http://www.youtube.com/watch?v=BNxa0odpCJU
Il ritorno sulle scene musicali dei Dead Can
Dance mi ha riportato, per qualche momento, a molti anni fa, ai ricordi di una
Genova che ora mi sembra così lontana, una Genova in cui anche un ventenne affamato di musica come il sottoscritto,
riusciva ad ascoltare i propri miti musicali dell’epoca, una Genova che viveva
di luoghi di aggregazione, che non
fossero solo anonimi bar da aperitivo, luoghi
come lo Psyco, il teatro Albatros, il cinema-teatro Verdi, il Dlf. Una Genova
che raccoglieva, a seconda dell’evento, decine o centinaia di giovanie entusiasti, e non
solo, che aspettavano con trepidazione di vedere ed ascoltare sul
palco della propria città gruppi e nomi d'Oltremanica, d'oltreoceano, assurti in quel
periodo ad icone musicali vere e proprie, senza dover per forza macinare
chilometri per andare a Milano o in altre città della penisola.
Capita spesso, con chi ha condiviso le stesse
passioni, di ricordare quella Genova, che vista oggi sembra un’altra città per chi, come il sottoscritto, ormai ha
raggiunto e passato anagraficamente i tanto vituperati ‘anta, quindi anche a chi ha meno voglia di vivere la notte o ha voglia di viverla in altri modi. Una
città in cui oggi non esistono più spazi di quel genere, teatri piuttosto che
cineclub, qualcuno chiuso, altri trasformati in tristi supermarket o in luoghi
senza identità. Una città, che parlando oggi con chi opera nell’ambito della
cultura, con chi tenta o vuole proporre alternative alla sterilità del panorama
musicale, teatrale, cinematografico odierno, non trova più spazi dove proporsi e proporre, ma neanche
disponibilità da parte del pubblico, mosso da quello spirito che animava le notti genovesi degli ’80 e dei ’90, quello
spirito che si intravede in un numero sempre più ridotto di persone, cui sembra
mancare l’entusiasmo che leggevo dipinto
sui volti di chi incontravo a quegli eventi. Dal momento che questa vuole
essere una segnalazione di un’uscita discografica, scendo dall’eventuale
piedistallo sul quale mi sono appoggiato per qualche istante, non volendo
assolutamente criticare ne pubblico od operatori del settore. Persone/personaggi che oggi vedo
personalmente muoversi, con fatica e abnegazione, nel versante della cultura,
sia per proporre che per ricevere; si sa, quando si parla di ricordi, di miti generazionali, c’è sempre una
tendenza a denigrare l’attuale e voler riportare in auge un passato assurto a
propria personale “epoca”. Non è questa
l’intenzione, semmai solo quella di voler, ancora una volta, ricordare quell’ Officina dei Sogni come propulsore di creatività ed emozioni.
Questo nostalgico prologo è dovuto al ricordo
di un bellissimo concerto che i Dead Can Dance tennero a Genova, se ben
ricordo, verso il finire degli anni ’80 al teatro Verdi di Sestri Ponente, con
un mio conoscente che si presentò al concerto dotato di un enorme e bellissimo
mazzo di fiori che donò, emozionato, a Lisa Gerrard, stupenda voce femminile
del duo intestato anche a Brendan Perry. Un’ensemble che, erroneamente inserito
nel filone dark britannico imperante in quegli anni, pubblicati da un’etichetta di culto del periodo come la
4AD (cercatevi le stupende copertine o rispolverate il catalogo tra nomi come
This Mortal Coil, Cocteau Twins o Modern English) univa tappeti sonori di folk
gaelico, canti gregoriani, mantra del Medio Oriente e inserti classici. Premesso che
la discografia dei Dead Can Dance è facilmente reperibile digitando la tastiera
del vostro laptop o pc, il nuovo album “Anastasis” , a distanza di ben 16 anni
dall’ultimo disco, non aggiunge purtroppo nulla di nuovo rispetto a ottimi
titoli quali “Garden of the Arcane Delights” dell’84 o “Within the Realm of a
Dying Sun” dell’87.
Forse l’estate non è il periodo più indicato
per avvicinarsi a questo tipo di sonorità, ma ad un primo ascolto “Anastasis”
sembra risentire, e non positivamente, delle esperienze successive e
individuali del duo, anche come autori di colonne sonore per film di successo
come “Il Gladiatore” di R. Scott, in cui la magia di quei suoni eterei,
esploratori per alcuni versi oscuri di certa world music, si sia smarrita, non
solo per cercare di arrivare al grande pubblico, ma molto più semplicemente si
sia inaridita ed assottigliata la vena
creativa. Rimangono intatte, e qualche
volta emozionanti, le orchestrazione miscelate con i ritmi del Nord Africa,
così come il canto della Gerrard è potente ed evocativo, ma è difficile, personalmente, sentire
che tutto funzioni veramente a livello creativo ed emozionale.
La musica, si sa, è anche un fattore emotivo,
e spesso si è portati a cambiare idea a seconda del proprio mood, e riascoltare “Anastasis” tra
qualche mese potrebbe farmi/farci cambiare idea.
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