Il motivo nasce soprattutto per
i trent’anni compiuti da una pietra miliare - definirlo film di fantascienza
sarebbe solo riduttivo - come “Blade Runner”, al ritorno al cinema di genere per il regista con il film che era annunciato come
il prequel del mitico “Alien” del 1979, oltre ad un excursus sulla fantascienza,
intesa sia come genere letterario che cinematografico, ma che meriterebbe un
approfondimento molto più ampio.
Cinema di genere per anni sottovalutato da pubblico e critica come
prodotto di puro intrattenimento, ma che in realtà ha spesso avuto significati
ben più profondi, anche di analisi del periodo storico in cui vennero a galla
capolavori come “L’invasione degli ultracorpi (1956)” di Don Siegel (una
parabola sulla paura della guerra fredda e della possibile invasione degli allora contrapposti blocchi sovietici-americani);
ad un argomento del genere andrebbe dedicato un capitolo a parte, e non poteva
essere questa la sede per aprire un dibattito sulla fantascienza tutta, intesa
anche come Letteratura, che spesso ha relegato scrittori magistrali come James
Ballard o Philip K. Dick ad autori di serie B, visionari anticipatori di
società future e del nostro presente, per essere poi riscoperti e finalmente
assurti a Scrittori non solo di genere.
Ridley Scott aveva sorpreso
pubblico e critica sul finire degli anni ’70 con due opere molto diverse tra
loro, “I Duellanti” del ’77 ( http://www.youtube.com/watch?v=cbNe2mmBkbI ) e appunto “Alien”, considerati all’unanimità due
opere di grande impatto. Se Keith Carradine e Harvey Keitel sono i magnifici
protagonisti di un duello, non solo fisico, che si protrae per anni tra due
tenenti ussari nella Francia napoleonica, il bavoso mostro alieno del ’79
sovvertiva le regole del cinema di fantascienza, genere che indicava da anni
forti segni di aridità, usando un senso di claustrofobia narrativa e visiva
raro per quel periodo, se non in alcuni capitoli di registi come John Carpenter
e nelle prime opere di David Cronenberg. “Alien” suggellava il passaggio del
cinema di fantascienza a cinema di serie A,
pur utilizzandone le regole classiche ed utilizzando una trama molto
essenziale: 7 persone intrappolate all’interno di un luogo, un’astronave, prede
di un’entità mostruosa, spesso invisibile, e la lotta per la sopravvivenza.
Nel 1982 “Blade Runner”
suggellava il nome di Scott nell’Olimpo del Cinema.
Personalmente la produzione del
regista da quel momento si è tramutata in una serie di film di successo (“Thelma
& Louise” del ’91 o “Il Gladiatore” del 2000), ma privi e lontani per
invenzione e personalità dal suddetto trittico prodotto dal ’77 all’82, e
davvero poco interessanti se non orrendi, “Soldato Jane” tra tutti. La dura
storia del gangster di colore narrata in “American Gangster” (2007, con Denzel
Washington e Russel Crowe) l’interpretai come un cenno di risveglio del
regista, e comunque un segnale di fiducia per godere sul grande schermo dell’universo di “Prometheus”.
Il plot, noto quanto meno ai
fan della saga di “Alien”, vede due archeologi che esplorando una grotta
preistorica in cui i dipinti narrano il contatto tra l'uomo primitivo e un
visitatore alieno, e incrociando diverse raffigurazioni della volta celeste
rinvenute presso altre località, ottengono una mappa stellare. Verranno inviati,
sull’astronave Prometheus ed il suo equipaggio, ad esplorare un pianeta in
un lontano sistema solare, dove
potrebbero trovare le tracce di una civiltà che avrebbe generato la razza umana
e scoprire la risposta ad una delle domande più profonde dell'uomo,
l’evoluzione della vista stessa sulla Terra. Cosa accadrà una volta giunti a
destinazione, sarà una sequenza di disavventure dovute all’incontro con i “creatori”,
mostri tentacolari e con le macchinazioni della compagnia che ha finanziato
l’esplorazione del pianeta.
Lo spettatore più attento avrà
modo di trovare le connessioni con “Alien”, dato che la storia narrata in
“Prometheus” si svolge 30 anni prima del futuro
narrato nel film del ’79; l’attesa ha tradito le aspettative, vuoi perché Scott
è ormai un normale regista di film d’avventura stile James Cameron (non a caso responsabile
del primo sequel di “Alien”), vuoi perché la sceneggiatura di Damon Lindelof
(tra i creatori di “Lost”) e J. Spaihts risulta in certi momenti davvero
imbarazzante, sia creando dei momenti di involontaria ilarità in quelle che
dovrebbero risultare scene ad alta
tensione, che nella caratterizzazione dei personaggi. Lindelof è ricaduto nelle
ambizioni di raccontare mitologie ed enigmi pseudo-filosofici in modo rapido e
raffazzonato, difetti che resero l’ultima stagione di “Lost” fallimentare e risibile tra i suoi
vagheggiamenti new-age da salotto radical-chic.
Resta impresso il fascino
tecnologico-visuale delle scenografie e l’ottima realizzazione visiva, che con
un budget enorme e almeno un interpretazione di buon livello (Michael
Fassbender nel ruolo dell’androide, ateo ricercatore della verità) a disposizione assume più la sembianza del difetto, ma
davvero troppo poco per quello che poteva essere un’opera visionaria, smarrita e logorata da finti dibattiti dei protagonisti sul significato esistenziale e
teologico della vita ed una sequenza di inseguimenti, esplosioni, mostriciattoli e battaglie ormai già consumati e privi di
suspense. Il 2019 di 30 anni fa dipinto
in “Blade Runner”, del quale “Prometheus” è in parte debitore (la ricerca del
creatore dell’androide Roy interpretata da Rutger Hauer nel capolavoro dell’82
è lo stesso motore propulsore che spinge l’archeologa Noomi Rapace e parte
dell’equipaggio della Prometheus alla ricerca della verità), risulta ancora oggi più attuale e moderno di questo nuovo capitolo di Scott, che sembra essere solo
la prima parte di una saga da videogame.
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