lunedì 24 settembre 2012

"Pietà" (2012) di Kim Ki-Duk. La Corea, il sacrificio e il Leone D’Oro al festival del cinema di Venezia


“Pietà” è l’ormai noto film di Kim Ki-Duk vincitore del Leone D’Oro al festival del cinema di Venezia 2012, che ha visto il regista coreano, scevro dei classici abiti da cerimonia che la tradizione festivaliera richiede, ritirare il premio con il gesto, voluto o meno, che vedete nella fotografia.

Al di la di questo siparietto, quello che più volte mi ha colpito, che ho ascoltato e letto in merito a Ki-Duk è l’appellativo che gli viene rivolto, come se fosse un marchio indelebile del suo cinema: controverso, un termine che mi ha sempre fatto sorridere. Cosa c’è di controverso nell’arte, non solo intesa come settima arte ? Proporre immagini blasfeme, scene splatter, narrare storie di politici corrotti, rivisitare i fasti di personaggi storici assurti a miti inappropiati, narrare storie di violenza urbana o domestica, utilizzare un linguaggio cinematografico che un certo tipo di pubblico spesso definirebbe con il classico troppo lento ? Mi è sempre parso un modo non adeguato, fino al rischio della più stupida delle banalizzazioni, per approcciarsi alla lettura, alla critica di un’opera e del suo autore.
Di registi controversi la storia del cinema ne è piena, la storia del cinema narrata da recensori di ogni epoca ha bollato con lo stesso appellativo Autori tout-court Orson Welles, Fritz Lang, Friedrich W. Murnau, Stanley Kubrick piuttosto che Terence Malick.
Kim Ki-duk è un regista. Punto. Un regista con un linguaggio fortunatamente personale, a volte forte e rabbioso come nei suoi primi film “Crocodile (1996)” o “Birdcage Inn (1998)”, violenti e duri ritratti di giovani alienati o prostitute, che davano una visione del mondo profondamente disincantata, come se rappresentassero lo stato normale delle relazioni tra persone, tra uomini e donne. Una visione comunque distante da registi orientali come Kim Jee-Woon (da recuperare assolutamente lo pseudo-thriller “I Saw The Devil (2010)”, Park Chan-Wook (“Old Boy (2003) e la trilogia della vendetta, l’eccellente parabola del prete-vampiro di “Thirst (2009)”) o Takashi Miike (“Ichi The Killer (2001)”, tra la sua lunghissima filmografia ).
La trasformazione del suo fare cinema, per alcuni momenti vicina a quella di Wong Kar-Wai (“In the Mood for Love (2000)” il titolo più noto, o la bellissima e struggente storia dell’amore gay di “Happy Together (1997)” ) viene alla ribalta con “L’Isola (2000)”, dove la bellezza pittorica delle immagini sembra fare a pugni con la storia di  una ragazza che si cura di un piccolo villaggio di pescatori fino ad esserne la prostituta, e primo film a godere di una distribuzione che darà al regista coreano la meritata notorietà internazionale.
I film successivi, relativi successi commerciali anche in Italia come “Primavera, estate, ….(2003)”, “La samaritana (2004)” e soprattutto “Ferro 3 - La casa vuota (2004)” sono esplicativi del pensiero e delle tematiche di Ki-Duk: i sentimenti che albergano in ogni persona, amore, odio, gelosia, rabbia, fino alla violenza e agli istinti omicidi che trovano forma negli elementi genetici dell’uomo, come nell'istruzione, l'ambiente, la famiglia, i luoghi in cui cresce. Da questo punto di vista la sua  biografia (per il quale, come al solito, vi rimando al web) può essere letta come emblematica, dalla nascita in un villaggio di montagna, al duro servizio nei marines coreani, al trasferimento a Parigi e al ritorno in Corea nel 1993.
L’appellativo di controverso, pertanto, quale senso ha ? Quello di narrare più con il silenzio, in cui spesso si muovono i suoi personaggi, offrendo sensazioni più vere per le quali le parole potrebbero distorcerne il significato? Personalmente non esiste una risposta, Wim Wenders aveva utilizzato in modo superbo il silenzio del personaggio interpretato da Harry Dean Stanton in “Paris, Texas (1984)” per raccontare la ricerca dell’Io, silenzio che avvolge la vita dei due monaci buddisti e le anime perdute che si rivolgono a loro per cercare conforto in “Primavera, estate, ….(2003)”, o la dolente relazione e la successiva fuga romantica di “Ferro 3-La casa vuota” narrate dal coreano.
Un regista, un autore non ha l’obbligo di definire tutto, ma anche quello di rivolgere domande da porre al pubblico,  quasi a volerne discutere con loro, senza bisogno di fornire risposte concrete, risposte che possono cambiare costantemente.

“Pietà” è la storia di un riscossore che costringe, con distaccata e insana violenza, i clienti di uno strozzino quando questi non sono in grado di far fronte ai pagamenti degli interessi esorbitanti dei loro debiti. La crudele metodicità del silenzioso aguzzino nel mutilare i poveri debitori, inizia ad incespicare quando  una inquieta e ambigua donna  gli si presenta davanti , dichiarando di essere sua madre, che lo aveva abbandonato alla nascita; se inizialmente il ritrovato rapporto  lo porta a respingere con rabbia e violenza - le uniche espressioni che conosca - la donna, sarà proprio la sua persistenza a crepare la scorza indurita dell'uomo dalla rabbiosa solitudine racchiusa per anni, arrivando a ribaltare i ruoli di vittima-carnefice,  i sentimenti di pietà e vendetta.
Anche nel Leone D’Oro veneziano del 2012, Ki-Duk ripropone, nei suoi più classici non-luoghi, il tema della mancanza d'amore (materno, ma non solo) dell'incomunicabilità, dell’odio, del cambiamento, del sacrificio, uniti a quello del denaro come una  spietata lettura della società capitalistica da cui nemmeno i paesi e le società più lontane ne sono esenti,  dove il potere attraverso il possesso, il denaro stesso, è causa del male che attanaglia la storia dell’Uomo. 
Ritrovare la pietà, la pietas intesa non come sentimento religioso del rispetto per un’entita divina, ma per gli altri, per coloro con cui ci troviamo ogni giorno fianco a fianco, giudicandoli senza voler conoscerne la loro storia, che spesso è anche la nostra, nascosta agli occhi e all’anima degli altri; ritrovare quel sentimento che nel nostro oggi sembra restare un traguardo incompiuto, che solo una versione atea e personale della via crucis può essere in grado di rivelare.

1 commento:

Roberto Gallino ha detto...

eccellente commento, colmo di interessanti ed eccellenti riflessioni, scritto da Luisa S. e che sono lieto di pubblicare:

Il film mi ha profondamente scosso e ci sono voluti giorni a lasciare decantare
le emozioni, perché emergesse quello che mi aveva così profondamente toccato.
Credo che la questione che più mi ha scavato sia la forza del sentimento di
vendetta: ho trovato la figura di questa madonna vendicatrice di una potenza
assoluta. Penso che il vero gesto eroico sia non avere pietà, lei alla fine si
assume l'onere della responsabilità di non avere pietà verso chi pietà non ha
avuto (in questo senso mi ricorda molto Grace di Dogville). Ritengo che il
coraggio per un sentimento così puro e profondo come l'odio sia ormai raro e
sconosciuto in una cultura che ha rimosso tutto quello che è radicale, una
cultura ipocritamente buonista in cui tutto finisce sempre a tarallucci e vino,
in cui il finale edulcorato e facile delle pacche sulle spalle copre, e quindi
giustifica e cancella, il male e la sporcizia che ci sono stati. Una cultura
che poi di odio è completamente intrisa, ma nelle sue declinazioni più volgari
e subdole come la rabbia e l’invidia. Avere coraggio di provare un sentimento
così assoluto e andare fino in fondo e saper soffrire e aspettare per arrivare
ad avere giustizia è eroico ed emoziante e liberatorio e, sì, anche catartico.
Sì, perché l’odio è un sentimento assoluto e profondo come l’amore e Kim Ki Duk
ce lo fa capire, li mette, come valore, sullo stesso piano. La reminescenza che
tutto ciò provoca, deriva dal fatto che noi non abbiamo più il coraggio né di
odiare né di amare fino in fondo, tutto rimane su un livello di non
implicazione profonda, tutto deve essere sempre superficiale, aggiustabile e
rivedibile e quindi non assoluto, ma dentro di noi questi sentimenti albergano
(io sono un po’ innatista in questo senso). Credo che sia per il riconoscimento
di questi sentimenti ancestrali che il film ci fa vibrare così tanto, perché
li fa riemergere, ma allo stesso tempo ci fa anche provare fastidio e dolore
perché non siamo più abituati a riconoscerli e a usarli. Anche l’onore fa parte
di queste dotazioni che abbiamo a disposizione ma che restano inutilizzate, per
questo credo che i suicidi d’onore, che il film ci costringe a guardare, ci
creino così sgomento. Mi sono chiesta: sono suicidi diversi da quelli dei
piccoli imprenditori che la recente cronaca italiana ha così enfatizzato,
quelli che hanno prodotto i cortei delle vedove? Ecco su questo punto sono
stata un po’ in difficoltà nel riconoscere le differenze, perché la questione
di genere mi ha un po’ annebbiato: la figura femminile può infatti apparire nei
due casi come una figura complementare, perché, in fondo, chi ha la
responsabilità dell’onore e della produttività è comunque sempre un uomo, anche
se per la tradizione orientale il suicidio d’onore è presente ed ha diverso
valore, ma alla donna cosa resta? Ecco la differenza forse sta qui: la vedova
italiana, che sfila in silenzio, mette in scena e rafforza l’idea di
un’identità femminile accessoria e muta, nel film diviene protagonista perché
assume la responsabilità della giustizia e della vendetta: non a caso il
protagonista decide che sarà una donna, la moglie di un uomo debole che ha
storpiato, l’unica degna di straziare il suo corpo, così come è un’altra donna,
un’altra madre, che cerca di compiere il gesto di vendetta verso la madonna
vendicatrice, ma lei le sottrae questa responsabilità agendo da sola. Perché
sono solo le donne ad essere in grado di provare un odio così puro?... forse
perché sono quelle che possono ancora provare un amore così assoluto come
quello materno? Ecco sì, penso che il messaggio sia questo: solo chi sa provare
amore assoluto può provare odio assoluto, ma anche viceversa.