matteo Regoli-17 Aprile 2019 pubblicato su www.mangaforever.net
Il film è stato presentato all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
La nomina di “John Carpenter del XXI secolo” il regista S. Craig Zahler se l’era già conquistata con il clamoroso film d’esordio Bone Tomahawk e poi l’aveva calcificata con Brawl In Cell Block 99: con la sua nuova fatica, Dragged Across Concrete,  presentata in anteprima alla scorsa Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e arrivata negli Stati Uniti dal 22 marzo, alimenta una filmografia sempre più essenziale, e per messa in scena e per rilevanza nel contesto del b-movie indipendente che sta sempre più scomparendo dai cinema di tutto il mondo.
Nel cinema di Zahler ogni film è un manifesto della sua visione, tutto ruota intorno a uomini duri guidati da codici morali rigorosi ma che per un verso o per un altro finiscono sempre per prendere la decisione peggiore possibile, in un continuo e perverso gioco al rilancio in cui tutto diventa sempre più ingestibile e asfissiante: per questo autore dalla mentalità nichilista e la messa in scena magistrale la vita è una continua lotta nelle sabbie mobili, con l’agitarsi in cerca di spazio che porta inevitabilmente alla riduzione sistematica di quello spazio, che intrappola, soverchia, schiaccia, uccide.
Come Carpenter Zahler (oltre a comporsi pure lui le proprie colonne sonore!) gioca con i generi e li adatta alla sua visione, unendoli in un connubio di atmosfere e pragmatismo da serie b ad una tecnica da scuola del cinema, tutto per raccontarci la società contemporanea e i lati più oscuri della natura umana: lo aveva fatto con il camaleontico Bone Tomahawk nel 2015 e poi ancora con Brawl due anni dopo, e in Dragged Across Concrete, ad oggi il suo film più lungo (due ore e quaranta!) e anche quello più politico, ripropone un’altra sceneggiatura ridotta all’osso – ma carica di situazioni e dialoghi che con poco rivelano tantissimo – che straripa di ironia sottile e tagliente, di una violenza grafica inaudita e soprattutto di una voglia pazzesca di andare dritti al punto, senza giri di parole o ghirigori.
Nell’epopea noir con protagonisti Mel Gibson e Vince Vaughn – che si ritrovano dopo aver lavorato insieme sul set de La Battaglia di Hacksaw Ridge, diretto proprio da Gibson – succedono così tante cose che un qualunque altro regista all’infuori di Zahler avrebbe aggiunto dettagli di fondo al materiale di partenza per realizzare una mini-serie tv: aggiungere è però un termine che non compare nel vocabolario di questo autore, e il risultato è una narrazione in cui nulla è accessorio e tutto è fondamentale, da personaggi che vengono introdotti in una scena e poi buttati nel mondo a farsi investire dagli eventi (che come al solito rappresentano una progressiva discesa all’inferno) a sequenze d’azione magistrali messe in scena con una calma chirurgica e una precisione che rifugge la frenesia, perché consapevole dell’esito finale.
Non sorprende la funzione allegorica che Zahler infonde ad alcuni passaggi, una costante del suo modo di fare cinema, ma non per questo meno lodevole. Fortemente politicizzato, Dragged Across Concrete sembra voler sottolineare quanto la percezione che la società ha dei suoi individui stabilisca l’identità di quegli individui, in un gioco di gatto col topo fra percezione pubblica e contesto privato: si può essere accusati di razzismo dall’opinione pubblica anche se profondamente innamorati di una donna di colore con la quale si convive e che si vuole sposare ad ogni costo, e più che i proiettili e i fucili sono le fotocamere dei cellulari l’arma definitiva per vincere ogni partita a scacchi della vita, che essa prenda luogo di giorno negli uffici o negli oscuri anfratti del sottobosco criminale.

Che le due morti eccellenti della storia ruotino entrambe intorno all’utilizzo di un cellulare riassume questo tema in maniera sublime: siamo indissolubilmente e definitivamente legati ad esso, al punto che la nostra fine arriva con la sua distruzione.

mercoledì 17 aprile 2019

ORO VERDE – C’ERA UNA VOLTA IN COLOMBIA di Ciro Guerra, Cristina Gallego







Colombia del Nord, 1968. In una comunità di etnia wayùu il giovane Rapayet vorrebbe sposarsi con una giovane appena entrata nella vita sociale. Tuttavia l’uomo deve procurarsi una dote cospicua e per questo si avvia in cerca di animali con un amico fraterno. Lungo il viaggio i due scoprono la commerciabilità della marijuana locale, oggetto d’interesse di alcuni americani di passaggio nella zona. Di lì si snoda sull’arco di 12 anni il racconto di una progressiva escalation di violenza intorno all’inaspettata “scoperta dell’oro”… 

Cogliere il momento in cui l’innocenza si tramuta in calcolo, l’istinto alla vita e la sua difesa tramite riti ancestrali scoprono l’interesse privato, la prevaricazione assurge a sistema economico aprendosi al “mercato”. In sostanza, quando la collettività si tramuta in individuo. Pájaros de verano di Ciro Guerra e Cristina Gallego (che in Italia diventa Oro verde – C’era una volta in Colombia) si presenta innanzitutto come un’opera fortemente stratificata, altamente ambiziosa e capace di rispondere più o meno a tutte le ambizioni che si prefigge. L’obiettivo è quello dell’affresco antropologico, nel procedere del racconto sempre più semplificato nelle sue componenti, che si trasforma a poco a poco in stupefacente rilettura del cinema di genere, capace di assommare in sé riflessioni politico-culturali in una scala sempre più ampia di portati e significanze. Con la vastità narrativa di una saga appassionante, che riaggiorna i modelli della tragedia classica a una seminale ricerca antropologica senza trascurare derivazioni dal cinema di genere, passo dopo passo Guerra e Gallego compongono un’opera polifonica sconcertante e intelligente nel rileggere varie modalità cinematografiche in un unico e coerente progetto filmico.

Si snoda su 12 anni, tra il 1968 e il 1980, il racconto dei destini di un clan colombiano di etnia Wayùu di stanza nel nord del paese, che esordisce nel film tra riti d’iniziazione, promesse di matrimonio e doti da raccogliere per potersi conquistare la futura moglie. Ma in quella Colombia, dove l’antieroe Rapayet si pone in marcia per mettere insieme la dote in compagnia di un amico fraterno, c’è un’altra merce destinata ad avere un più sicuro e solido mercato: la marijuana, adocchiata da un primo segnale di alterità che si manifesta nel paesaggio sotto forma di hippies americani (i Peace Corps statunitensi che a suo tempo furono accusati di insegnare in realtà ai contadini colombiani come coltivare e commercializzare i narcotici). E c’è anche una precisa propaganda portata da questi stranieri: opporsi al comunismo. Perché quell’erba deve tramutarsi in merce, secondo un’idea deviata di scambio capitalistico.
Oro verde – C’era una volta in Colombia registra così la lenta e inesorabile invasione che il mondo “altro” compie nei confronti di una comunità chiusa in sé, isolata in riti ancestrali e modelli di cosiddetta vita premoderna. Così, dopo qualche iniziale incertezza Rapayet si apre alla trattativa con gli americani, il piccolo mercato si tramuta in grande scambio, il denaro e il miraggio di un benessere identificato in modelli lontani attraggono nel loro ineluttabile fascino, travolgendo tutti. E intanto gli anni passano, le generazioni si succedono, mentre la violenza implicita nel concetto occidentale di mercato devia e deforma le coscienze. A poco a poco, Oro verde – C’era una volta in Colombia si trasforma in saga, noir, western, costeggiando il cinema di genere pur nella salda adesione al proprio orizzonte culturale e non cedendo un centimetro alla superficialità d’approccio. Il discorso di Guerra e Gallego si conserva esplicitamente politico, svolto secondo spietati procedimenti di causa/effetto inquadrati in un secco determinismo socio-economico. Il mercato, specie se identificato nella sua versione deviata dell’attività criminosa, spacca, divide, allontana, mette uno contro l’altro, spinge a rompere vincoli ancestrali, opera per la distruzione sotto l’apparente alibi della costruzione.

Certo, in un contesto di questo tipo a poco a poco la fedeltà al dato antropologico cede il passo magari al colore locale, e all’emozionante incipit, fatto di canti, balli e virtuosismi di ripresa, seguono citazioni più scolastiche e superficiali dei riti sui quali si fonda la cultura narrata. In pratica, il rito diventa motore d’azione, funzione narrativa, andando incontro a un mutamento formale che sembra ripercorrere e duplicare il percorso di corruzione morale narrato dal film. Si corrompono e vanno incontro a estinzione un’intera comunità e la sua cultura, e contestualmente si corrompe pure la rappresentazione del rito, che è ridotto poco per volta a strumento funzionale di racconto. Così come risulta duplicato il concetto di clan, al quale intelligentemente Guerra e Gallego riconducono le origini della vendetta interna e le contestuali ricadute nel moderno concetto di clan criminale (tesi pure ambigua e azzardata, ma consequenziale nella sua logica). In pratica, dalla spontaneità si passa alla sistematizzazione, dalla libera espressione alla razionale funzione.
Così, seguendo la struttura di una tragedia sapientemente allestita in cinque atti ben distinti, Oro verde – C’era una volta in Colombia si delinea come una sorta di saga padrinesca in ambito etnico con piena filologia rispetto all’uso della lingua wayùu, dove niente può opporsi alla disfatta culturale davanti a modelli che s’impongono con la loro capacità di solleticare bassi istinti. Guerra e Gallego squadernano un’ammirevole sapienza di messinscena, che non disdegna sorprendenti uscite verso il conclamato cinema di genere (vi è posto pure per un “Mexican standout” di lunga tradizione, che di prima impressione ricorda le riletture tarantiniane) mantenendo però una salda e determinata significazione. Più volte interviene anche la gelida messincena di grottesche iperboli (quella bianca villa che d’improvviso si staglia, geometrica nel disegno, nell’incoerente paesaggio brullo; i pacchi di marijuana che si moltiplicano su scala esponenziale come i velivoli incaricati del loro trasporto), mentre i rappresentanti di un’antica cultura minoritaria vanno incontro a una bizzarra e stridente musealizzazione – la loro collocazione negli interni della villa. In ultima analisi, quel che viene scoperto dalla comunità wayùu protagonista è la sistematizzazione della violenza, che da garante implicito della stabilità di una cultura si tramuta in esplicito atto economico, del tutto sintonico a un nuovo modello di vita basato sulla prevaricazione prodotta in serie. E non è un caso se il salto decisivo verso la scoperta della gratuita umiliazione avvenga per via di uno sciroccato rappresentante della nuova generazione. Una volta innescato il tritacarne, la violenza genera violenza, la sete di potere fa scoprire il piacere distorto del dominio sugli altri. Di lì al suicidio eterodiretto di un’intera cultura non vi è che un passo.

Il discorso di Guerra e Gallego è insomma chiaro ed esplicito, e non lascia spazio a molte interpretazioni alternative. Tuttavia la coppia di autori evita il rischio del rigido film a tesi rifrangendo il racconto sulle strutture assolute della saga e della tragedia. Raccontando cioè una precisa tragedia storica, colta agli albori di un futuro e fiorente regno del narcotraffico, ma collocata nel panorama della tragedia universale dell’innocenza perduta. Avvincente, appassionante, potente. Si vede, e rimane la voglia di rivederlo subito. E non è poco.



Titolo originale: Pájaros de verano
Colombia, Danimarca | 2018
Regia: Ciro Guerra, Cristina Gallego
Sceneggiatura: Jacques Toulemonde Vidal, Maria Camila Arias
Fotografia: David Gallego
Interpreti: Carmiña Martínez, Jhon Narváez, José Acosta, José Vicente Cotes, Juan Martínez, Natalia Reyes
Colonna sonora: Leonardo Heiblum
Durata: 125'
  
Pubblicato su quinlan.it il 05/12/2018 di Massimiliano Schiavoni