domenica 25 dicembre 2011

glocally emotionally yours

...per una serie di botte di culo, da due anni vado ogni dicembre al festival del Nuevo Cine Latinoamericano de la Habana (http://www.habanafilmfestival.com/) ... scendo all'Hotel Nacional, mentre voi stronzi leggete la repubblica al bar, mi sdraio vicino alla piscina semi-olimpionica "tarzan" (fatta costruire apposta per Johnny Weissmuller quando svernava da queste parti), ordino uno degli orrendi panini locali (tutti uguali, con pane, formaggio, e prosciutto dal chiaro sapore di piano quinquennale), e apro il programma del giorno. Il festival non è in grado di fornire un vero programma, ma solo un foglio pubblicato quotidianamente che indica i film di hoy e mañana (molte delle pellicole o DVD che siano sono spesso portati a mano dai distributori se non dai filmmaker visto che la posta non funziona a Cuba). E proprio a questo punto, tra un cortado e un leche de coco (not recommended!), prendo una decisione che mi può cambiare il futuro: vado a vedere un film italiano.
Il film è La prima cosa bella, e credo che ormai si sia detto un po' tutto (dalla bizzarra scelta di nominarlo per un Oscar, al fatto che sia stato campione di incassi in Italia - ma solo in Italia).

Non so bene i motivi della mia scelta, se non che la sera prima era stata davvero memorabile: la prima mondiale del nuovo capolavoro political camp/splatter di Alejandro Brugúes:
http://youtu.be/dOquktXvkT4

Il cinema Payret in centrissimo Habana sta bello bello di fronte al Campidoglio locale, e quando io e Masha arriviamo con due ore d'anticipo la folla fuori dal teatro sta crescendo a vista d'occhio. La security, soprattutto studenti, sta per arrendersi, e così arriva la polizia con cani e camionetas per portare via i più scalmanati.



La cosa strana è che questa volta non ci sono in fila gli intellettuali con camicia ben stirata, nè le famigliole con bambini in cerca di novità straniere, ma giovani... come dire, da discoteca. Hanno magliette tarocche con scritte di ogni tipo (by the way, caso mai vi foste chiesti che fine hanno fatto tutte le t-shirt "puta madre" che impazzavano nel ponente qualche tempo fa, beh, ora lo sapete), capelli con gel da riparazioni murarie, le ragazze in gonnellina e stivaletto- insomma una coda di giovani anni '80 per l'osservatore esterno, ma una coda "politica" per la polizia. Il buzz intorno al film è cominciato l'anno prima, proprio durante il festival del 2010, quando il regista, con ben conscia scelta auto-promozionale, aveva deciso di girare le scene di massa proprio sul Malecon di fronte all'Hotel National, sede del festival. Le urla e i botti avevano così attirato una folla di spettatori, sopratutto giornalisti internazionali... è così che il film ha preventivamente battuta la censura. Troppa attesa intorno all'evento per proibirlo ora, e così il film è disponibile. Entriamo a fatica, manca ancora un'ora all'inizio e mi sembra che siamo quasi al tutto esaurito. Cosa succederà quando l'organizzazione sbilenca e la polizia sprovvista di mezzi e training per crowd control si troverà a dire agli scalmanati fuori che il film è esaurito?
Masha, che è cresciuta nelle sale prove del coro dell'armata rossa (do you remember?) intuisce che la stuazione può degenerare, e si comincia a preoccupare:


Il Payret non è precisamente in ottima forma, e ci chiediamo se le strutture terranno:



Così usciamo, fuori hanno cominciato a prendersi a calci, e noi puntiamo dritti verso un hotel di fronte:
http://www.youtube.com/watch?v=RNoglECDGI8&context=C30c30e4ADOEgsToPDskKTDITLwGf4ufvW58NhyGii

È il previlegio dei bianchi occidentali, e così prendiamo al volo l'ascensore che ci porta sulla terrazza con piscina dell'orrendo sofitel (che dio se li porti), e guardiamo in basso il tumulto popolare.

Non vediamo il film, ma sentiamo il rumore delle sirene della polizia, il puzzo orrendo della gasolina venezuelana non raffinata che chavez regala ai compagni in difficoltà, i bus cinesi (non un regalo) strapieni che roteano sulla piazza, i turisti canadesi che si lamentano della scarsa potenza di flusso delle toilette.

Il giorno dopo, sono passate esattamente 12 ore, entro con il mio pass a vedere La prima cosa bella.

giovedì 22 dicembre 2011

40 anni e non sentirli.... CAN – TAGO MAGO (40th Anniversary 2CD Edition), 1971

Senza stare a perdersi in quello che ha significato il movimento  musicale krautrock per la musica tutta, come ho già scritto nel post dedicato al Manuel Gottsching di "E2-E4" (1984), ecco la ristampa, in doppio cd, di uno dei masterpiece di un’epoca irripetibile. Sotto la (ridicola per certi versi) sigla krautrock, si riunivano gruppi degli anni '70 della Germania Ovest, che estremizzavano la concezione della musica pop, spingendola verso una forma compositiva estrema per l’epoca, utilizzando una durata davvero lunga ed inusuale, rispetto ai  i brani che circolavano in quei anni , specialmente nel beat d’oltremanica.
Da buon (o pessimo, a seconda dei gusti) scribacchino didascalico, i CAN erano studenti di composizione free-jazz e  contemporanea,  interessati alla ricerca e all’avanguardia. Il bassista Holger Czukay (oltre a lui, Damo Suzuki alla voce, Michael Karoli alla chitarra, l’incredibile Jaki Liebezeit alla batteria, e alle tastiere Irmin Schmidt) che negli anni successivi, sarà venerato come un pioniere, fu la mente che avrebbe dato il la ad un nuovo utilizzo delle registrazioni audio, di jam-session improvvisate, di taglie e giunzioni dei nastri in nuove forme sonore.
“Tago Mago” è il secondo lp dei CAN, in originale in doppio vinile, che racchiude un incredibile miscela di psichedelia,  rock, e sperimentazione, ma basta l’ascolto dei 18” di "Halleluwah" per apprezzarne l’essenza totalmente funky (!!), in cui i primi minuti ricordano certi tagli sonori in comune con le colonne sonore blaxploitation (basso funk, chitarra wah wah) dell’epoca. Una demolizione e al tempo stesso una nuova genesi di ritmi e suoni allora mai ascoltati. “Tago Mago” aveva già un occhio al futuro.
Stilare una lista di autori e band che ne sono stati influenzati è opera superflua ed inutile, visti i numerosi spazi dedicati, sia al gruppo che al disco, dalle riviste musicali specializzate. Si tratta semplicemente di un disco leggendario per chi ha sempre masticato rock di gruppi quali, ad esempio, i PIL di John Lydon (il cui bassista Jah Wobble, anni più tardi, si sarebbe ritrovato in studio con Czukay, Liebezeit e The Edge [!!!] degli U2 in un incredibile ep “Snake Charmer”, prodotto nel 1983 da uno dei più importanti dj/remixer come Francois Kevorkian).
Questa nuova ristampa della Mute, disponibile dallo scorso Novembre, oltre al cd rimasterizzato, con la copertina originale dell’edizione inglese dell’epoca,  include un bonus CD con 50 minuti di materiale live del ’71.
Nella barra video a fianco potete godervi la genialità del gruppo dal vivo…

mercoledì 21 dicembre 2011

... i film del 2011 ? quali secondo voi ?

Non si tratta di redigere la solita classifica dei migliori film del 2011, perchè non tutti possono partecipare ai vari festival, Locarno o Cannes che siano, perchè molti rimangono invisibili e reperibili solo sulla rete, perchè magari sono film che avete visto per la prima volta nell'anno che sta per finire....

Di solito, per queste classifiche che hanno ovviamente un valore relativo, date le proprie personali emozioni/impressioni su un prodotto artistico , si richiedono almeno 5/10 titoli... fate voi...

La mia personale classifica, senza ordine di preferenza, ne prospetta 11 (anzi 13, visto che ho indicato una trilogia), quelli che mi sono ricordato e che per vari motivi mi sono rimasti più impressi, dimenticando sicuramente opere altrettanto valide se non migliori... buon gioco...


THE TREE OF LIFE Terrence Malick
MELANCHOLIA Lars Von Trier
PUSHER (La trilogia) Nicolas Winding Refn
UN GELIDO INVERNO Debra Granik
MONSTERS Gareth Edwards
A DANGEROUS METHOD David Cronenberg
SUBMARINE  Richard Ayoade
RED STATE Kevin Smith
SOURCE CODE Duncan Jones
BIUTIFUL Alejandro González Iñárritu
I SAW THE DEVIL Kim Jee-woon

martedì 20 dicembre 2011

....porca puttana, non ho mai tempo... “In Time” di Andrew Niccol (2011)


I migliori film di  fantascienza sono quelli che hanno sempre utilizzato una tendenza politica e sociale del presente, come fondamento per personali proiezioni del futuro, come una foto di possibili risultati, da capolavori come “L’invasione degli ultracorpi” (1956) e “2022 I Sopravvissuti” (1973), fino al Carpenter di “1997 Fuga da New York”; attraverso uno scorcio del domani, possiamo meditare su ciò che stiamo facendo oggi.
Il regista Andrew Niccol in “Gattaca” (1997) esplorava l'idea del raggiungimento della società perfetta, in un mondo che vede la nascite controllate attraverso la manipolazione genetica, in cui solo i perfetti sono gli unici atti a vivere e governare; oggi torna con questo “In Time”, con l’ex popstar Justin Timberlake, ormai riciclatosi nella Hollywood che conta (“The Social Network”).
Al di là di queste premesse, la curiosità del film, sta nell’idea di Niccol, nata, sembra, da una ricerca su Google per la parola "tempo", che pare aver prodotto oltre 11 miliardi di visite, in pratica tra le più cliccate di sempre.
Il tempo è perennemente nella nostra mente e al centro delle nostre preoccupazioni, è qualcosa di intangibile in fondo, parliamo di averne, di risparmiarne, ma non abbiamo il modo di poterlo “comprare”, di “possederlo”, in un mondo in cui tutto, oggi, sembra poter essere acquisito se si possiedono i giusti requisiti del vil denaro. Per quanti di noi è un ossessione, quante volte ne parliamo in termini di spreco, quasi fosse un  disturbo compulsivo ? 
La curiosità e l’interesse di “In Time” sono racchiuse in questo concetto, dato che l’ambientazione richiama  un  futuro prossimo già visto in altre decine di film (stupenda, per ironia, quella descritta da G. Romero ne “La terra dei morti viventi”, ma basta citare “Blade Runner”), in cui esistono zone che separano  i ricchi dai poveri, dove ognuno ha una sorta di timer, che permette di arrivare a 25 anni, dopo di che si muore, a meno che non si riesce a trovare un modo per ottenere più tempo, per “proseguire”. Nei ghetti tutto si guadagna e si paga con il proprio “tempo” (cibo, affitto),  che diventa letteralmente denaro. La speranza per la propria vita è l'acquisizione di un surplus di anni e la prospettiva di immortalità. Il plot prende il via da quando il protagonista (Timberlake) salva un giovane con un secolo sul suo timer, che gli regala gli anni, per poi suicidarsi. Da qui l’inseguimento classico del fuggiasco, incriminato per aver rubato gli anni dal morto, dove si inseriscono un banchiere ricco e potente che ha sfruttato i poveri facendo  prestiti di “tempo” come il più classico degli strozzini.
Un godibile ma perdibile sci-fi thriller, con i consueti richiami alla moralità perduta del nostro contemporaneo, la non-coscienza di classe, il crescente divario tra ricchi e poveri, il non dare valore ad ogni momento della propria vita, la ovvia critica al capitalismo, a quelle Wall Streets e coorporazioni padroni di oggi, in fondo, non del denaro, ma del tempo, della vita di miliardi di persone. E ovviamente, a noi, nel semibuio della nostra saletta cinematografica, non resta almeno che dire o pensare “che si fottano”…

mercoledì 7 dicembre 2011

Eric Dolphy "Out to Lunch" (Blue Note, 1964)

Cosa si può ancora scrivere, che non sia stato ripetuto centinaia di volte, quando si hanno di fronte capolavori, emozioni di questo genere ? Direi nulla, solo farsi coccolare, ammirare estasiati da ciò che esce dalle casse del vostro stereo o del vosto pc (...e in questo caso male, molto male, andrebbero perse, come tante bolle di sapone, suoni e colori).

Ascoltate "Feathers", una ballata a metà tra Mingus e il free di Coleman, o brani in cui si intersecano così tante variazioni sonore, che si sarebbero ritrovare successviamente nelle partiture di Philip Glass in un'immaginaria sessions con Mingus.
Basta, il troppo stroppia....

MANUEL GOTTSCHING, "E2-E4" (1984)

Mi si chiede perché su sandblow non ci siano così tante recensioni, o meglio riflessioni su novità discografiche, sull’ultimo cd del gruppo hype del momento, piuttosto che di una ristampa di Schoenberg o dell’ultima novità jazz o techno. Beh, a me non è venuto nulla da dire in proposito, a meno che non sia rimasto particolarmente colpito dalla novità del momento piuttosto che dall’ennesima ristampa…e poi ci sono tanti bei siti su cui leggere delle ultime novità di qualsiasi genere, uno è frequencies.it, qui elencato nei siti amici. Ma dal momento che questo non è successo, in attesa che i “collaboratori” si sveglino dal letargo, soprattutto quelli che devono iniziare ancora a scrivere di musica, mi piace tornare su un disco del 1984 che, anche inconsapevolmente, davvero in tantissimi avranno avuto modo, almeno una volta, di sentirne anche solo dei frammenti, sparsi e campionati.
Apparentemente “E2-E-4” (per la cronaca una mossa di scacchi, basta vedere la cover) di Manuel Gottsching è un’opera che sembra piacere e mettere d’accordo sia gli appassionati di musica sperimentale, di rock, di “new age” (blah! che termine orribile) che di dance music.
Brevissimo bignami dell’autore: Manuel Gottsching è stato assieme a Klaus Schulze, alfiere del kraut-rock germanico nella prima metà dei ’70 con la sigla Ash Ra Temple. Durante un viaggio non ben definito, la leggenda narra che Gottsching affronta lo spostamento in aereo con un dilemma. Quale musica incidere, sull’allora cassetta da ascoltare con l’innovativo walkman? Trattandosi di un musicista, la migliore soluzione è quella di chiudersi nel proprio studio, con le proprie idee e con l’utilizzo di sintetizzatori, la sua chitarra, la progenia dei campionatori, e crea una lunga composizione di una cinquantina di minuti, composti da un tappeto sonoro minimale, generato da suoni di chitarra e electronics ripetitivi e sognanti, con una melodia costruita dalla sovrapposizione di vari paesaggi sonori.
Il disco inizia lentamente, con echi di tastiera rilassanti, alza leggermente il ritmo, fino al riff principale, la cui intera melodia diventa il tema sui cui sviluppare gli accordi ipnotici. Non mancano ovviamente riferimenti alla musica “circolare” e minimalistica di Terry Riley e Steve Reich… ma adesso basta, o mi faccio possedere dal demone del devoto e freddo recensore.
Il disco verrà edito solo anni dopo grazie all’amico Klaus Schulze (altro nume tutelare per la musica d’avanguardia ed elettronica tedesca, fin dagli anni ’70), e arriva, carico di suoni nuovi ed innovativi per l'epoca, nelle borse dei dj dell’allora nascente house made in Usa, che faranno loro un uso sempre più largo di “E2-E-4” nei loro set e nelle loro produzioni. Questo a dimostrare quanta riverenza abbiano mostrato, e mostrano, dj e musicisti della tanto spessa deprecata house e techno music verso suoni di altra provenienza e “spessore”, la riverenza che porta il disco di Gottsching ad essere un punto di congiuntura esplicito tra i soli apparentemente freddi, ma altrettanto fondamentali, ed innovativi suoni provenienti dalla Germania (senza nomi come Neu!, Can, Amon Duul probabilmente oggi non avremo incensato decine e decine di gruppi e musicisti) e i semi della dance europea e americana. Tralasciando i Kraftwerk, su cui andrebbero scritte pagine e pagine di ringraziamenti per l’influenza avuta sull’elettronica tutta, sull’hip-hop fino ai lady gaga monsters, la curiosità che riguarda il nostro bel stivale, è che “E2-E-4” sarà la genesi sonora per uno dei successi mondiali e punti fermi della dance mondiale, “Sueño Latino”, uscito nel 1989 dalla mente di dj quali , tra gli altri, Andrea Gemolotto e Claudio Collino, brano che tutt’ora continua ad essere inserito in numerosi set di dj di ogni luogo.
Un disco innovatore, la cui bellezza ed i suoi gradevoli suoni, riecheggiano ancora oggi in party ibizenchi, per chi ha la fortuna e l’età dalla sua per goderseli, così come per un proprio bel trip personale.
Per gli addicted della dance, su youtube trovate il video dello strepitoso remix di Derrick May... enjoy...

martedì 6 dicembre 2011

Dopo Le Havre anche a Marsiglia un miracolo di solidarietà di classe: “Le nevi del Kilimangiaro”


Ancora un film sulla solidarietà tra i lavoratori, ancora in Francia, ancora in una città di mare, ancora protagonisti i bambini che pagano pesantemente l’incapacità di una società in decadenza di mettere al primo posto la sopravvivenza dei più deboli, ancora protagonista il rapporto tra le generazioni.
Questo è sicuramente un film più neo-neorealista rispetto al sogno senza tempo di Kaurismaki, e si sforza di sceneggiare cosa rimane della coscienza di classe, tra alcuni stereotipi come quello del vecchio sindacalista (buono) della CGT che si trova costretto a rivedere pesantemente cosa significhi oggi la coscienza e la solidarietà di classe, nell’era della rinuncia alla lotta e della perdita progressiva dei diritti dei lavoratori.

Il film mette al centro una questione importante della condizione proletaria/sottoproletaria, quella della scelta estrema per la sopravvivenza, quella per cui a volte la vita ti può costringere a rinunciare ai tuoi buoni propositi e andare contro la morale comune per soddisfare bisogni materiali primari.

Poveri (i giovani operai portuali al limite del precariato) che rubano ai meno poveri (i vecchi operai con i loro privilegi, le loro terrazze sul porto e i loro barbecue) e che accusano questi di stare nelle loro belle case a sorseggiare pastis mentre il sistema sociale per cui hanno lottato si sgretola inesorabilmente.

Sandblow fa nascere il suo soffio da una città portuale molto simile a Le Havre o a Marsiglia. A Genova questo discorso della guerra tra poveri (e tra le generazioni) è un ritornello molto ricorrente. Da molto tempo il camallo o l’operaio metalmeccanico sono visti da molti come i privilegiati, se non proprio il nemico di classe perlomeno i responsabili del declino della città, e non certo dagli armatori e dai padroni, ma dagli altri lavoratori quelli coinvolti nel progressivo processo distruttivo del sistema di garanzie del lavoro, per i quali, vedere e soffrire che una qualsiasi categoria di lavoratori sia in grado di avere ancora una qualche forza contrattuale è più sopportabile che realizzare che esista qualcuno che sta facendo di tutto per toglierti quei pochi diritti e quelle poche garanzie che ti rimangono.

Il film, poetico e commovente, è un invito ad andare a vedere, ogni volta, cosa succede, a non trincerarsi dietro comodi pregiudizi, a recuperare la curiosità e l’istinto della ricerca, di andare ad aprire le porte all’esperienza e alla con-passione con-partecipazione per non cadere nella trappola del tutticontrotutti.

A redimere e dare un senso a tutto ciò, ancora una volta, ci pensano i bambini, quelli che non ne possono niente di tutta questa complessa dinamica sociale, politica ed economica, quelli che hanno bisogno di una buona colazione e di qualcuno che gli rimbocchi le coperte, di uno sguardo di comprensione e soprattutto di azioni di solidarietà.

Certo qui non si parla di lotta di classe ma al ritorno alla povera gente, ai miserabili, ad una condizione preindustriale, insomma, alla barbarie.

Ah certo, poi ci sono le donne……. Ma quello è un altro discorso.

"Midnight in Paris". Nostalgia is a tenderness of the soul di Dolly Rulez, "Tutti dicono I love you (2011) di Woody Allen



Inizia con dei colori bellissimi da cartolina anni 60. Procede con una leggerezza che non si vedeva da Tutti dicono I love you e fa quasi sempre sorridere e qualche volta ridere ma non forte, e quando diventa surreale dici ok amico, ci sto, e non solo gli americani parvenu, anche tutti quei personaggi pazzeschi sono un po' affettuosamente ridicoli nell'essere quello che sono, Hemingway che parla sempre di coraggio e veri uomini e si vuole sempre picchiare con qualcuno, e il minutino in cui c'è Adrien Brody che fa Dalì è tenerissimo e davvero simpatico.
Tutti i mostri sacri sono simpatici, buffe ma possibili caricature di se stessi, e il senso del film è semplice e si snocciola tra il sogno di un passato che sembra sempre più affascinante del presente (ma pare che sia una sensazione comune a tutte le epoche) e l'insopportabilità di un presente che è insopportabile perchè non è il tuo, e allora mollali tutti Owen, e vivi la tua vita, ma che sia veramente la tua con dentro tutte le cose che ti piace davvero fare e pensare, non farti incastrare dalle convenzioni, non sposare una ragazza con la quale avete in comune solo che vi piace il naan, ci sono un sacco di posti da vedere e di cose da scoprire e di ragazze carine amanti del vintage da incontrare nella pioggia.
Parola di vecchietto arzillo e intelligente e leggero e giovane come non lo era da un sacco di tempo.
Dolly Rulez

giovedì 1 dicembre 2011

Spazi, spunti, riflessioni e puttanate

I vari commenti e post apparsi sia su facebook che, fortunamente, sul blog, grazie anche alla bella “visione per immagini” di Eugenia T. sull’ultimo film di Kaurismaki, mi spingono a dire la mia su quella che viene definita comunemente recensione, cinematografica, musicale o altro che sia, idea da cui è nato questo blog. Da tempo si leggono affermazioni del tipo “La critica cinematografica (e non solo, dico io) non ha più un suo spazio”, scritte soprattutto da chi svolge questa professione e quindi atte a difendere il proprio ruolo.
Quanti di noi si affidavano alle recensioni del Manifesto , di Repubblica o di riviste come Duel, piuttosto che NME, The Wire, Cahiers Du Cinema, Rockerilla e le tante riviste che si aspettavano in edicola per ricavare un’idea di un titolo che ci incuriosiva. Dall’ultimo cd di Robert Fripp, piuttosto che un film coreano proiettato e mitizzato in qualche festival, e quindi praticamente invisibile ai comuni mortali, per trarne ispirazione e spingersi (chi a volte tristemente munito di pop corn e patatine, per favore smettetela!) , magari nel cinema di un’altra città, per verificare con i propri occhietti desiderosi di immagini se ciò che si aveva letto corrispondeva a verità, o se le note musicali tanto decantate risvegliano in noi le emozioni che trasmettevano la “sacre parole” che si alternavano sulle riviste musicali. Critici, recensori, che per molti di noi, adolescenti e non, cresciuti senza internet, rappresentavano dei punti fermi, dei fari che ci guidavano verso il capolavoro, o finto tale, verso il disco imperdibile, verso il nuovo scrittore “più importante del nostro secolo”
Oggi esiste la consapevolezza che, parallelamente e grazie alla comparsa della “critica” sul web, è andata progredendo la messa in crisi della tradizionale prassi critica, su carta, enunciata da nomi che in anni e anni si sono ricavati un’immagine da podio massmediatico, che li hanno spinti fino a biechi salotti televisivi, o che hanno addirittura trasformato politici (!) in recensori ed onniscienti di cinema piuttosto che di musica, stile W. Veltroni.
Il web, o almeno i profani che come il sottoscritto, e chi lo sopporta/supporta in questa fin qui breve avventura, credo rivaluti sostanzialmente il concetto e i parametri di giudizio, di apprezzamento, di analisi , senza escluderne però quell’echeggiare, quel quasi ripetere ciò che è nato e che si è vissuto in seno al cartaceo. Qui non ci si propone certo di recuperarlo, sicuramente io ne sono influenzato, ma grazie ad interventi di pochi, ma perspicaci e arguti partecipanti che hanno anche solo commentato i nostri post, mi piacerebbe che ognuno scrivesse davvero quello che più gli aggrada, senza legami o timori di perseguire le orme e gli stili delle stampa o di altri, più o meno noti, siti di recensione ed analisi musicale, cinematografica, letteraria.
Ben vengano quindi le vostre partiture scritte di getto, le vostre “visioni”, le vostre e, soprattutto le mie, puttanate, purchè scritte con la voglia di scambiarsi idee ed emozioni.

“I Can’t Escape Myself”, The Sound (1980)