lunedì 14 novembre 2011

Ma che cazzo ce ne frega del Trolley di Cheyenne (tagliati i capelli……….. leggera)


Ci si chiede in molti che cosa passa nella mente di Sorrentino. Il percorso di redenzione di Cheyenne, che lo porta a crescere, maturare attraverso un complesso e scontato “on the road” dentro il repertorio dei propri irrisolti e delle proprie paure, fa sorridere e un po’ incazzare.
L’idealtipo della star/nevrotica/assessuata/agenerazionale, ben interpretata da Sean Penn, racchiude molti degli stereotipi di molti cinquantenni/quarantenni di oggi ed è sinceramente patetica, come sono patetici i tentativi di dare spessore a una storia che poteva avere senso 20 o trenta anni fa, ma che oggi sembra essere inesorabilmente slegata da qualsiasi senso del contemporaneo.
Tra i non luoghi irlandesi, quelli del midwest americano e i non luoghi della mente del povero Cheyenne che, alla perdita di senso complessiva della propria esistenza vissuta in uno scenario fatto di supermercati e di spazi vuoti, reagisce andando ad affrontare il rapporto irrisolto con il padre e addirittura i temi dell’olocausto, tutto ciò per riacquisire un po’ di senso e di motivazione fino ad arrivare a un percorso di crescita e di evoluzione che lo conduce ad abbandonare le proprie paure…… e finalmente crescere, nell’orrore della normalizzazione del personaggio.
Cheyenne/Sorrentino ragiona come una rockstar (e chi se ne frega) vive una vita privilegiata in una villa con piscina e con una superba Frances McDormand che incomprensibilmente lavora come pompiere e fa da badante al protagonista, si aggira nel vuoto e lo spaesamento delle architetture contemporanee attanagliato nel senso di colpa per la morte di suoi giovani fan quando probabilmente la sua poetica invitava al suicidio purificatore, ha come migliore amica un’adolescente pseudo emo che lo aiuta a sottolineare, ancora una volta, l’esistenza di mondi paralleli non destinati ad incontrarsi.
Il groviglio Cheyenne, col suo cazzo di trolley oggetto culto centrale del film che rappresenta il passato traballante denso di sensi di colpa su cui il vecchio ragazzo si appoggia nel suo ciondolare per i quadri del film, quando finalmente si degna di tornare al capezzale del padre morente comincia il suo viaggio nella sua anima e nel suo passato in una desolatamente banale rappresentazione dei decadenti spazi dell’ormai periferia del mondo degli States con una inquietante rassegna di improbabili personaggi abbozzati e mai conclusi, tenendo al centro il ritmo della lentezza e della depressione della patetica rock star.
Il finale, sia rispetto alla conclusione della “caccia metaforica” al criminale nazista sia del ritorno alla “normalità” è la conferma dell’inutilità del film, che con tutta probabilità è un omaggio che Sorrentino fa alla sua adolescenza, al suo gruppo di amici con cui si faceva le cannette e ai suoi miti di gioventù.
Un film ricco di budget, gadget e povero di idee innovative. Coraggioso si, il coraggio di chi pensa di poter dire quello che vuole prendendo per il culo il pubblico e non dicendo nulla di nuovo ne dal punto di vista formale ne dal punto di vista narrativo.
E poi diciamolo, ode alla permanenza nell’inconscio personale e collettivo dell’indeterminatezza dell’evoluzione e della crescita, noi preferiamo Peter Pan a John Wayne ……… viva le clipper abbasso i camperos, viva il make up abbasso i menti squadrati.
Rock’n’roll never dies.

1 commento:

PParker ha detto...

domanda nata spontaneamente: la caratterizzazione del personaggio Cheyenne è stata studiata guardando più episodi de "gli osbourne"?