venerdì 21 settembre 2012

Lo spread umano di Roth e il suo alter ego zuckermaniano

Premessa: il blog è, per antonomasia, un diario digitale sull'attualità, sui temi più disparati certo ma che riguardano i giorni nostri. Chiedo scusa quindi se irrompo o rompo le scatole con una riflessione su un testo e su un autore (ancora in vita peraltro) non proprio al passo coi tempi visto che (il testo)   si avvicina a compiere la maggiore età dall'uscita della sua prima  pubblicazione. 

Ma attualità è anche digitare, sulla nostra bella tastiera del laptop, pc o Mac che sia, raccontare, scrivere di opere ed autori che sono e restano comunque attuali…altrimenti che senso avrebbe redigere le proprie cervellotiche masturbazioni su prodotti di decenni fa se non del secolo scorso? L’arte, fortunatamente, spesso non invecchia come i suoi fruitori...
Negli ultimi tempi, mi riferisco agli ultimi 10 anni, Philip Roth ha ottenuto una tale gloria e considerazione da parte della critica mondiale da porlo ogni anno ai primi posti nella lista dei papabili al premio nobel della letteratura. Lo vincerà mai? Che importa. Oramai non passa mese che il quotidiano “La Repubblica” non pubblichi un’intervista di Antonio Monda al celeberrimo scribacchino. Temi trattati? I nuovi scrittori emergenti, i capisaldi della sua libreria personale, la sfera sessuale ai tempi della senilità, i cambiamenti culturali dell’ America che il nostro non riconosce più, le malinconiche considerazioni di un uomo giunto a affermare che la solitudine è divenuta la sua migliore amica e che il suo Nathan Zuckerman corrisponde per filo e per segno alla sua sua storia personale. Dopo "Lo scrittore fantasma", passando per "La lezione di anatomia" o ancora "L'orgia di Praga", nel 1997 l'alter ego dello scriba americano compie il suo capolavoro: "Pastorale americana".
Se i precedenti romanzi prendevano spunto da figure retoriche (metafore, climax, allegorie...) volte a raccontare le vicissitudini di Nathan, con questo libro il metodo di immedesimazione della scrittura figurata lascia posto ad una cronaca dai contorni, in molte pagine, più giornalistici che letterari. E' quasi un bildungsroman su lo "svedese" Seymour Levov, giovane ebreo, sportivo eccellente, ottimo imprenditore cresciuto dentro una bolla di borghese tranquillità che lo vedrà decadere di fronte a uno spaccato di vita moderna nella quale coloro i quali vivono assieme a lui assumeranno gesti e azioni di "innocenti" e grotteschi carnefici.
Gli anni '60 e l'inizio dei '70 aprono e chiudono la porta alla “dinastia”dei Levov arrichitasi con la produzione di guanti, famiglia circondata da un'aurea di sicumera e alterigia nel considerare il lavoro e lo status quo di un conservatorismo politically correct come unica via alla realizzazione delle proprie aspirazioni. Ma è un libro carico di compassione, autentica compassione umana, non compassione idiota, che non vede, ma occhio e parole che vibrano di fronte alle debolezze umane. Straordinario il pezzo nella fabbrica dei guanti, quando lo Svedese racconta nei dettagli la storia delle concerie e di come suo padre prima e poi lui hanno saputo ingrandirsi, e lo racconta a una sorta di "piccola carnefice", a una persona che è l'interlocutrice completamente sbagliata, una delle maschere funebri che il destino indossa per far crollare le nostre certezze, le nostre passioni, la nostra dedizione, le basi che credevamo granitiche e che sono in realtà fangose e scricchiolanti della nostra personalità, di quell'illusione di "io " stabile.

Non è un romanzo che richiede tempo o pazienza al lettore per entrare dentro davvero nella narrazione. Richiede coraggio. Il coraggio che richiedono i grandi libri, abbandonarsi, non sfuggire pagine che sembrano costeggiare o solo avvicinare il tema principale, pagine che paiono solo digressioni, ma sono funzionali e talvolta rivelatrici preziosissime della trama della storia e del suo intreccio che si disfa e si ricompone, continuamente, ondulatorio, simile al procedere e arretrare delle onde ( fra schiuma, alghe e detriti), senza tregua, senza assoluzione, senza senso, molto spesso, o con un senso aleatorio, volatile, dai colori d'arcobaleno, un senso che, quando pensi di averlo afferrato è già volato via e ti lascia silenzioso e interdetto.

Già a pagina 33 Nathan, compagno di scuola di Seymour,  declina il percorso dell'intera vicenda paragonando l’amico ebreo all' Ivan Il'ic di Tolstoj: ... "magistrato che conduce una vita decorosa approvata dalla società, che sul letto di morte pensa: forse non sono vissuto come avrei dovuto. La vita di Ivan era stata molto semplice e molto comune, e perciò terribile. Forse nella Russia del 1886. Ma a Old Rimrock, New Jersey, nel 1995, quando tutti gli Il'ic vanno a frotte a mangiare al club dopo le buche del golf mattutino cantando: non potrebbe andar meglio di così, forse sono assai più vicini alla verità di quanto lo sia mai stato Lev."
Che cosa rimane infine dell’umanità trattata da Roth in questo libro: “la cui visione delle cose rozza e incolta ha pungolato un’intera generazione di figli, per i quali la visione delle cose si riassume nel torto o nella ragione, e in mezzo nulla. Un padre il cui miscuglio di ambizioni, pregiudizi e convinzioni è talmente refrattario alla riflessione da rendere il tentativo di sfuggirgli più difficile di quello che sembra. Uomini limitati provvisti di un’energia illimitata, per i quali la cosa più seria è andare avanti malgrado tutto”. Niente, solo la presa d’atto di una concatenazione di fatti e percorsi umani ai quali è inutile opporsi; le pieghe, gli anfratti, i vicoli oscuri, le case borghesi, le stanche ritualità sociali che perpetuiamo per noia, le passioni incomprensibili, il lato oscuro. Ecco, il lato oscuro. Del singolo e della vita. Parla solo di questo, in fondo.

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