martedì 11 luglio 2023

Coma, di Bertrand Bonello (2022)

 Film netto, preciso come un gesto. Bonello riparte dalle parole del suo Yves Saint Laurent, se ne riappropria, spostandone il senso dalla foggia di un abito minimalista eppure superbo a un desiderio, finora irrealizzato, per il proprio cinema. L’immaginario di Bonello non è mai netto né tantomeno preciso. È fatto di traiettorie imprevedibili, di linguaggi, stimoli e suggestioni che sembrano quasi premere ai bordi dell’inquadratura pur di accedervi e conquistarsi uno spazio. Coma non fa eccezione: racchiuso in una toccante lettera alla figlia Anna, che apre e sigilla il film, come il frullatore pubblicizzato dalla misteriosa e mistica influencer Patricia Coma, crea “una zuppa calda con delle verdure crude”, in un magma visivo tanto cerebrale quanto emozionale. Le verdure, va da sé, sono le immagini, quelle che oggi affollano le nostre giornate rendendo impossibile ogni precisione, ogni nettezza. Sul coming of age sospeso, messo in pausa, di un’adolescente in lockdown (Louise Labèque, ritrovata dopo Zombi Child del 2019) si aprono come pop-up le videocall, le chat Zoom con dibattiti su serial killer, i video della youtuber interpretata da Julia Faure e  misteriose riprese senza autore di videocamere di sorveglianza, in un andirivieni tra sogno e veglia, in cui l’immagine, ognuna col proprio diverso formato, finisce per perdere qualsiasi aderenza al reale.

Diventa, anzi, così allucinatoria da farci smarrire insieme alla protagonista: è vero o immaginato l’uomo che assalta l’amica durante la call Zoom, tra Elle di Veroheven e un true crime di Netflix? Le Barbie conducono una vita propria che mescola la soap opera ai tweet più folli di Donald Trump? E la foresta in cui la ragazza finisce per perdersi è un cuore, rivelatore, che tra Dante, Lynch e Philippe Garrel immagazzina incubi di altri autori, mentre la voce di Deleuze ci invita a fare attenzione a non perderci nei sogni degli altri?

Per quanto racchiuso nella cameretta di una teen-ager, Coma non è un film sul lockdown. Al contrario, sembra la pandemia ad essersi appropriata dell’immaginario del cinema di Bonello, da sempre avvezzo agli universi chiusi, cantore – come scrivevamo a proposito di Nocturama – della fine di mondi e sistemi. Ed è allora naturale che in questo nuovo livre d’image, composto dall’autore più godardiano oggi, Bonello riparta proprio dal collasso, per ipertrofia, del Sistema-Immagine. Se Nocturama era un film racchiuso sull’attesa dell’evento, oggi tutto sembra essere accaduto e smaterializzato. Dopo aver sperato, da cineasta, nella Fine, nella Crisi, per tutta la sua filmografia, da Le pornographe a De la guerre a L’apollonide, oggi Bonello si interroga, da padre, sulle macerie rimaste in mano a una generazione che appare già segnata, priva di libero arbitrio, costretta a ripetere sequenze luminose da cui ogni ipotesi di errore è stata rimossa. Eppure, proprio nel suo tirare giù gli idoli, nello strenuo rifiuto del passato, anche cinematografico, quando non sia veicolato a rimettere in circolo idee, sta il lascito artistico e umano che l’autore fa alla propria figlia e a tutti i suoi coetanei. A loro Bonello consegna immagini furenti di distruzione, auspicando una rinascita, come nel brano di Andrea Lazlo De Simone scelto per accompagnare le solitarie danze della giovane protagonista. Da domani inizierà una nuova immensità.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 10 Luglio 2023 di Fabiana Proietti 

 Rappresentare e raccontare al cinema un presente legato alla pandemia è qualcosa di estremamente complesso. Probabilmente la banalità visiva del lockdown, che da un giorno all’altro ha azzerato ogni tipo di stimolo e variazione di scenario, ha reso questo momento storico paradossalmente irrappresentabile. Eppure è una situazione con cui il cinema sta facendo e dovrà fare i conti nel prossimo periodo. In questo senso Coma di Bertrand Bonello offre uno sguardo decisamente personale e intimo che rappresenta uno straordinario tentativo di catturare e al contempo distruggere e superare i limiti narrativi e visivi che il lockdown ha imposto. Il film è (letteralmente) una lettera piena d’amore, fiducia e speranza, che il regista francese ha voluto scrivere a sua figlia, diventata maggiorenne poco prima dell’esplosione della crisi sanitaria globale e quindi reclusa in casa nel momento in cui avrebbe dovuto iniziare a vivere la propria vita per la prima volta. Bonello mette in scena questo momento di pausa disintegrando la monotonia delle quattro mura sfruttando ogni singolo pretesto per creare dal nulla immagini, narrazioni e distorsioni visive. E così immerge la protagonista del film e lo spettatore in una sorta di flusso in continua evoluzione, fatto di videochiamate, inserti animati in stop-motion, tutorial di influencer, materiali di repertorio e incubi dal sapore lynchano.

Le immagini in cui la figlia del regista si ritrova immersa sono per lei spesso illeggibili, difficilmente interpretabili e potenzialmente pericolose; sono delle ossessioni, dei sogni che si fanno incubi. Sono il riflesso del trauma personale di un’adolescente e di un intera popolazione. Eppure al contempo quelle immagini rappresentano l’unica possibile via di fuga da un presente opprimente e privo di vita; il pretesto per liberarsi dalla monotonia e trovare rifugio in narrazioni sempre nuove e stimolanti. In questo Coma palesa l’assoluta dipendenza che abbiamo nei confronti dell’immagine (cinematografica e non), senza la quale sembra praticamente impossibile sopravvivere oggi. Ma a questo si deve aggiungere l’automatismo quasi inconsapevole e incontrollato con cui ogni stimolo visivo diventa una rielaborazione personale della realtà: una dipendenza nella quale è facile rimanere intrappolati ma di cui è anche impossibile fare a meno.

Così anche una lettera d’amore per un’adolescente appena maggiorenne diventa un racconto universale che si adatta facilmente all’esperienza che ogni individuo ha vissuto in quel momento storico. In tutto questo aleggia chiaramente una continua sensazione di imminente fine del mondo, che però è contrastata dalla speranza di un futuro in cui le nuove generazioni sapranno padroneggiare le immagini, e quindi la vita, con più fortuna.

Pubblicato su cineforum.it, 10 luglio 2023 di Francesco Ruzzier


venerdì 9 giugno 2023

Master Gardener, di Paul Schrader (2022)

Narvel Roth è il meticoloso orticoltore di Gracewood Gardens, una bellissima tenuta di proprietà della ricca vedova, la signora Haverhill. Quando ordina a Roth di assumere la tormentata pronipote Maya come sua apprendista, la sua vita viene gettata nel caos ed emergono oscuri segreti dal suo passato.

Uno dei piaceri più comuni nella fruizione del cinema, e dell’audiovisivo in generale (pensiamo alla serialità), è la riconoscibilità di un canovaccio noto, di uno schema narrativo, che lo spettatore ama ritrovare, sempre rinnovato, in ogni sua nuova visione. Questo tipo di appagamento si può facilmente rinvenire nel cinema di Paul Schrader, appassionato cinefilo, abile sceneggiatore, arguto autore di un cinema che non dimentica mai di omaggiare i propri maestri (Bergman, Bresson, Ford, Dreyer) e di offrire una sempre nuova declinazione dei temi che più gli stanno a cuore: colpa, espiazione, redenzione. In questa triade essenziale, Schrader identifica il motore di ogni sua sceneggiatura e della narrazione tout court: non principia nessuna storia senza una colpa del passato, non si sviluppa alcun racconto senza il desiderio di espiare e non c’è scopo altro che la redenzione.

Presentato fuori concorso a Venezia 79 (Settembre 2022), dove l’autore ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, Master Gardner rappresenta il terzo capitolo di un’ideale trilogia incentrata su personaggi virili solitari, tormentati e “in cerca” – searchers fordiani – che comprende i precedenti First Reformed e Il collezionista di carte. Ma se il protagonista del primo film bramava un suo calvario personale, il giocatore andava incontro a una redenzione nel sangue, il protagonista di Master Gardner desidera invece una vera e propria, terrena, rigenerazione.

Narvel Roth (Joel Edgerton) è il “maestro giardiniere” dei Gracewood Gardens, di proprietà della ricca possidente Signora Haverhill (Sigourney Weaver), che come ogni anno intende far partecipare il suo giardino a un prestigioso concorso. Sentendosi vicina al trapasso, la donna vuole riappacificarsi con la pronipote Maya (Quintessa Swindell), ragazza ventenne per metà afroamericana, rimasta sola dopo la morte della madre. La giovane viene dunque assunta come apprendista e affidata alle cure e agli insegnamenti di Narvel che, oltre ad occuparsi del giardino, offre saltuariamente le sue prestazioni sessuali a Lady Haverhill. Tra maestro e discepola sboccia però l’amore, e si genera così una pericolosa triangolazione di giochi di potere, che vede nel vertice decisionale l’algida proprietaria terriera. Ma a far tribolare davvero i due amanti sono le loro colpe pregresse. Lei deve liberarsi di un ex fidanzato spacciatore, e il suo corpo deve rigenerarsi dalla tossicodipendenza. Lui, invece, ha un passato di militanza in un gruppo di neonazisti, passato che porta ben inciso sulla pelle, sotto forma di indelebili tatuaggi, cicatrici perenni che non si rimarginano.

Accompagnato, come il precedente Il collezionista di carte, dalla voice over del protagonista, che ci riporta le parole vergate nel suo diario personale, Master Gardener innesta il suo racconto di sagaci e brillanti metafore legate al tema dell’orticultura. A partire dall’iniziale illustrazione delle tre tipologie di giardino: c’è quello che chiamiamo all’italiana, che impone alla natura le regole umane della geometria, poi quello che vuole apparire spontaneo, ma dove in realtà tutto è regolamentato, e infine c’è il “giardino selvaggio” dove in ogni caso è un’utopia pensare che non vi sia intervento umano. Inoltre, Narvel, come anche il protagonista di Il collezionista di carte è ossessionato dal controllo e pensa che organizzare e coltivare il giardino significhi credere nel futuro, e che le cose accadranno secondo le regole. Ma se ci si può illudere di dettare un indirizzo alla natura (certo, Werner Herzog non sarebbe d’accordo, ma siamo qui in tutt’altra poetica autoriale), ben altra questione è governare le intenzioni e le azioni degli esseri umani, le cui ragioni profonde possono essere talvolta imperscrutabili. Non ci sono rastrelli, pale o setacci che tengano, quando si tratta di estirpare “la malerba” da una persona. O forse sì, basta prendere in mano la situazione e innescare un cambiamento. E il cambiamento si innesca qui, come nei migliori noir e western del cinema classico, con un colpo di pistola. È da lì che prendono inizialmente vita i flash sul passato di Nervel, ed è sempre da lì che ha inizio poi il suo salvataggio di Maya, nuova reincarnazione di quei personaggi femminili tanto amati da Schrader in quanto discendenti dalla Debbie di Sentieri selvaggi (John Ford, 1956), pensiamo alla giovane prostituta interpretata da Jodie Foster in Taxi Driver di Martin Scorsese (di cui Schrader ha firmato lo script) o alla figlia perduta nel sottomondo degli snuff movies da George C. Scott in Hardcore (1979).

Proprio come avviene per i protagonisti dei tre film su citati – e come rivela esplicitamente la seconda parte di Master Gardener, quasi tutta on the road – quello di Nervel è un viaggio, salvifico, certo, ma anche prevalentemente orizzontale, come ben sottolineano le scelte stilistiche di Schrader, maestro di regia e non solo di scrittura. Prediligendo movimenti di macchina di avvicinamento e allontanamento ai luoghi e ai personaggi, l’autore rinuncia infatti alla verticalità (non a caso non vediamo mai il “disegno” complessivo del giardino) che trovavamo, coerentemente, in First Reformed, perché qui l’obiettivo non è la trascendenza, questa è una storia terrena, come ben dimostra la scena in cui il protagonista annusa il terriccio da coltura, provando per esso una sorta di venerazione olfattiva.

No, non è Dio che cerca Nervel, ma una redenzione molto terragna, attraverso l’amore reciproco, una rigenerazione fisica dunque: di Maya, prevalentemente, che deve disintossicarsi, ma anche del giardino violato e, in senso lato, dell’America stessa e delle sue origini, tutte da riscrivere.

Rude e sentimentale, proprio come il suo protagonista, ma anche denso di speranza, Master Gardener è dunque una fulgida, commuovente parabola di rifondazione, un western dunque, dove i due amanti protagonisti incarnano i pionieri di un nuovo mondo/giardino da far rifiorire, i semi di un rinnovato Eden americano: interraziale, popolare e non wasp, rigenerato e selvaggio.

Pubblicato su quinlan.it 05/09/2022 di Daria Pomponio

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Ci sono giardini “formali”, “informali” e “selvaggi”. I primi sottomettono la natura a uno schema fisso inseguendo una perfetta simmetria; i secondi ridiscutono tale prospettiva integrandola romanticamente con i processi naturali; i terzi tendono invece ad azzerare ogni alterazione artificiale liberando definitivamente lo sguardo. In quest’articolata riflessione teorica che il giardiniere Narvel Roth (Joel Edgerton) ci presenta a inizio film, però, una sola certezza appare incontrovertibile: “è impossibile schematizzare la natura”.

Ci risiamo allora. Il cinema di Paul Schrader, da quasi cinquant’anni, ragiona su questi stessi scarti di senso. Muovendosi con rara etica dello sguardo tra forme codificate e rotture improvvise, carceri immanenti ed evasioni trascendenti. Il grandissimo sceneggiatore/regista americano, infatti, ha codificato nel corso dei decenni un archivio di regole ossessivamente ripetute concependo il cinema come una sorta di rituale (del resto, “i soggetti sono solo dei pretesti“, dice il maestro Bresson) aperto a ogni piccola variazione su tema. Ed è proprio intorno a queste deviazioni dallo spartito che puntualmente noi spettatori ci interroghiamo trasformando lo stile cinematografico in una forma di vita. Le immagini in sentimenti.

E arriviamo a Master Gardener. Dopo i terribili traumi della guerra in Iraq che direttamente o indirettamente influenzavano i protagonisti di First Reformed e Il collezionista di carte, questa volta è il suprematismo bianco di estrema destra il fantasma latente con cui fare i conti. Anni prima, infatti, Narvel ha fatto parte di una violentissima organizzazione paramilitare neonazista. Sino a quando una crisi familiare e spirituale lo ha convinto a denunciare molti dei suoi compagni aderendo a un programma di protezione testimoni e divenendo infine un bravissimo orticoltore. E quale giardino è stato destinato a coltivare? Quello di Norma Haverhill (Sigourney Weaver), una ricca possidente reclusa nella sua enorme villa che da giovane si dilettava addirittura a fare l’attrice. Molti segni, sin dal nome proprio, ci porterebbero lontano… addirittura a pensare alla Norma Desmond di Viale del tramonto. Con il “giardino di Norma” che diventerebbe idealmente il giardino del cinema: uno spazio tutto potenziale dove i fiori (sin dai magnifici titoli di testa) appaiono come immagini eteree e senza sfondo capaci da sole di far balenare il desiderio di una catarsi.

Veniamo al punto. La floricoltura per Narvel, proprio come il cinema per Schrader, è un lento percorso di cura da abbracciare con lancinante sincerità e senza nessun compromesso. L’unico modo per sedare i propri demoni interiori e tentare di dare una forma al caos del nostro mondo. Quindi le regole autoimposte e la disciplina (“lo studio dello storia“) sono custodite nuovamente in un diario come interfaccia spirituale per il protagonista e come segno transtestuale per noi spettatori. Ma questo ancora non basta! I traumi del passato non possono essere cancellati solo dai rituali o dall’ascesi, proprio come gli osceni tatuaggi che Narvel decide volontariamente di lasciare sulla sua pelle perché ancora pressanti nel fuori campo della sua vita. Ci vuole pertanto il coraggio di accedere a una nuova dimensione carnale e spirituale attraverso l’incontro con l’altro da sé. Quindi attraverso un sublime momento rivelatore che apra crepe di vita nella superfice delle cose. Ed eccoci all’irruzione di Maya (Quintessa Swindell), la venticinquenne nipote di Norma: una ragazza che ha un rapporto difficile con la famiglia, un padre afroamericano assente e vari problemi di tossicodipendenza. L’incontro rivoluzionario e inatteso con con l’amore metterà definitivamente alla prova il nuovo sistema di valori di Narvel e la sua commovente fede nella rinascita.

Fermiamoci qui. Perché pur muovendosi con ostinata fiducia nelle riconoscibilissime costanti narrative ed estetiche del cinema di Schrader, Master Gardener riesce ancora a farci percepire istanze, sentimenti e desideri dei personaggi come fosse la prima volta. Lasciandoci sulle soglie di un finale ossessivamente ripetuto, eppure sempre bellissimo e travolgente per tensione etica e potenza emotiva. Un film posto oltre ogni attualità e per questo intimamente contemporaneo. Oltre ogni presa di posizione ideologica e per questo immensamente politico. Oltre oltre cinefilia compiaciuta e per questo cinefilo nel senso più puro e alto del termine. Insomma, il cinema continua a essere per Schrader quel fertile giardino capace di far germogliare semi ciclicamente uguali in frutti dotati di un’irriducibile singolarità. Quella della nostra di vita.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 4 Settembre 2022 di Pietro Masciullo


venerdì 19 maggio 2023

Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo


Tutto l’amore che c’è. E l’ombra di una sconfitta, che si allunga sull’uomo ma salva la persona. Quanta dolcezza c’è in Gli ultimi giorni dell’umanità! Quanta paura e quanto desiderio. Quanto bisogno di lasciarsi scavalcare dalla vita per sprofondare nel gioco essenziale (e forse anche esiziale: l’apocalisse che ci salverà…) del vedere. Il catalogo della magnifica ossessione ghezziana è un tuffo nel vuoto che si spinge nell’infinita tensione del visibile e la scopre accucciata ad un passo da sé, proprio lì dove sta la vita che si vive. L’arco (narrativo?) si tende tra l’intimità dell’homemovie e l’assolutezza del guardare/vedere troppo, ovvero più nulla: tra il gioco ossessivo del filmare e filmarsi di enrico ghezzi e la visione panica, infinita dell’uomo dagli occhi a X-Ray Milland cormaniano. Il frammento dicotomizzato, notomizzato, armonizzato del blob fuoriorario ormai ha lasciato il campo al senso dell’esistere accanto alle immagini filmate: i gradi di separazione tra l’aura decaduta della citazione detournata e l’Aura (Ghezzi) che si offre con – bellissima! – dolcezza statuaria (emmeriana: Con aura senz’aura…) ai confini del visibile, dai confini della vita col/del papà (anzi “babbo”) autore… Magnifica ossessione filmica: filmare la vita come non fosse un film (quando sappiamo bene che la vita è film, anzi vorrebbe essere film/cinema insieme a noi), ma fosse un perenne risveglio, un continuo filmare il primo sguardo sul giorno, la prima luce che ci assale. Naufraghi di un ritorno (il veleggiare dell’incipit, il precipitare della navicella verso la terra) che nutre la nostalgia di un andare mancato, di un perdersi nell’orizzonte a vista d’occhio…

Che è un po’ la stupenda presunzione di questo assoluto zibaldone del visibile ghezziano, l’altro versante di questi Ultimi giorni dell’umanità in cui riecheggiano le tante “immagini ossessione” della sua prassi critica… Un po’ una chiamata a raccolta di schegge (mai) viste incise ormai nell’archivio condiviso che si erge come un affronto dinnanzi alla vecchia, teorica “introvabilità del testo filmico”: anni e anni di citazioni, ascolti, backstage, il gioco infinito con il farsi della nostra passione e del nostro sapere cinematografico… Il diario di una compagnia che ha condiviso l’utopia dell’essere attraverso il cinema. Perché, come dice Jean-Marie Straub, non si può imparare a vedere un film, lo si può vedere e basta…E infine l’ombra: della magnifica sconfitta, del precipitare nella e della Storia, emergere inconscio di una purezza della resa impossibile alla presenza assoluta degli eventi, al destino che si compie prima che tutto sia compiuto. L’Etna che erutta in un gioco straubiano negato (Schwarze Sünde), la materia nera della storia, dei fascismi, delle guerre, degli orrori riassunti nel grido annichilito del frammento ronconiano del testo di Karl Kraus. Un’ombra incontenibile e dolce nella sua materialità magmatica, l’infinito epilogo di un prologo che sta lì come un atto di fede nell’eternità della caduta: Gli ultimi giorni dell’umanità di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo.

pubblicato su duels.it , diMassimo Causo  Maggio 19, 2023 

giovedì 13 aprile 2023

Fire! Orchestra - Echoes (2023)

 


The story of supersized jazz orchestras is not pretty. The scene was set by the bleaching deracination of Paul Whiteman and the elephantine bombast of Stan Kenton, bandleaders whose craving for approval by the music establishment fatally compromised their art. Good taste came later with leaders such as Carla Bley and London's Keith Tippett, who proved that, in the right hands, swing and nuance could co-exist with size and power.

Since around 2010, there have been some exciting developments in Scandinavia, too. One of these was Norwegian drummer Gard Nilssen's shortlived Supersonic Orchestra. With only sixteen members, the ensemble did not literally qualify as supersized, but within that sixteen were three double bassists and three drummers. Scaled up, the lineup would have numbered close to a hundred and, meanwhile, when required, the impact of the triple-strength bass and drums sections alone was akin to that of a lightning bolt. Supersonic, which was bankrolled by the Molde International Jazz Festival in 2019, only released one album, If You Listen Carefully the Music Is Yours (Odin, 2020), and it is a widescreen technicolour epic.

Another Scandinavian outfit of note is Fire! Orchestra, a mainly Swedish affair formed around 2000 by reeds player and baritone saxophone Jedi Mats Gustafsson, bassist Johan Berthling and drummer Andreas Werliin. Echoes, the orchestra's seventh album, has a 43-piece lineup (almost as many as Tippett's Centipede).

Fire! has a reputation for high-decibel, shamanic free-jazz designed to shave your ass. But it is in reality a nuanced affair that also counts melodicism, groove and subtlety among its charms. It is these last three qualities which define the 2CD / 3LP, 110-minute Echoes. Sure, there are a few moments of full on, turned up to eleven, Sun Ra Arkestra-esque space chords. But they are infrequent and mostly crop up on the second CD during the fifth and sixth of the seven "Echoes" around which the album is built. Each of the seven is anchored to a loping bass and drums groove, meaning that no matter how out things (occasionally) get, one always knows where one is, and that is among friends on a metaphorical dancefloor.

Check out opener "Echoes: I See Your Eye Part 1" on the YouTube clip below. The sense of space is immense, created by a string quartet (whose two violins and two cellos are recorded so as to sound more like a chamber orchestra), an irresistible, roomy groove, and Gustafsson's rough-hewn baritone saxophone. (The track resonates strongly with baritone saxophonist Alessandro Meroli's quasi-orchestral score for an imagined movie, Notturni, released in 2020 on Italian label Space Echo). Not everybody is on mic on this or most of the other tracks on the album. Sometimes, as in the second and fourth "Echoes," they sound like they might be. At other times, particularly in the interludes between the "Echoes," smaller breakout groups are featured: hand drums and African chordophones, a string quartet, electronica.

Echoes delivers an unbroken arc of adventure, wonder and fun.

Pubblicato su www.allaboutjazz.com  di Chris May , March 31, 2023

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Quella dei tre Fire! Mats Gustaffson (sax), Johan Berthling (basso) e Andreas Werliin (batteria), titolari della sigla e inequivocabili perni anche della formazione allargata denominata giustamente Orchestra, sembra sempre una sfida con se stessi, uno spostare l’asticella sempre oltre i propri limiti e insieme un superamento continuo di quegli stessi limiti alla ricerca perenne di una musica realisticamente senza confini.

 Nel caso specifico di questa esperienza e di questo disco, la durata e la line-up credo rappresentino un record per i pur fluviali scandinavi: quasi due ore di musica prodotta con un ensemble di ben 43 musicisti (più mr. Jim O’Rourke dietro la consolle a “supervisionare” tutto) con una ampiezza della tavolozza a disposizione che predispone sin da subito l’ascoltatore a un tale accumulo di input e suggestioni da cui è difficile staccarsi.

Architrave dell’intero lavoro è la title track, divisa (forse sarebbe meglio destrutturata) e rifratta in ben sette distinti movimenti dai 7 ai 15 minuti, mentre alle restanti tracce, tutte di durata sensibilmente inferiore, sembra lasciato quasi lo scomodo ruolo di intermezzi, anche se libertà, eterogeneità e afflato iper-sperimentale (dalle contaminazioni jazz-elettroniche ai dialoghi quasi astratti tra strumenti) li fanno valere più di semplici raccordi.

Un rigore geometrico o matematico questo della struttura dell’album che mal si addice al senso di libertà che pervade il lavoro, perché la sua spina dorsale, appunto, ben definita nelle volute, variazioni, aggiunte, smarcamenti via via impresse a Echoes, risiede nell’atteggiamento free dell’ensemble, sempre pronto a tratteggiare umori e suggestioni ruotanti intorno a una idea quanto meno mobile, dinamica, aperta, appunto, di jazz.

Basterebbero le due Echoes iniziali, I See Your Eye pt. 1 e Forest Without Shadows a definire il quarto passo dell’Ochestra, tante e tali sono le direttrici, le traiettorie, gli approcci che il mastodontico ensemble pone in scena, con la prima a crescere suadente e lenta, aggrovigliante come fosse un boa constrictor gentile e affabile guidato dalla incessante batteria di Berthling e ondivaga nel suo esplodere e acquietarsi, allargare l’orizzonte sonoro e improvvisamente richiamare al dettaglio; e la seconda a screziare quella idea di suono con un taglio percussivo più afro su cui i fiati e gli archi vanno e vengono, ora orchestrali, ora minimali, a un certo punto gravi e quello dopo gioiosi e in fuga liberatoria.

Se non siete ancora (o già) appagati, arriva la terza Echoes. To Gather It All. Once a non fare prigionieri grazie al featuring vocale di Mariam Wallentin, che sussurra e guida un pezzo genericamente soul-jazz tanto notturno quanto suadente nel suo accumulo strumentale via via in crescendo al punto che, quando intorno alla metà prendono il sopravvento i fiati, vengono in mente ossimori come una sorta di Morphine big brass band fissata con gli ensemble aperti di jazz avventuroso dei ‘60/’70, tradizione a cui l’Orchestra si rifà dichiaratamente.

Si sarà capito che di carne sul fuoco ce n’è a dismisura; che l’afflato è spregiudicatamente avventuroso e i risultati più che eccitanti e vari, muovendosi tra momenti di eccitazione free e più placide introspezioni, tra fraseggi quasi afrobeat o spiritual e distese ambient-jazz; che l’Orchestra rappresenta la summa di tre musicisti in stato di grazia con una visione davvero totalizzante e insieme aperta della nozione di jazz e che, infine, Echoes rappresenta probabilmente uno dei vertici della “rinascita” jazz che stiamo a vario titolo e a varie longitudini ammirando da un buon decennio in qua.

Pubblicato su sentireascoltare.com di STEFANO PIFFERI ,  13 APRILE 2023

As Bestas di Rodrigo Sorogoyen (2022)

 

Parte come uno conflitto tra popoli diversi. Francesi da una parte, spagnoli da una parte. La separazione in As Bestas diventa ancora più netta rispetto al precedente film di Rodrigo Sorogoyen, Madre, che era ambientato a Vieux-Boucau-les-Bains, comune francese della Nuova Aquitania. L’estraneità, il disagio di non far parte del luogo viene ulteriormente accentuata nel sesto lungometraggio del cineasta spagnolo che di svolge a Bierzo, un piccolo villaggio nella campagna della Galizia. Antoine (Denis Ménochet) e Olga (Marina Foïs) si sono trasferiti lì da tempo, praticano un’agricoltura ecoresponsabile e si occupano della ristrutturazione di case abbandonate per incrementare il ripopolamento e il turismo sul territorio. Attorno a loro però si crea un clima ostile soprattutto da quando hanno deciso di ostacolare un progetto che prevede l’installazione di altre pale eoliche. A rendergli la vita impossibile sono soprattutto due fratelli, i loro vicini di casa.

La guerra è aperta in As Bestas, proprio come nell’esplosiva serie poliziesca Antidisturbios, e comincia già dall’incrocio delle tre lingue: spagnolo, francese, galiziano. Il cavallo bloccato all’inizio del film in ralenti è già un segno premonitore di quello che accadrà. L’inospitalità del luogo richiama la ricerca della violenza come legge personale delle relazioni umane per non farsi sopraffare del cinema di Peckinpah e il paragone più facile va a Cane di paglia. Ma Sorogoyen, rispetto al cineasta statunitense non accumula le situazioni fino a farle esplodere. Lascia piccoli segnali, ma mette già in una situazione di continuo pericolo. Ad Antoine ed Olga può accadere di tutto in qualsiasi momento. Ci sono tentativi di avvicinamento e appianamento dei conflitti e poi una sempre maggiore distanza. È un cinema d’impatto immediato, scritto benissimo (la sceneggiatura, come in tutti gli altri film, è sempre dello stesso regista in coppia con Isabel Peña) in cui vengono a galla gli istinti primordiali come nella caccia al serial killer di Che Dio ci perdoni o nella figura del politico caduto in disgrazia di Il regno. As Bestas crea una tensione pazzesca in un pezzo di territorio, dal bar frequentato da Antoine e i due fratelli allo spazio che divide le abitazioni dei vicini. Una scena di notte, con l’automobile che blocca la strada, conferma tutta la potenza del cinema del regista che non cerca mai inutili soluzioni visionarie o improvvise accelerazioni. Al contrario, tende spesso a ritardare lo scontro fisico. In quel momento lascia la coppia francese con la paura addosso, così come con la figlia della coppia in tutte le sequenze in cui cammina da sola con il cane e incrocia uno dei due fratelli. Non c’è il fiume ma la natura impassibile che diventa una trappola (il bosco) ha più di un eco che rimanda a Boorman in Un tranquillo weekend di paura. In più prosegue il discorso sul concetto di legalità che ha spesso attraversato il suo cinema. In As Bestas la polizia non lascia Antoine ed Olga da soli ma non può intervenire. Una piccola telecamera diventa così l’unica arma possibile.

La follia non è mai esplicitata. Resta lì nel limbo, nei silenzi, nelle facce stranianti, nelle tracce di una malattia sotterranea. Sorogoyen mantiene altissima la temperatura emotiva, sempre surriscaldata proprio perché non spinge mai il piede sull’acceleratore. Anzi rallenta e fa respirare la scena dove è proprio il fatto che non succede niente ad alimentare ulteriormente il crescente nervosismo. Nella seconda parte, anche con le immagini del paesaggio innevato, l’atmosfera si immobilizza senza mai distendersi e Marina Foïs si prende il film, anzi no, glielo affida Sorogoyen, con il suo personaggio spesso in silenzio dove aspetta la prima mossa dell’altro personaggio per agire o reagire. Il litigio in cucina con la figlia è un grandissimo momento di As Bestas e una grande lezione di recitazione. Non sono solo i dialoghi. Ogni singola parola è una lama appuntita. Tutte feriscono. L’ultima uccide?

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 12 Aprile 2023 di Simone Emiliani

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Con As bestas Rodrigo Sorogoyen indaga ancora l’animo umano, la sua progressiva discesa verso la follia più inarrestabile, con i barbarici istinti primordiali che affiorano dal subconscio. Thriller tesissimo, sempre sul punto di esplodere, As bestas è la conferma del grande talento del regista spagnolo. Tra le première di Cannes, ma avrebbe meritato il concorso.

I francesi Antoine e Olga si sono trasferiti da alcuni anni in un paesino della Galizia, con lo scopo di praticare agricoltura eco-sostenibile e di ristrutturare le vecchie case abbandonate in modo da favorire il ripopolamento della zona, che soffre di una diaspora dovuta alla povertà e al fatto che le giovani generazioni non vogliono seguire le precedenti nel lavoro della terra, o nella pastorizia. La maggior parte della popolazione locale ha accolto bene i due francesi, i cui ortaggi sono anche particolarmente apprezzati (“quelli di Antoine sono i migliori pomodori in circolazione”, dice una signora a Olga durante il mercatino settimanale di frutta e verdura). Fanno eccezione due fratelli, Xan e Lorenzo – quest’ultimo rimasto offeso allo sviluppo cerebrale in seguito a un incidente, ma un tempo pare fosse un ragazzo bellissimo –, che non perdono occasione per provocare Antoine, in particolar modo quando l’uomo si presenta all’unico bar del paese per bersi un bicchiere di vino rosso. Il motivo è presto detto: Antoine e Olga si sono fieramente opposti al progetto di installare nell’area delle pale eoliche, che avrebbe portato agli abitanti un indennizzo economico perché costretti ad abbandonare definitivamente il villaggio. È questa la base portante attorno alla quale ruotano le vicende di As bestas, quarantenne regista spagnolo giunto al sesto lungometraggio e divenuto nel giro di un pugno di film e serie (tra queste ultime in particolar modo la recente Antidisturbios) uno dei nomi più amati dai cinefili europei: titoli come Che Dio ci perdoni, Il regno, e Madre testimoniano quanto siano giustificate le speranze di aver “scoperto” un autore in grado di rinnovare l’immaginario cinematografico continentale. Anche per questo è apparsa in qualche modo irrituale la collocazione che As bestas ha trovato al Festival di Cannes, inserito tra le Première quando avrebbe meritato a detta di tutti di prendere parte al concorso principale: perfino il delegato generale del festival Thierry Frémaux, presentando il film in sala, è parso giustificarsi asserendo che la produzione avesse sottoposto tardi l’opera al comitato di selezione, quando il concorso era già praticamente chiuso. Che ciò sia o meno vero è indiscutibile come la visione di As bestas resterà come uno dei momenti topici dell’edizione 2022 della kermesse francese.

Sorogoyen apre il suo film riprendendo degli “aloitadores” che catturano e domano dei cavalli selvaggi potendo contare esclusivamente sulle loro mani nude: una volta sottomesso al cavallo viene rasata la criniera e apposto un marchio. La ripresa è al ralenti, da un lato per rimandare a una dimensione epica, dall’altro per sottolineare l’irrealtà del momento in cui l’uomo crede di poter dominare e gestire la natura, solo ricorrendo alla propria forza bruta. Senza aver ancora mostrato i suoi personaggi il regista spagnolo ha già delineato di fronte agli occhi dello spettatore ciò che accadrà in scena, vale a dire la progressiva follia umana che retrocede alla bestialità più ancestrale per paura e desiderio: paura dell’altro, e desiderio di sottomissione, di conquista. Le montagne brulle della Galizia, le fattorie quasi irraggiungibili, le mandrie al pascolo, la quasi totale mancanza di tecnologia, tutto riconduce alla wilderness del western, e d’altro canto As bestas è la rappresentazione crudele, perfino spietata, di un duello senza fine, ma che potrebbe esplodere in qualsiasi momento e deflagrare con tutta la sua dirompente violenza, vale a dire quello che oppone il corpulento ma ben disposto Antoine ai fratelli Xan e Lorenzo. Il primo è lo straniero, che è venuto a spezzare l’ordine naturale delle cose, i secondi sono il frutto della terra – non a caso Xan è un nome tipico galiziano, Lorenzo il nome di uno dei santi più venerati e amati in Spagna –, anche se non i “migliori”. Sorogoyen è bravissimo a gestire una tensione latente ma sempre percepibile, e ogni inquadratura sembra sul punto di conflagrare, come se l’immagine non potesse essere contenuta all’interno di un quadro: in tal senso appare quantomai puntuale ed evocativa la splendida locandina approntata per il film, e che rimanda idealmente a un punto chiave della narrazione, dove non a caso il movimento di macchina è uno zoom in avanti che chiude sempre di più le possibilità allo sguardo, rendendo impossibili vie di fuga o d’aria di ogni tipo.

Se è impossibile, durante la visione di As bestas, non far correre la mente in direzione del Peckinpah di Cane di paglia o del Boorman di Un tranquillo weekend di paura, film in cui la natura aspra e barbarica dei luoghi penetra in profondità nell’animo dei personaggi, fino a guidarli alla disfatta che è anche trionfo – trionfo dell’immagine come unica rappresentazione legittima della violenza –, si possono trovare punti di contatto anche con Il vento fa il suo giro, il film con cui esordì alla regia Giorgio Diritti e che resta tutt’oggi il parto migliore e più convincente del cineasta bolognese. Ma la vera forza di As bestas sta nella capacità di Sorogoyen di non lasciarsi andare al medesimo istinto bestiale che affligge i suoi personaggi: mentre la slavina avanza la regia non diventa rapsodica ma continua a trattenere in sé quella violenza, rifiutandosi di mostrarla o di farla montare in modo definitivo e irreparabile (e infatti i video con cui Antoine documenta i dispetti sempre più feroci cui è vittima restano quasi del tutto invisibili, e la polizia non interviene mai in modo concretamente risolutore). Si resta così continuamente in una situazione sospesa, senza fiato, angosciati da un thriller che rinnega i punti cardine del genere per annichilire lo spettatore, sfiancandolo esattamente come si fa con i cavalli selvaggi. Poi, senza entrare nel dettaglio della trama, c’è un improvviso cambio di ritmo, di prospettiva, di aria. E Sorogoyen pone al centro dello sguardo un personaggio rimasto fino a quel momento nelle retrovie, per dimostrare come esistesse un fuori campo. Esiste sempre un fuori campo, qualcosa che è distante dal quadro e non si riesce a mettere a fuoco, o forse non lo si vuole farlo. In quel campo sempre più ristretto invece permane la violenza, che non può far altro che sclerotizzarsi, fino alle estreme conseguenze. Lezione di regia e di narrazione, As bestas è la definitiva consacrazione di un regista sorprendente.  L’intero cast è straordinario, ma merita un plauso particolare Denis Menochet, a dir poco superlativo nel ruolo di Antoine.

Pubblicato su quinlan.it 28/05/2022 di Raffaele Meale

giovedì 30 marzo 2023

The Necks – Travel (2023)

 

As an enigmatic band out of Australia over the last three decades with a large cult following, The Necks have consistently made some of the most alluring but most hard to pin down instrumental music. Thirty-four years after their first release, they are going as strong as ever.

Travel represents their nineteenth studio album, but it’s a studio album that comes closest to being a ‘live’ album because these tracks come closest to reflecting unadulterated live tracking of improvisations in the studio, with only some mild subsequent edits. And this time it’s four, twenty-minute-ish tracks, a departure from the usual single, hour-long tracks. As such Travel is also a double-disc affair, also unusual for this band.

Getting four distinct performances is an abundance of new material from guys accustomed to offering them up one at a time, even if we were actually treated to three of them on the prior album, whose title seemed to highlight that fact.

But the band’s blueprint for organic minimalism remains the same, and improvisation is at the heart of that formula. Maybe ironically, because they can recycle the same approach to making a record over and over and yield different results each time. Travel — aside from the extended length — is an entity separate from other Necks albums, just as the other records in their canon stand alone.

Anyone seeking to settle the argument of whether or not The Necks is ‘jazz’ won’t get that resolved with Travel. Sure, Chris Abrahams does his jazzy flourishes on the piano, Lloyd Swanton lays down his insistent vamps on a standup bass and drummer Tony Buck always has a faint swing in his gait. But the resulting music doesn’t really follow the widely-accepted rules of jazz, because jazz moves fast; these lads are in no rush.

For the opener “Signal,” Swanton’s acoustic bass line — as is often the case — declares the riff that will stay with us for the next twenty minutes, but the steadiness is merely the foundation in barely-perceptible variations by Abrahams using the organ to set sonic washes and piano to insert that improvisational jazz element. His minutely subtle buildups gradually regulates that bass to the background but by that time it’s ingrained in your brain, anyway.

With “Forming,” Swanton is dancing on the single chord, and Buck is paint brushing so much of the audial imagery with toms, cymbal splashes and percussion, as Swanton saws his double bass to discreetly alter the procession.

Buck’s profile is even higher on “Imprinting,” where he constructs an insistently funky, almost jungle rhythm situated right in the middle while Swanton plays in that pocket on the left channel and Abrahams leaves precious notes on the right.

A churchly organ establishes the sacred mood for “Bloodstream,” and Swanton’s saws organically establishes a drone right alongside it. Buck’s rolling snare enters minutes later to complete the picture, punctuating with tom-tom and cymbal hits whenever a slight mood alteration is called for.

It probably goes without saying that if you like The Necks previous records, you’re going to like Travel, too, guaranteed. It’s a familiar sound but the songs will still take you on an engaging journey where you’re not sure beforehand where they wind up.

Travel is releasing on February 24, 2023 via Northern Spy Records. Bandcamp

Pubblicato su somethingelsereviews.com 2023/02/18

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“Travels” celebra trentaquattro anni di costante ostinazione stilistica, oltreché di reinvenzione del legame che intercorre tra avant-garde, jazz e minimalismo.

Quattro tracce per  un album che consolida il rapporto con la Northern spy , quattro brani che corrispondono alle facciate del doppio vinile (una scelta della band, non un’esigenza commerciale), quattro folgorazioni creative che narrano una delle migliori prove discografiche del gruppo.

“Travels” è il loro “Koln Concert” (in senso figurato non stilistico), un disco che nasce live in studio, per poi nutrirsi di strati sonori di organo hammond e mantra chitarristici dall’intrigante natura slowhand.

A Lloyd Swanton è offerto il ruolo di maestro di cerimonie e supporto costante della prima facciata, venti minuti e cinquanta secondi per “Signal”, un brano che si dipana su di un minimale e magnetico riff di contrabbasso, sensuale come una jam di Miles Davis e rituale come un brano di Sun Ra, tinto da poche note di piano, alle quali si avvicendano cosmiche arie d’organo ed il vellutato fragore del rullante, che intercettano il ritmo base, prima che la chitarra ed il piano accennino esotismi world che ora rafforzano il ruolo del contrabbasso, ora l’addomesticano ai dettami free delle jam-session; a dettare ulteriormente tempi e ritmo v’è il flusso costante della batteria, che nell’apparente immobilismo tecnico nasconde un furore dinamico che dona ulteriore slancio emotivo.

I primi ardori di “Forming” (venti minuti e tredici secondi) sono pochi accordi di piano in libertà armonica, elevati ad onirica visione afro-jazz dal fruscio dei piatti e delle percussioni, una musicalità sospesa e notturna simile ad una partitura orchestrale, affine per creatività e ricercatezza, ad alcune delle pagine più nobili della musica jazz e sperimentale degli anni 70, una delle vette assolute della band australiana.

L’organo hammond, il brusio metallico del frastagliato corpo ritmico, l’adulterato timbro del basso, note di piano apparentemente disordinate, il sofferto vagare della chitarra elettrica, danno alfine corpo all’esoterica jam blues-jazz-etno-ambient di “Imprinting”, diciassette minuti e quattordici secondi di divagazioni di stili e linguaggi, che tracciano un immaginario ponte tra John Coltrane, Miles Davis, i Can e Jon Hassell.

Ennesima saga musicale anche per l’ultimo insieme di “Bloodstream” - diciotto minuti e trentotto secondi - poche cicliche note duplicate all’infinito, messe in fila da un organo a canne dall’incedere sacrale, da accordi di piano più generosi, e da un’evoluzione di canoni funk, di jazz modale e accenni rock grevi, che si frantumano e si rigenerano.

Ancora una volta i Necks onorano l’approccio originario e creativo che da “Sex” fino ad oggi ha reso la loro musica identificabile e peculiare, “Travels” è l’ennesima magia che si ripete, a prima vista non dissimile da quanto elaborato in passato, eppur discordante ed originale, settantasei minuti e cinquantacinque secondi di una musica radicata nel jazz e nell’avanguardia sperimentale, altresì libera da vincoli di genere, un piccolo capolavoro che si candida già da ora tra i migliori album dell’anno.

Pubblicato su ondarock.it 02/03/2023 di Gianfranco Marmoro

 


PACIFICTION di Albert Serra (2022)


Location: Tahiti, la più grande isola nel gruppo delle Isole del Vento della Polinesia Francese. Nella prima sequenza vediamo arrivare dal mare in un porticciolo un gommone con un gruppo di marinai insieme al loro capitano che comanda la squadra dei militari, siamo al tramonto su quella che ancor oggi si può definire, a ragione, un autentico paradiso terrestre. Subito dopo, nello stesso locale notturno dove si sono recati i marinai, scopriamo un signore elegante e inconfondibile, di cui conosceremo, nel corso del film lungo la bellezza di 165 minuti solo il cognome, sempre vestito in maniera impeccabile con un completo doppiopetto bianco su una camicia fantasia hawaiana. È sicuro e calcolatore ma anche felpato e sfuggente come un gatto; apprendiamo che si chiama De Roller (Benoît Magimel) ed è l’Alto Commissario, il rappresentante del governo francese in loco. Un uomo che pur avendo a che fare con persone molto diverse – tanto nelle occasioni e nei ricevimenti ufficiali quanto nelle riunioni e/o nei luoghi appartati e sospetti – si aggira e mantiene un aplomb assolutamente impenetrabile, senza lasciar mai trasparire nulla dei suoi sentimenti e ancor meno di quanto realmente pensi. Il suo compito dunque – tra il bonario e l’amichevole (quasi sempre) ma sfoderando talvolta qualche unghia minacciosa quando serve per mostrare il suo potere (per quanto piccolo) – consiste nel tastare il polso della situazione, capire e placare un possibile malcontento della popolazione locale che potrebbe esplodere in qualunque momento. Soprattutto adesso che si sta piano piano spargendo la voce a Tahiti della presenza di un sottomarino o di una unità navale fantasma, con la possibilità non remota che possano venir ripresi in zona i test nucleari della Francia, dopo quelli effettuati nel 1996 nell’atollo di Mururoa, che avevano portato a grandi proteste e poi interrotti dal presidente Chirac.

De Roller vorrebbe calmare le acque ma lui stesso non è ben informato sulla situazione e sulle intenzioni reali del suo governo, cerca dunque di indagare su indizi sfuggenti, nella notte, tipo una barca con un gruppo di donne locali, diciamo così disponibili, che si allontanerebbero misteriosamente sul mare forse per compiacere l’equipaggio del sottomarino fantasma. E poi si aggira furtivo ed attento, come un pesce vigile in un acquario variegato, nel sottobosco dell’isola, fatto di lotte di galli e danze tribali, di potenziali rivoluzionari che combattono l’indipendenza e di agenti stranieri americani oltre ad avventurieri come il padrone della principale discoteca dell’isola, il Paradis. Oppure si incontra con uno strambo diplomatico (???) portoghese che ha perso passaporto e memoria, e con una scrittrice di successo rientrata a Tahiti ma in crisi d’ispirazione, ecc. ecc.

Se un debole De Roller lo ha, è soltanto nei confronti di Shannah, la bella receptionist di un hotel, la cui identità sessuale è fluida come tutto il film, che piano piano avanza di ruolo, diventando collaboratrice e probabilmente amante del nostro spregiudicato Alto Commissario – in parallelo a quanto è accaduto a chi lo/la interpreta, cioé Pahoa Mahagafanau inizialmente previsto/a come una comparsa e che poi ha sempre più preso peso nel film, diventando un perfetto esempio di māhū.

La sequenza finale con cui si chiude circolarmente il film, all’alba, vede allontanarsi in mare la squadra di marinai dell’inizio con il comandante che spiega in macchina allo spettatore cosa stia realmente per avvenire – una sequenza forse obbligata  e non voluta dal regista che potrebbe essere stata una concessione nei confronti della produzione, a chiudere un’opera che invece sino a quel momento aveva vissuto in una straordinaria atmosfera di sospensione della consecutio narrativa, per abbondonarsi ad un mood tanto allusivo e oscuro, quanto meravigliosamente criptico. 

Ispirato all’autobiografia dell’attrice polinesiana Tarita Tériipaia (la terza moglie di Marlon Brando), Pacifiction di Albert Serra – autore per altro poco noto al grande pubblico ma viceversa, già da anni, un must della cinefilia più attenta che qui però fa un grande salto di qualità rispetto al passato – è dunque un formidabile rondò di incontri, illusioni e allusioni. Una ronde, un girotondo in un mondo attraversato dalla crisi del post colonialismo con tutto ciò che ciò significa, dagli interessi strategici a quelli turistici, morali ed ecologici. Un film affascinate, ascondito e misterioso come il suo titolo che potrebbe significare “pacificazione” o “fiction nel Pacifico” o ancora altro. Ma non è solo il fascino esotico del luogo a diventare in sé una calamita straordinaria di interesse – già la lunga, ultra-spettacolare sequenza di surf è di una bellezza cinematografica e di una forza a dir poco emozionate (pari a quelle straordinarie di un John Milius o di una Kathryn Bigelow) e lei sola basterebbe a consigliare un film che passato quasi in sordina negli ultimi giorni dello scorso Festival di Cannes (e in Italia al Torino FF) non ha riscosso il successo e l’interesse che per noi merita. Accanto alla formidabile regia del regista catalano (classe 1975) con la passione per la Storia francese che qui per la prima volta lascia il passato per raccontare l’oggi, oltre alla bontà della rara fotografia di Artur Tort, l’eccellenza del risultato è gran merito dell’interpretazione a dir poco superlativa di Benoît Magimel. A lui, a ragione, è andato di recente il Cesar 2023 per la migliore interpretazione maschile – non meritato, meritatissimo. 

Pacifiction/Tourment sur les îles – Regia e sceneggiatura: Albert Serra; fotografia: Artur Tort; montaggio: Albert Serra, Artur Tort, Ariadna Ribas; musica: Marc Verdaguer, Joe Robinson; scenografia: Sebastian Vogler; interpreti: Benoît Magimel (de Roller), Pahoa Mahagafanau (Shannah), Marc Susini (l’ammiraglio), Matahi Pambrun (Matahi), Alexandre Mello (il portoghese), Montse Triola (Francesca), Michael Vautor (il capitano), Cécile Guilbert (Romane Attia), Lluís Serrat (Lois), Mike Landscape (Mr. Mike); produzione: Idéale Audience Group (France), Andergraun Films (Spain), Tamtam Film (Germany), Rosa Filmes (Portugal); origine: Francia/Spagna/Portogallo/Germania, 2022; durata: 165 minuti; distribuzione: Movie Inspired.

Pubblicato su close-up.info, 30/3/2023 di Giovanni Spagnoletti

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Albert Serra si libera delle coordinate temporali, dei costumi, delle parrucche della Francia del Settecento di La mort de Louis XIV e di Liberté, per viaggiare alla volta della Polinesia francese. E sembra quasi ritrovare l’immaginario di Gauguin in fuga, alla scoperta di Tahiti, il paradiso aurorale di un mondo prima dell’inizio della Storia.  “Godo tutte le gioie della vita libera, animale e umana. Sfuggo alla fatica, penetro nella natura: con la certezza di un domani uguale al presente, così libero, così bello, la pace discende in me; mi evolvo normalmente e non ho più vane preoccupazioni”.

È perfettamente logica, dunque, la rinuncia di Pacifiction a qualsiasi inseguimento affannoso di una temporalità conseguenziale. Proprio perché tutt’intorno è l’Eden, siamo nello spazio che precede il peccato e la caduta. La trama non è che un’infinita divagazione, un alto commissario del governo francese alle prese con una serie interminabile di appuntamenti, incontri, colloqui con personaggi di vario genere. Europei, polinesiani, politici, militari, gente comune. Un continuo discorrere senza un punto. Ma quando non c’è la possibilità racconto, molto spesso non resta che la contemplazione. E così, su tutto, trionfa l’immagine di una natura sublime.

Ma Serra sa benissimo che l’esperienza estetica e panica di un mondo incontaminato non è che la versione estrema di una sofisticazione intellettuale, l’ultima ipotesi d’evasione di una cultura ormai esausta, che ha già sperimentato la dissoluzione organica dei suoi simboli istituzionali e delle sue aspirazioni libertarie (o libertine). Cioè quella consunzione messa in mostra in La mort de Louis XIV e Liberté. Oltre la quale, non rimane che la constatazione di un mondo svuotato. Dove tutto ciò che nasce è già consumato. Dove anche la fascinazione esotica ha compiuto il breve passo per trasformarsi nella vacuità di un’esperienza turistica. Turismo elitario, ma pur sempre venduto a pacchetti. E quindi, tra le meraviglie del paesaggio, è tutto un pullulare di resort di lusso, di night club. Un paradiso da vacanzieri e da surfisti, in cui, tra le note dei Beach Boys, attendi l’ebbrezza della grande mareggiata. Che puntuale arriva, nella stupenda scena delle barche che cavalcano la cresta delle onde.

Rispetto a tutto questo, il protagonista, questo incredibile Benoît Magimel in libera decadenza fisica, col suo abito bianco, assomiglia a una specie di Fitzcarraldo stanco. Il residuo raffinato di un colonialismo decadente, fuori tempo massimo. La cui conversazione, arte intimamente politica, è diventata una digressione infinita, un flusso di pensieri, appunti, notazioni, umori. Una specie di monologo, visto che gli altri, molto spesso, non sembrano neanche capire davvero. E a poco a poco, si va quasi alla deriva. Che sia questo il Paradiso? Come in un esercizio estremo di liberazione cinematografica, avvertiamo la possibilità di perdere tempo, di staccarci dagli obblighi di una visione istituzionale, di uscire e entrare dal film, dalla sala. Anzi, nella accurata composizione delle sue immagini concluse, verrebbe quasi voglia di consumare il film a frammenti, magari su una spiaggia, distesi su una sdraio, con un cocktail in mano. Per capitare distrattamente tra le scene, sedersi ogni tanto ad ascoltare le farneticazioni di Magimel, all’ombra di una palma. Anche se, poi, ti rendi conto di tutti quei segni inquieti, di un sottofondo di mistero e complotto, che si nasconde sotto la superficie del mare, per emergere sul finale, in tutta la sua forma definita e minacciosa. Il tempo torna urgente e la storia si prepara a distruggere il paradiso. L’apocalisse definitiva della bellezza.

Pubblicato  su sentieriselvatti.it , 27 Maggio 2022 di Aldo Spiniello

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Nell’isola di Tahiti, nella Polinesia francese, l’Alto Commissario della Repubblica De Roller, rappresentante dello Stato francese, è un uomo di calcolo dalle maniere perfette. Nei ricevimenti ufficiali come gli stabilimenti loschi, prende costantemente il polso di una popolazione locale da cui può emergere rabbia in qualsiasi momento. Tanto più che una voce si fa insistente: è stato visto un sottomarino la cui presenza spettrale annuncerebbe una ripresa dei test nucleari francesi. [sinossi]

Quando esordì diciannove anni fa, nel 2003, con l’oramai dimenticato Crespià: the Film not the Village, l’allora ventottenne Albert Serra affermò: “Volevo fare un’opera d’arte, ma non sono stato in grado di realizzare la mia ambizione. Ho finito per fare un film d’autore”, per poi aggiungere “Odio i documentari. Sono la scusa perfetta per le persone prive di immaginazione. Ma se questo film è il ritratto di un mondo che è prossimo a svanire, può essere considerato un ‘documento’”. Nonostante siano trascorsi quasi due decenni da quelle affermazioni Serra non sembra in alcun modo aver modificato il proprio punto di vista, continuando a rifuggire in maniera decisa il documentario ma mettendo in fila un numero non indifferente di documenti, e ricercando l’opera d’arte pur essendo incasellato oramai nel “film d’autore”. È questa la nicchia in cui è stato accolto per il concorso del Festival di Cannes, dove ha fatto la sua prima apparizione con Pacifiction (il titolo francese è Tourment sur les îles, grondante romanticismo), dopo le precedenti selezioni in Un certain regard (Liberté), séances spéciales (La Mort de Louis XIV) e Quinzaine des Réalisateurs (Honor de cavaleria, El cant dels ocells). Accolto con estrema freddezza, quasi spaesamento, Pacifiction a prima vista sembra scrollarsi di dosso il peso del passato per tornare a confrontarsi con un tempo presente per la prima volta dopo l’esordio: niente più Diciottesimo Secolo, niente più Ancien Régime, ma la Francia repubblicana, senza più colonie ma con le “collettività d’oltremare”. Il film si svolge infatti nella Polinesia Francese, un paradiso terrestre dove ci si può lasciare cullare da onde mostruose, sorvolare atolli da lasciare senza fiato o addormentarsi di fronte a un tramonto da cartolina. È quella la terra che amministra De Roller, Alto Commissario della Repubblica: lo fa muovendosi di incontro in incontro, dialogando con i locali, con gli statunitensi, con gli europei, con chi gestisce un’attività. Lo fa saltando di luogo in luogo, facendosi portare a un passo dall’onda più grande, andando in discoteca, raggiungendo gli avamposti più estremi di una terra che sembra non avere una definizione geografica evidente.

Come ne La Mort de Louis XIV Serra si avventura in direzione della messa in scena dell’esercizio dello Stato, ma se lì ne mostrava la putrefazione, con il corpo del re prossimo all’ultimo respiro, qui si è già un passo più in là, nella completa mancanza di una reale struttura da mandare avanti. Così come non ha tecnicamente senso l’opera di De Roller, vanificata in ogni suo scopo anche perché come sottolinea lui stesso non possiede in realtà alcun potere concreto, allo stesso modo Serra decide di disincagliarsi dalle secche della narrazione per procedere in modo ondivago, privo di una direzione apparente. Lavorando quasi senza sceneggiatura, il regista spagnolo lascia che il film vada alla deriva, si perda: il labile legaccio che ancora lo avvince alla logica è dettato solo dal vago sentore di una spy-story che non prenderà mai davvero corpo e che ruota attorno alla possibilità che la Marina Francese si stia organizzando per nuovi test nucleari nelle acque della zona, come quelli sull’atollo di Mururoa che scatenarono proteste a livello mondiale tra l’autunno e l’inverno del 1995. Ma anche in questo caso si tratta di un giro a vuoto (“in tondo? A spirale?”, si chiedono nel film) per il quale non può esserci una risoluzione definitiva, né uno sviluppo. Serra segue il suo personaggio nell’infinita rete di incontri, ufficiale o meno che siano, e lo sente dialogare come se quelle parole, pur disincarnate da qualsiasi senso concreto, potessero ancora testimoniare la verità dello Stato, la sua necessità, una logica in grado di dettare i ritmi della vita pubblica. Ma De Roller a dire il vero sembra quasi sempre parlare a se stesso, in una funzione che è percepita quasi solo come rituale: la morte dello Stato è sopravvenuta, ora rimane solo il suo vagare in una terra di fantasmi, un paradiso impossibile sognato anche da Paul Gauguin.

Pacifiction, pacificazione, ma anche rimando all’Oceano Pacifico, e volendo alla pace-finzione, quel superamento del vero dichiarato che è la base portante del pensiero cinematografico di Serra. Un Serra che qui forse compone il suo canto più libero e allo stesso tempo quello che richiede la maggior volontà di ascolto, come le immagini maestose di una natura che era lì prima dei francesi e lì sarà anche qualora i francesi non ci fossero più. Solo la Marina, l’agente di guerra, ha ancora la forza della retorica patriottarda, quella che a De Roller oramai manca, sfiancato da un’esistenza in cui lo Stato si è assottigliato, ha perso i contorni netti che aveva quando era giovane. L’Alto Commissario è uno sconfitto che ha accettato la propria perdita in modo indolore, e si muove bolso e quasi ridicolo di spazio in spazio, di luogo in luogo, di pensiero in pensiero. Benoît Magimel è straordinario nella sua capacità di rendere l’indefinibile soavità della decadenza, la pesantezza leggiadra di un colonialismo fatto a pezzi solo a parole, ma mai nella concretezza dei fatti. Corpo cinematografico sfatto, Magimel nel suo completo d’ordinanza è l’epitome di un film che a sua volta ha accettato la decadenza dell’immagine, e di un tempo svuotato di senso, e ha il coraggio estremo di mettere tutto ciò in scena. Con una minaccia di distruzione che è la catastrofe definitiva, e su cui anche il cinema non può che chiudere andando di colpo sullo schermo nero, senza soluzione.

Pubblicato  su quinlan.it , 28/05/2022 di Raffaele Meale

 

 

venerdì 24 marzo 2023

ARMAGEDDON TIME di James Gray (2022)

 

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, Armageddon Time è il film più piccino e personale di James Gray, all’ennesima prova più che convincente, altro prezioso tassello di una parabola autoriale che non conosce confini di genere e che guarda al cinema con una profondità e consapevolezza oramai rarissima. Ambizioso, figlio e discepolo degli anni Settanta, Gray scrive e dirige un coming of age dai contorni fortemente autobiografici e dall’afflato sorprendentemente politico. Memorabile Anthony Hopkins, ma sono le esili spalle del giovanissimo Michael Banks Repeta a caricarsi il peso dell’intero film.

When Jewish Eyes Are Smiling

1980. Secondogenito undicenne di una famiglia borghese del Queens, Paul si mette ripetutamente nei guai a scuola, stringe una sincera amicizia con un ragazzo afroamericano, di estrazione sociale completamente diversa dalla sua, e si scontra coi genitori quando decidono di trasferirlo in una esclusiva scuola privata. Molto legato al nonno materno, Paul scopre l’arte, come purtroppo funziona il mondo e le gioie e i dolori del diventare grande. Sullo sfondo, minacciosa, incombe la prima presidenza del repubblicano Ronald Reagan…

I prodromi della presidenza Reagan, ma anche le prime tracce di Trump; la comunità ebraica e la comunità afroamericana; le classi sociali, l’istruzione, le aspirazioni e le reali prospettive. Insomma, come funziona il mondo, come funzionano gli Stati Uniti. D’ispirazione autobiografica, scritto e diretto da James Gray, Armageddon Time è un coming of age ma è anche – forse soprattutto – un film politico. Lucidissimo, trattenuto come si conviene nella messa in scena, quasi spietato nel ritrarre gli States tra il 1980 e il 1981, anni non casuali, la vera fine dell’utopia degli anni Sessanta\Settanta. Arriva quasi tutto da lì, da quella sconfitta, da quel riflusso. Cast superbo, da Anthony Hopkins al giovanissimo Michael Banks Repeta.

Di padri e figli, di famiglie, di crescita e cambiamenti, James Gray ci ha già raccontato molte volte, declinando questi temi su più fronti, dai bassifondi newyorchesi fino allo spazio profondo, tra le stelle e l’infinito. È sempre stato ambizioso il cinema di Gray, dalla scrittura alla messa in scena: si vedano, ad esempio, le poche sequenze action di Ad Astra, veri e propri giochi di prestigio. Oppure la grandeur produttiva di Civiltà perduta, inno a un cinema sempre più raro da scovare, forse in via d’estinzione. Adesso, poco dopo un altro splendido film generazionale, Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson (altro autore che sembra aver viaggiato nel tempo), Gray apparentemente arretra sul piano produttivo, parlando (in)direttamente di se stesso, degli anni della sua formazione, di un decennio che è stato sconfitto. Un racconto pre-adolescenziale, sentimentale, ancor più minimalista del dolente e disilluso Two Lovers.

Armageddon Time mette in scena alcuni decisivi spartiacque, connessi tra loro, anche se di dimensioni e con conseguenze di divergenti proporzioni. Il passaggio dalla fanciullezza all’età delle responsabilità per Paul e un percorso non dissimile per la sua famiglia e per il padre, uomo forse inadatto a essere un nuovo punto di riferimento. E, decisamente su un’altra scala, lo spartiacque degli Stati Uniti, la fine di quello che è stato e l’inizio di quello che sarà – anche nel cinema, tra l’altro, con il traumatico tonfo della New Hollywood e il rapido affermarsi di un decennio segnato nel mainstream da un evidente disimpegno etico ed estetico.

La regia che appare così classica, quasi invisibile, si sposa con questo preciso momento storico, con questa chiusura: l’assenza di evidenti virtuosismi, pur in una messa in scena assolutamente perfetta e calibrata, è la chiave di lettura di questo tramonto, è l’ultimo vagito di un modo di essere, di un’eleganza formale che verrà travolta e sconquassata dal rombante cinema degli anni Ottanta. L’eleganza formale è anche il veicolo ideale per la statura morale di Aaron Graff (Hopkins), il nonno di Paul, baluardo di una moralità capace di scavalcare classi sociali e appartenenze – lui è, al contempo, ebreo e giusto per le nazioni, è la pietra di paragone che smaschera le fragilità di Irving (Jeremy Strong), il padre di Paul, e l’esempio da seguire ma forse impossibile da replicare. Perché i tempi, appunto, sono irrimediabilmente cambiati.

Ed è, il nonno di Paul, la bilancia tra aspirazioni e necessità, tra sogni e vita reale, tra fanciullezza ed età adulta. Grazie a una scrittura che abbonda di chiaroscuri, Gray riesce a racchiudere nel microcosmo della famiglia Graff un ampio ventaglio di umanità, di punti di vista, di esperienze: come in una eterna lotta tra il Bene e il Male, il piccolo Paul dovrà capire e capirsi, prendere decisioni non facili per la sua età. Da che parte stare? Potrà davvero essere amico di Johnny Davis (Jaylin Webb), ragazzino afroamericano che sogna la NASA?

Armageddon Time ci mette di fronte al tradimento sistematico dell’american dream, trascinandoci nel nido del capitalismo cannibale, tra le mura linde e pinte e i danarosi computer della Kew-Forest School, la scuola preparatoria foraggiata dai Trump. La scuola dei divoratori di sogni.

Pubblicato su quinlan.it 05/21/2022 di Enrico Azzano

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È da anni che cerchiamo di raccontare la grandezza di James Gray, forse riuscendoci solo in parte. Perché la verità è che ogni suo film ha il potere di smuovere un nucleo di emozioni sepolte, di far venire a galla qualcosa che vorremmo tenere segreto, al riparo dallo sguardo degli altri, persino dalla nostra effettiva comprensione. Qualcosa che riguarda l’incapacità di dare espressione e rendere realtà il flusso dei desideri e delle aspirazioni. La difficile necessità di scendere a patti con i limiti e le mancanze. Quelle ferite della coscienza che si aprono a ogni rinuncia e compromesso, tutte le volte che siamo costretti a misurare la distanza da un modello ideale o immaginario, che siamo presi nel groviglio conflittuale dei rapporti più intimi. Tutto ciò che vorremmo rimuovere e dimenticare.

Quindi, con Gray è come se si spalancasse ogni volta una voragine. E non fa eccezione il suo film all’apparenza più piccolo, semplice, che rinuncia alle avventure di genere e si ritrova quasi costretto nella dittatura dei ricordi e nei canoni del racconto di formazione. Perché non è molto difficile riconoscere gli elementi della autobiografia nella figura dell’undicenne Paul Graff. A cominciare dai capelli rossi dello straordinario protagonista, Banks Repeta. E, ovviamente, dal ritratto di questa complicata famiglia ebrea ucraina, terreno in cui affondano le radici del cinema di Gray, sin dai tempi di Little Odessa. Paul frequenta la sesta in una scuola pubblica del Queens. Ha un’immaginazione vivida, ama il disegno e sogna di diventare un artista. Ma, come direbbe il padre, vive tra le nuvole, sopravvaluta la sua intelligenza e forse non ha nemmeno il talento per riuscire in qualcosa. Magari è davvero lento, come sostengono gli insegnanti, stanchi della sua indisciplina. Si preparano, dunque, decisioni importanti sul suo futuro. E la situazione peggiora quando Paul stringe amicizia con un ragazzo nero, John Davis, dalla vita familiare disastrata.

C’era una volta a New York, 1980… Gray torna alla Babele americana. Che da un lato è l’immagine fondativa dell’immigrant sbarcato a Ellis Island, in cerca della Terra delle opportunità. E dall’altro è l’esperienza particolare di un ragazzino che scopre l’esistenza della Storia nei racconti dei grandi o nel brusio indistinto dell’attualità. La Storia che si infiltra tra gli spazi vuoti dell’immaginazione, fino a divorarne i margini di libertà. Con la verità di cicatrici familiari e di conflitti sociali profondi. La persecuzione e la diaspora, i rapporti complicati tra la comunità ebraica e quella afroamericana, l’essenza razzista e classista di un sistema sociale. Tutto inasprito dallo spirito dei tempi, di Reagan che TV prepara la sua affermazione elettorale, o dei Trump che sostengono economicamente le scuole dell’élite e predicano la filosofia della lotta e dell’affermazione personale. L’Armagideon Time della canzone dei Clash, che ispira il titolo e che riecheggia più volte nell’austera partitura musicale del film. A lot of people won’t get no justice tonight.

Ecco. Se davvero per Gray il punto cruciale è il momento in cui si incrinano i sogni, è ovvio come tutto si rifletta in un discorso politico sul grande sogno d’America. Però sempre a partire da una sensazione di non appartenenza, dalla percezione di un’estraneità profonda, radicale. Ed è proprio sulla comprensione di questa radice, che Gray cerca una riconciliazione con il passato. Disegnando la splendida figura del nonno Aaron (Anthony Hopkins), amorevole punto di riferimento morale. E ancor più del padre Irving (un magnifico Jeremy Strong), anch’egli alla ricerca di riferimenti, di esempi, di una dirittura morale sempre più difficile.

Sarà per questo che anche la forma sembra farsi più delicata e pacificata, cercare un’invisibilità classica che rinunci a quei residui d’eccesso, d’entropia quasi ciminiana dei film precedenti. Addirittura, forse per la prima volta nel cinema di Gray, emergono i riferimenti a un cinema dei padri, come quei continui rimandi a I 400 colpi, che funziona da specie di filtro immaginario al libero flusso dei ricordi personali. Ma non c’è, comunque, un’inquadratura che non abbia una sua necessità di forma e di senso, in cui non emergano tutte le stratificazioni di un pensiero e di una visione. È solo il meraviglioso punto di congiunzione tra la semplicità e la densità. Dove si dissolve la rabbia. Ma resta un senso dolente di frustrazione e disincanto. L’impasse della reazione, la protesta che muore in gola e che può farsi solo gesto. Inutile forse, ma comunque un segno di qualcosa. Della necessità e della difficoltà di essere mensch, di essere umani.

Regia: James Gray

Interpreti: Banks Repeta, Jaylin Webb, Anthony Hopkins, Anne Hathaway, Jeremy Strong, Ryan Sell, Tovah Feldshuh, Marcia Haufrecht, Teddy Coluca, Dane West, Richard Bekins, Landon James Forlenza, John Diehl, Jessica Chastain, Lauren Yaffe, Andrew Polk

Distribuzione: Universal Pictures Italia

Durata: 115′

Origine: USA, 2022

Pubblicato su sentieriselvaggi.it il 22 Marzo 2023 di Aldo Spiniello


giovedì 2 marzo 2023

Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo, di Lili Horváth (2020)


Quale straordinario mistero risiede nella nostra mente? È risaputo che la neuroscienza, nonostante gli incredibili passi avanti degli ultimi anni, abbia ancora molteplici incognite riguardo al nostro organo più complesso. Sembra quasi paradossale come si siano raggiunte le conoscenze scientifiche per operare le zone nevralgiche del cervello, curando tumori e aneurismi ma non si possano controllare le quotidiane produzioni psichiche della nostra mente: sogni, emozioni, immaginazione. 

Marta, protagonista del secondo lungometraggio di Lili Horváth (realizzato a cinque anni di distanza da The Wednesday Child), è lo specchio ideale della riflessione operata dalla regista su questa contraddizione scientifica e umana. Lei neurochirurga ungherese trasferita nel New Jersey, per amore decide di ritornare nel suo paese di origine, più precisamente a Budapest. Eppure, l’uomo che ama, l’uomo che durante un convegno negli States l’ha spinta ad abbandonare la propria carriera e ritornare nella città che aveva lasciato dopo la morte dei suoi genitori, sembra non averla mai conosciuta.

 Sono convinta di averti inventato.

 Queste parole di Sylvia Plath, che aprono Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo, riecheggiano come una sequenza di tuoni in aperta campagna nella testa di noi spettatori mentre osserviamo Marta recarsi al suo appuntamento-che-non-c’è, quasi pedinandola, sul Ponte della Libertà, tra le due sponde del Danubio. Il mondo le crolla addosso, la realtà incombe sulla donna che ne rimane pervasa, annichilita. Che l’idillio d’amore vissuto nel New Jersey non sia mai esistito? Lo spettatore non può averne contezza, non l’ha potuto vedere con i propri occhi. Ma può essere certo anche delle immagini che si trova di fronte? 

Lili Horváth segue con grande umanità e delicatezza la sua protagonista, una donna tanto decisa e perentoria in sala operatoria, quanto incerta e smarrita nel fare i conti con la propria vita sentimentale. La frase di apertura della Plath istituisce un rapporto di complice incertezza tra chi osserva e chi è osservato, che trova un tentativo di risoluzione nelle sedute di psicoterapia a cui si sottopone la protagonista. È proprio nel dialogo intrapreso durante queste sedute che lo psicologo incalza Marta, affermando che lei stia cercando di farsi diagnosticare un’inesistente sindrome della personalità multipla. Questo è il cuore della riflessione di Lili Horváth: piuttosto che fare i conti con la realtà preferiamo recitare una drammatica finzione. Come in una commedia di Pirandello è molto più difficile accettare che il proprio amore si sia rivelato un’enorme delusione piuttosto che inscenarsi malati e incapaci di distinguere la realtà dall’immaginazione. A questa azzeccata dinamica meta-cinematografica la cineasta associa una nostalgica e onirica grana della pellicola ma anche una notevole sceneggiatura, che si sviluppa attraverso un gioco delle parti in cui  i “vuoti” lasciati dall’amore mancato di Marta cercano di essere colmati da un intraprendente giovane studente di medicina. Tenera e umanissima radiografia sugli effetti della solitudine sentimentale, il film presentato alla 77° Mostra del Cinema di Venezia e dall’Ungheria per gli Oscar del 2021, arriva a distanza di due anni nelle sale italiane. 

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 2 Marzo 2023 di Giorgio Amadori

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Il secondo lungometraggio della regista ungherese Lili Horvát dallo splendido titolo internazionale Preparations to be together for an unknown period of time (in italiano è: Preparativi per stare insieme un periodo indefinito di tempo) è un film scritto bene e ben interpretato dalla protagonista Natasa Stork che ha trovato – seppure con qualche ritardo – spazio nelle strette maglie della distribuzione italiana dopo essere passato in anteprima alle Giornate degli Autori di Venezia 2020. Si tratta di un cosiddetto un mind-game-film, nel senso che lo spettatore resta per tutto il film incerto su quale sia lo statuto di realtà delle immagini che vede: sogni, proiezioni, realtà, appunto. E soprattutto: chi vede? chi guarda? C’è un narratore onnisciente oppure tutto, ma proprio tutto è filtrato attraverso la prospettiva della protagonista? 

La storia è assai elementare nella sua eccezionalità: Márta, una neuro-chirurga ungherese con una brillante carriera nel New Jersey conosce durante un convegno negli USA un collega ungherese. È amore a prima vista. Si danno appuntamento qualche mese dopo, alle 5 del pomeriggio, a Budapest, sul Ponte della Libertà, lato Pest. Márta fa armi e bagagli, decisa per quest’amore a mollare tutto e a ritrasferirsi nella sua città natale. Peccato che alle 17 del fatidico giorno János non si presenti affatto. Da quest’evento ha inizio una “quest” che persegue due strade uguali e contrarie, forse cronologicamente sfalsate: la ricerca di lui e un’indagine psicologica, anzi diremmo psichiatrica volta a stabilire se sussistano le premesse diagnostiche per un disturbo della personalità.

Non è difficile per Márta rintracciare János, stiamo pur sempre parlando di un collega, la persona, dunque, per lo meno esiste, peccato che quando lei gli va incontro chiedendogli ragione del mancato appuntamento, lui non la riconosca, sostenga di vederla per la prima volta. Márta non demorde, si fa assumere nello stesso ospedale dove lavora lui, col curriculum che si ritrova la prendono a occhi chiusi (interessante, seppur secondario nel film, questo conflitto di civiltà che è in parte anche un conflitto generazionale, fra il prestigio e il know-how degli USA e l’ospedale universitario, sgarrupato assai, della capitale ungherese). 

Questa prima linea (la ricerca di János) diviene vieppiù ossessiva fino, di fatto, a far di Márta una specie di stalker, senza che tuttavia – volutamente – sia dato giungere a una conclusione univoca (Márta delira? János fa finta di nulla?), anche se verso la fine sembrerebbe palesarsi un possibile happy-end. Né si perviene a una diagnosi a seguito delle reiterate sedute dallo psichiatra.

Lo spettatore viene chiaramente invitato a sospendere l’incredulità, a farsi catturare in quest’atmosfera di incertezza, leggermente inquietante, tenuto conto anche del fatto che la protagonista è a sua volta vittima dei pedinamenti e delle massicce avance di un giovane studente di medicina, il cui padre è stato operato e guarito dalla talentuosa donna. 

Il concetto di sospensione è meravigliosamente esemplato nella scena finale: una carrucola che issa all’ultimo piano di un casamento l’enorme cassa di uno stereo che resta, appunto, lì sospesa, osservata dagli occhi azzurri azzurri di Márta. 

Preparativi per stare insieme un periodo indefinito di tempo (Felkészülés meghatározatlan ideig tartó együttlétre); Regia e sceneggiatura: Lili Horvát; fotografia: Róbert Maly; montaggio: Károly Szalay; interpreti: Natasa Stork (Márta), Viktor Bodó (János), Benett Vilmányi (Alex); produzione: Poste Restante; origine: Ungheria, 2020; durata: 95’; distribuzione: Cineclub Internazionale Distribuzione.

 Pubblicato su close-up.info il 1 marzo 2023 di Matteo Galli

 

 

 

giovedì 9 febbraio 2023

DECISION TO LEAVE di Park Chan-wook (2022)

Dopo un lungo vagare, il talentuoso regista sudcoreano Park Chan-wook sembra essere finalmente tornato a casa. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022Decision to Leave è un thriller sentimentale che pesca a piene e consapevoli mani dal cinema di Hitchcock e Kon, una dimostrazione di straordinaria perizia tecnico-artistica mai fine a se stessa: qui le geometrie, le vertigini e le mirabilie del montaggio hanno sempre un senso preciso e ci trascinano in un coinvolgente vortice melodrammatico.

Un uomo muore cadendo dalla cima di una montagna. Il detective incaricato, Hae-joon, incontra la moglie dell’uomo deceduto, Seo-rae. “Mi preoccupo quando non torna da una montagna, pensando che alla fine potrebbe morire”: Seo-rae non mostra alcun segno di agitazione per la morte del marito. A causa del suo comportamento, così diverso da quello di un parente in lutto, la polizia la considera una sospettata. Hae-joon interroga Seo-rae, la spia durante un appostamento e inzia a sviluppare lentamente un interesse verso di lei. Una sospettata che nasconde i suoi veri sentimenti; un detective che sospetta e desidera il suo sospettato; la loro decisione di andarsene… [sinossi]

Dal 2005 fino a oggi, ovvero dopo Lady Vendetta, il cinema di Park Chan-wook ha dovuto fare i conti con la fine della trilogia e con l’abbandono di temi congeniali, perfettamente sviscerati, messi in scena, dominati dal regista e sceneggiatore sudcoreano. Da I’m a Cyborg, But That’s OK a Mademoiselle, passando per la sortita statunitense Stoker, Park ha cercato nuove forme, sperimentando anche con i cortometraggi (Night Fishing) e non disdegnando la serialità (The Little Drummer Girl). Un girovagare che sembra finalmente potersi placare con Decision to Leave, pellicola che riesce nuovamente a coniugare in maniera straordinaria forma e contenuto.

Il cinema di Park, che ha sempre trasudato virtuosismi, torna a dialogare con la vita palpitante, con lo stupore delle emozioni, con la tragicità degli eventi. Al di là delle soluzioni tecnico-artistiche, Decision to Leave gronda umanità. Non accadeva da tempo.
Il film mette a frutto e rielabora alcune suggestioni visive di Alfred Hitchcock e Satoshi Kon, congeniali alla messa in scena di una e più ossessioni, nonché dualismi: la doppia natura cinese\coreana della protagonista, anche moglie\assassina\innocente; la doppia natura del detective, coinvolto sentimentalmente, nonché marito\amante; la detection contrapposta alla passione, ovvero la logica contro il sentimento, ovvero lo sguardo che si scinde, si intreccia, ci ipnotizza. Lo sguardo diventa passione, ritorna logica, è invasivo e potenziato dalla tecnologia: nella messa in scena, al pari dello sviluppo narrativo, lo sguardo diventa veicolo, supera pareti, trasporta i personaggi in luoghi impossibili – ma non impossibili per il cinema, per il montaggio. Ed è proprio nei giochi di prestigio del montaggio, nella compresenza di personaggi altrimenti distanti nel tempo e nello spazio, che emerge con forza in Decision to Leave l’impronta koniana. Park riesce dove Nolan e Aronofsky avevano fallito.

Degli echi hitchcockiani di Decision to Leave, probabilmente più evidenti rispetto ai debiti koniani, stupisce la declinazione non depalmiana, la capacità di Park di plasmare la vertigine in nuove e personali forme. Se uno dei luoghi simbolici è la montagna del primo omicidio, piace constatare la compresenza di soluzioni che rimandano sia a Hitchcock sia a Kon, in un susseguirsi mai gratuito di trompe-l’œil visivi e narrativi. Non potendo ricorrere al collirio dell’insonne detective Hae-joon, lo spettatore è quindi chiamato a un complesso lavoro di decostruzione dell’immagine (e quindi della storia), a un ri-montaggio della presunta realtà.

Come in un melodramma di Wong Kar-wai, la passione di Hae-joon e Seo-rae deflagra nella forma, grazie alla forma. A differenza di alcuni lungometraggi precedenti di Park, che sembravano disinnescare l’afflato drammatico\sentimentale\sensuale dei suoi personaggi, in Decision to Leave ogni inquadratura, ogni dettaglio, concorre alla costruzione di una impossibile storia d’amore: Hae-joon e Seo-rae, che più volte vediamo insieme, vivono in realtà in due dimensioni diverse, appartengono ad altri destini. Lo vediamo proprio grazie alle immagini, all’elaborazione ingannevole – ma paradossalmente sincera e trasparente – delle immagini. Una serie di simboli e di ossessioni, di gesti ripetuti o eclatanti (il collirio, ma anche l’illogica sfida della vertigine), ci conducono verso l’unico finale possibile, rendono chiari i sentimenti di Seo-rae, la sua innocenza. Novella Kim Novak, Tang Wei è l’attrice che visse due volte, prima e dopo Lussuria, prima e dopo Decision to Leave

Pubblicato su quinlan.it il 25/05/2022 di Enrico Azzano