lunedì 28 novembre 2011

Asserzioni su "Miracolo a Le Havre", Aki Kaurismäki (2011) di Eugenia T.


Dunque, qualcuno mi tiene sotto ricatto e mi fa pesare di avermi prestato dei libri e anche secondo me di non essere, come dire, sufficientemente assertiva. Quindi faccio una cosa che non faccio di solito, cioé scrivere una recensione di un film e quindi, va da sé, faccio asserzioni. é seccante. Pare che vada fatto, comunque.
Allora é domenica sono le 5 e mezza, prime luci della sera, arrivo trafelata all'ingresso di un cinema. Freno con strisciata di fronte a un serpente umano che si snoda dall'ingresso del cinema alla piazzetta di fronte, seguendo diverse volute.
Credevo di essere sola. Credevo di andare da sola di domenica pomeriggio a vedere un film che solo, solo io! so che cosa può serbare. Ho sbattuto la macchina in un posto assurdo e vietatissimo, corro corro verso il mio appuntamento, e questi che vogliono?
Chi se ne frega, l'importante é entrare. Intanto però me li guardo. Sono tutti vecchi. Si vede che questi vecchi alla domenica pomeriggio vanno sempre al cinema, perché sembrano anche conoscersi tra loro, o comunque vestiti e accento di quartiere sono omogenei. Stiamo parlando di bei quartieri, beninteso. Sto aspettando mio marito che esce da messa confessa una signora con un bel cappotto colorato. Un bello spaccato della città, e forse anche più in là.
Purché il marito ritardatario non si freghi l'ultimo ingresso, perché la fila é lunga davvero.
Sala a tappo, quasi a tappo, punto secca alle prime file ed eccomi accanto a quello che suppongo essere il più vechio della sala, ultimo della sua fila di vecchi un pò più giovani di lui. Sposta gentilmente il bastone dal manico ricurvo appoggiato alla poltrona di cortesia, quella vuota che bisogna lasciare per non stabilire intimità con spettatori sconosciuti.
Ci siamo. Bene così.
Buio, si parte (sospirone).

Non ne so nulla del film, é a scatola chusa. Prima scena, André Wilms su sfondo ciano, siamo a posto. Kaurismaki ha deportato tutta la sua cricca a Le Havre, dove ovviamente c'é un porto, quindi mi metto serena e vediamo che combinano.
Non credo che racconterò che succede nel film. Ci sono molte scene esilaranti ma ho notato che ridevo da sola in sala. Comunque ogni singola cellula del mio corpo ha riso, sorriso e mormorato per tutta la durata del film e anche dopo. Anche e soprattutto per una banale questione di fotografia, tempi e movimenti.
A un certo punto avevo i lucciconi e anche qui col cavolo che dico dove.
Il fatto é che non so neanche se questo film parla di migrazione, di frontiere, di diritti, o invece parla di tutto e basta. Io poi detesto i film con i migranti, sui migranti, per i migranti.
Kaurismaki si scoccia in un'intervista quando gli chiedono se gli sta bene che il film venga definito una favola sociale, e dice che avrebbe preferito "un capolavoro". Comprensibile.
Ho guardato altre recensioni, le prime che compaiono sul browser. Pare che Kaurismaki non faccia film realistici, ma senti senti.
Comunque, che succede. Succede che bisogna precipitarsi ad aggregare e disperdere, probabilmente. E non in pubblico, non sblaterando impegni e stringendo alleanze comunicate invece che agite.
Allora qui ci sono delle persone che abitano vicino o che si incrociano per traiettorie segnate da esperienze vere. Questo é il contesto in cui ci si espone con grazia, e da cui si esce precipitandosi a vedere il resto, a trovare i modi altrove. Cacciarsi nei guai.
Non si capisce? E vabbé, quanto meno sono stata assertiva.
Cosa vi racconto. A un certo punto c'é la mano dell'infame Jean Pierre Léaud (vecchio come tutti gli altri vecchi) che va dalla tendina azzurra al telefono di bachelite nera e compone il numero con la rotellona.
Il fantastico concerto, che é un attimo organizzarlo, quello c'é. C'é tutto insomma, il cane, il bar, la tipa dei panini, ecc ecc. però a Le Havre.
Il commiato perfetto, uno scambio del tipo non ti dimenticherò mai, neppure io (ogni momento ho ringraziato le poche parole e tutto il resto che racconta con precisione senza mai definire a chiudere).
E poi c'é altro. Cosa volete che racconti, non dirò niente.
Le gambe stupende di Kati Outinen brillano dal vestito giallo mentre chiude il film entrando in casa con Marx (inaudito!).
Ho parlato con qualcuno di gratitudine, recentemente. Non é particolarmente in uso, tra l'altro, come parola. Sono molto grata ad Aki Kaurirmaki e alle sue (molte) grappe.
ps - i vecchi sullo schermo e i vecchi davanti allo schermo, avevano qualcosa in comune? Chi lo sa, all'uscita non ho controllato.

EUGENIA

venerdì 25 novembre 2011

Vent’anni dopo l’officina dei sogni: una riflessione sullo stato del desiderio


Sandblow, e il mio vecchio amico Maxygroove, mi hanno chiesto di aprire a una riflessione a partire da un mio vecchio progetto di ricerca di ormai quasi vent’anni fa. Un progetto sui mondi della comunicazione, della creatività e delle sottoculture a Genova che confluì in un volume edito da Costa&Nolan dal nome “l’officina dei sogni”. Io ammetto che non amo molto parlare di quel lavoro essenzialmente perché i miei due compagni di viaggio in quell’immersione nel mondo della creatività, Maria Teresa e Massimo, mi hanno lasciato da solo ad osservare e vivere questo mondo e parlarne mi apre a nostalgie e malinconie enormi.
In ogni caso ne riparlo volentieri in Sandblow perché mi sembra il luogo più adatto, perché?: perché è un blog, perché è una folata di vento caldo nella sabbia, perché la traccia o la lascia o non la lascia e non è certo quello il problema ma in ogni caso è una fantastica e operosa officina dei sogni.
Vent’anni fa come oggi la domanda è sempre la stessa, perché le persone fanno le cose, quali sono i motori trainanti della creatività, della voglia di esprimere, della fame senza fondo di ricerca e di progetto. Rispetto a vent’anni fa il mondo è cambiato radicalmente, nello stesso tempo si è ampliato e si è ristretto, ha aumentato la profondità di prospettiva ed ha allargato il campo visivo costringendoci tutti, ma proprio tutti, ancora una volta di più a fare conto con la nostra incapacità di contenere il tutto e favorendo cosi continui straboccamenti emotivi, psichici e non di meno creativi.
Nel nostro lavoro le officine dei sogni, che erano tutti quei mondi di produzione culturale e comunicativa underground che avevamo incontrato, le avevamo lette in una formula comparativa/antagonista con l’industria culturale e con un sistema di segni che ancora sembrava destinato a dominare e governare l’immaginario collettivo. 

Oggi non è più cosi, o lo è in parte, sono cambiate le coordinate del sapere e il sistema culturale, cosi come lo conoscevamo, è stato minato alle fondamenta da una serie di processi che hanno ridisegnato il senso stesso di produzione culturale e quindi anche quello di sottocultura o ancor di più di controcultura.
Coloro che coltivano le passioni, le arti e la ricerca sanno che questi percorsi sono fatti di tempo e di parossistica velocità, di capacità di guardare al mondo senza le riposanti lenti del già detto o del già pensato, e di profonda riflessione su se stessi e su quello che li circonda.
Spesso mi è stata fatta la domanda su che cosa potrebbe essere cambiato se rifacessimo oggi quel percorso di ricerca, la risposta è ovviamente composita e se, come ho già detto, è ovvio che il contesto è sicuramente profondamente mutato e cambierebbero, in parte, i nomi e le facce, i temi, le elaborazioni e le prospettive, ma sono sicuro che, oggi come allora, che ancora emergerebbe quello che avevamo definito lo stile del cuore di persone che continuano a credere nella realtà del desiderio e dei sogni, di quel strano gruppo sociale trasversale per classe e generazione che continuano ad averne voglia.
Certo magari sono cambiati gli strumenti e le possibilità, e in cuor mio sono convinto che rispetto a vent’anni fa la scena sarebbe ancora più ricca e stimolante, ma ciò che sono certo che rimane intatta rimasta la voglia di alcuni di mettersi in gioco, di non avere paura e di uscire fuori.
L’unico vero problema? Cosa è quel fuori e forse, alla fine, quel che è giusto fare è quello di rimanere per sempre nel dentro, nel sotto, in quel luogo dove si possono chiamare le persone per nome, investendo energie per amarle e per amare il proprio lavoro, le proprie passioni e le proprie ossessioni, lasciando fuori tutti quelli che non vedono, non sentono e non ricercano.
Comunque per stimolare un po’ di discussione, con chi vorrà avviarla, faccio io un paio di domande ai lettori di Sandblow:
1) cosa rimane? Cosa rimane della voglia,della passione e del desiderio in un mondo che sembra negarti diritto di parola, di azione di crescita e di realizzazione dei propri sogni?
2) Che fare? Cosa fare per realizzare i propri sogni e i propri desideri?
Oggi come allora One Love.
Massimiliano Di Massa

giovedì 24 novembre 2011

Intervista a Luca Guadagnino

Ottima intervista realizzata a Alessio Galbiati, di RAPPORTO CONFIDENZIALE, a LUCA GUADAGNINO. Regista di interessantissimi documentari, tra gli altri Inconscio italiano (2011) e Cuoco contadino (2004), ha avuto un notevole riscontro internazionale con "Io sono l'amore" del 2009, con Tilda Swinton, nominato ai Golden Globe e all'Oscar.

"Melancholia" (2011) , Lars Von Trier

Lars Von Trier. Non credo di aver mai assistito, se non per ogni film del regista danese, o almeno da “Le Onde del Destino” in poi, ad una così feroce spaccatura, difficilmente riscontrabile dalla critica cinematografica verso altri registi, suddivisa tra una maggioranza che lo detesta in modo assoluto, e chi lo idolatra per ogni suo film. Premesso che nella storia del cinema, anche coloro che sono considerati tra i massimi esponenti della settima arte (Kubrick, Truffaut, Tarkovskij solo per citarne alcuni), hanno avuto critiche non benevole e duri attacchi, su Von Trier ci vorrebbe un capitolo a parte proprio per analizzare questa vero e proprio accanimento di vari recensori riversata sui suoi film, cui nemmeno “Melancholia” è scampato. Sarà perché l’essere umano descritto dal regista danese è spesso descritto come peccatore (non in senso religioso), malevolo, ma anche pronto al sacrificio, con toni e personaggi spesso esasperati, Von Trier viene addittato come pretenzioso, arrogante, inutile, addirittura pericoloso, con un accanimento raro se non unico, pur dovuto anche ad atteggiamenti arroganti da pseudo anti-star, come l'infelice, anche se decisamente strumentalizzata, dichiarazione sul nazismo all'ultimo festival di Cannes.

Indossando i panni del fan del regista, e che, personalmente, ritengo le sue opere migliori “Epidemic” (1998), “L’elemento del crimine” (1984) e l’inarrivabile “The Kingdom”  - nelle sue due parti del ’94 e del ’97 -,  “Melancholia” è comunque un'esperienza narrativa e visiva da non mancare. Tornano le affascinanti elaborazioni/elucubrazioni dei suoi temi preferiti: la paura, le fobie, un destino ineluttabile che non risparmia nessuno, la solitudine. Temi, che per quanto drastici e negativi, l'Uomo affronta, come quelli della redenzione e del cambiamento. Definito dal regista stesso “un film sulla fine del mondo” (ecco il primo ritorno ad uno dei temi “classici” del regista danese, l’umanità destinata all’oblio), quale in effetti è, viene però raccontato attraverso ciò che accade all’interno di un nucleo familiare borghese in una sontuosa villa, mentre un enorme pianeta si avvicina gradualmente alla Terra, minacciandone la distruzione. Justine (Kirsten Dunst, palma d’oro a Cannes per l’interpretazione femminile), e il novello sposo Michael , arrivano a una festa organizzata dalla sorella di lei, Claire (Charlotte Gainsbourg) e dal cognato John (Kiefer Sutherland), dove li attende il resto della famiglia. Mentre il tono della festa diventa poco per volta più cupo, fino a raggiungere toni imbarazzanti e destabilizzanti, Von Trier  destina  Justine all’incarnazione del male di vivere, della depressione,  della malinconia, mutandola in una sorta di ribelle del nucleo borghese cui appartiene, sfidando le norme sociali e rigettando i comportamenti di tutti intorno a lei, fino all'abbandono del novello sposo durante il ricevimento. La sua trasformazione finisce per abbattersi anche su Claire (cui è dedicata la  seconda parte del film, in una sorta di visione speculare della figura bambina-figlia-madre ), John e il loro bambino, mentre l’enorme pianeta blu - chiamato "Melancholia", come se il simbolismo non fosse già abbastanza chiaro -, comincia a coprire il cielo. Mentre John, da astronomo dilettante, assicura la moglie che il passaggio di Melancholia non avrà alcuna conseguenza, Justine, nella sua apatica depressione, muta fino a diventare l'unica ad aver fatto pace con il suo destino, avendo trovato - nella sua solitudine e nell'espiazione - la forza per essere madre, protettrice e guida di Claire e del nipote nell'incombente fine del mondo.
Ho letto "Melancholia" come la descrizione di un’apocalisse sociale, che bilancia quella fisica e distruttiva che seguirà, investigando sempre nella complessità dei personaggi posti di fronte a un all' inevitabilità del destino, con Justine e Claire a rappresentare le diverse modalità di reazioni di fronte ad eventi caotici e imprevedibili: la paura e la “riverenza spirituale”, il cambiamento, il dolore e l'accettazione del proprio essere. Il tutto pervaso, comunque, da un senso estremamente lirico (anche dal punto di vista musicale, come il Wagner del prologo), animato da una personale sensibilità , giocata su toni intimi ed una solida abilità estetica. La scena in cui il pianeta drena una parte dell'atmosfera terrestre, costringendo i suoi abitanti in iperventilazione, può essere anche letto come un attacco di panico prolungato, di cui Von Trier ha detto spesso di soffrire, così come della depressione, espressa visualizzazione del male di vivere.
Riallacciandomi al prologo del post, ho letto da più parti che Von Trier , con questo ennesimo film, continua ad essere un regista pretenzioso, “che prende per il culo pubblico e critica”. Qualsiasi opera artistica, musicale , pittorica, cinematografica è per sua stessa natura soggetta a giudizi e critiche; personalmente preferisco toccare con mano, prima di farmi condizionare da "autorevoli firme" dei cosiddetti critici cinematografici, che riempono i più inutili salotti televisivi di (non)stile marzulliano o le pagine dei quotidiani.

martedì 22 novembre 2011

"Et in Terra Pax" (2011) di Matteo Botrugno

Uno dai casi cinematografici dell'anno, un gioiellino, realizzato con un budget ridottissimo e con grande talento dagli ex alunni del Centro Sperimentale di Cinematografia è finalmente disponibile in DVD Cghv Editoria Elettronica.

lunedì 21 novembre 2011

"Il Resto è Rumore" di Alex Ross, Bompiani 2009

Alex Ross è un critico musicale del New Yorker, su cui scrive regolarmente da alcuni anni, ed è autore di due libri sulla musica classica e contemporanea che hanno il pregio, assai raro, di affrontare e approfondire questi generi musicali sia da un punto di vista storico che di analisi della struttura musicale, utilizzando un linguaggio adatto e intrigante anche per un pubblico non avvezzo a queste sonorità. Non avendo ancora letto “Senti questo”, pubblicato da Bompiani qualche mese fa, mi soffermo sul primo libro di Ross, “Il resto è rumore”, pubblicato nel 2009 e oggi reperibile anche in edizione economica sempre da Bompiani.

Il libro è un viaggio nella Musica del ventesimo secolo, cominciando con un’accurata analisi della prima, allora scandalosa, “Salomè” di Strauss, terminando con uno studio di John Adams e l’opera “Nixon in China”. Il tutto descrivendo il contesto storico in cui nacquero sia i musicisti che le loro opere, i re, i dittatori, i regimi che cercavano il controllo sulle loro composizioni. La teoria, descritta con arguzia e riferimenti storici ben definiti, porta a dire Ross che non ci potrebbe essere stato Aaron Copland senza la Grande Depressione, così come Kurt Weill senza la Repubblica di Weimar e l'ascesa del nazismo, fino all’analisi della musica d’avanguardia sotto le tirannie di Hitler e Stalin e nel dopo guerra. “Il resto è rumore” descrive molte opere e compositori, riuscendo sempre a mantenere le sue descrizioni coinvolgenti, specialmente nella parte dedicata alla musica classica, che riuscì a sfuggire da un contesto puramente elitario con l’avanzare della cultura popolare, mentre i capitoli dedicati al dopo guerra occupano solo un terzo del libro.
Alcune pagine non potevano essere ovviamente non dedicate al jazz, o almeno a Duke Ellington, fino ad arrivare all’avanguardia rock degli anni ’60 dei Velvet Underground di Lou Reed e John Cale, cui sono dedicati però solo un paio pagine. Indubbiamente ci sono delle lacune, immancabili e perdonabili in un libro così ambizioso, così come passaggi più intriganti dedicati a musicisti meno noti come Benjamin Britten, rispetto ad altri quali ad esempio Charles Ives. Pur essendo scritto cronologicamente, Ross salta spesso avanti e indietro nel tempo per effettuare le varie connessioni storiche e musicali.
Consigliatissimo il sito personale dell’autore www.therestisnoise.com , dove trovano spazio varie rubriche dedicate alle recensioni, ad interessanti guide all’ascolto di vari generi musicali, fino al blog personale di Ross.

lunedì 14 novembre 2011

"The Weather Underground", un documentario di Sam Green e Bill Sigel

Trent'anni fa, un gruppo di giovani radicali americani chiamato The Weathermen annunciaromo l'intenzione di rovesciare il governo degli Stati Uniti. Spinti dalla indignazione per la guerra del Vietnam e il razzismo in America, si mossero in modo sottorraneo negli anni 1970, bombardando bersagli in tutto il paese che simboleggiavano "la vera violenza", che il governo degli Stati Uniti e il potere capitalista scatenava in tutto il mondo. Da recuperare, in un momento politico instabile, privo di valori e di indignazione come quello che stiamo vivendo in Italia. Cliccate sul titolo, il link di presentazione del documentario, reperibile tranquillamente in dvd.

Ma che cazzo ce ne frega del Trolley di Cheyenne (tagliati i capelli……….. leggera)


Ci si chiede in molti che cosa passa nella mente di Sorrentino. Il percorso di redenzione di Cheyenne, che lo porta a crescere, maturare attraverso un complesso e scontato “on the road” dentro il repertorio dei propri irrisolti e delle proprie paure, fa sorridere e un po’ incazzare.
L’idealtipo della star/nevrotica/assessuata/agenerazionale, ben interpretata da Sean Penn, racchiude molti degli stereotipi di molti cinquantenni/quarantenni di oggi ed è sinceramente patetica, come sono patetici i tentativi di dare spessore a una storia che poteva avere senso 20 o trenta anni fa, ma che oggi sembra essere inesorabilmente slegata da qualsiasi senso del contemporaneo.
Tra i non luoghi irlandesi, quelli del midwest americano e i non luoghi della mente del povero Cheyenne che, alla perdita di senso complessiva della propria esistenza vissuta in uno scenario fatto di supermercati e di spazi vuoti, reagisce andando ad affrontare il rapporto irrisolto con il padre e addirittura i temi dell’olocausto, tutto ciò per riacquisire un po’ di senso e di motivazione fino ad arrivare a un percorso di crescita e di evoluzione che lo conduce ad abbandonare le proprie paure…… e finalmente crescere, nell’orrore della normalizzazione del personaggio.
Cheyenne/Sorrentino ragiona come una rockstar (e chi se ne frega) vive una vita privilegiata in una villa con piscina e con una superba Frances McDormand che incomprensibilmente lavora come pompiere e fa da badante al protagonista, si aggira nel vuoto e lo spaesamento delle architetture contemporanee attanagliato nel senso di colpa per la morte di suoi giovani fan quando probabilmente la sua poetica invitava al suicidio purificatore, ha come migliore amica un’adolescente pseudo emo che lo aiuta a sottolineare, ancora una volta, l’esistenza di mondi paralleli non destinati ad incontrarsi.
Il groviglio Cheyenne, col suo cazzo di trolley oggetto culto centrale del film che rappresenta il passato traballante denso di sensi di colpa su cui il vecchio ragazzo si appoggia nel suo ciondolare per i quadri del film, quando finalmente si degna di tornare al capezzale del padre morente comincia il suo viaggio nella sua anima e nel suo passato in una desolatamente banale rappresentazione dei decadenti spazi dell’ormai periferia del mondo degli States con una inquietante rassegna di improbabili personaggi abbozzati e mai conclusi, tenendo al centro il ritmo della lentezza e della depressione della patetica rock star.
Il finale, sia rispetto alla conclusione della “caccia metaforica” al criminale nazista sia del ritorno alla “normalità” è la conferma dell’inutilità del film, che con tutta probabilità è un omaggio che Sorrentino fa alla sua adolescenza, al suo gruppo di amici con cui si faceva le cannette e ai suoi miti di gioventù.
Un film ricco di budget, gadget e povero di idee innovative. Coraggioso si, il coraggio di chi pensa di poter dire quello che vuole prendendo per il culo il pubblico e non dicendo nulla di nuovo ne dal punto di vista formale ne dal punto di vista narrativo.
E poi diciamolo, ode alla permanenza nell’inconscio personale e collettivo dell’indeterminatezza dell’evoluzione e della crescita, noi preferiamo Peter Pan a John Wayne ……… viva le clipper abbasso i camperos, viva il make up abbasso i menti squadrati.
Rock’n’roll never dies.

martedì 8 novembre 2011

Una riflessione su "This must be the place" di Paolo Sorrentino

Di “This must be the place” si è gia detto e scritto tantissimo, molto prima che arrivasse nelle sale, sia grazie anche alla presenza di Sean Penn e altri attori del calibro di Frances McDormand e Harry Dean Stanton, che per l’alto costo di produzione di 28 milioni di dollari, una cifra iperbolica per un film italiano, pur se coprodotto. A parte la grande maschera di Penn, per quanto buffa ed a tratti irritante, unita però ad un doppiaggio che rende il personaggio una mera macchietta, ho trovato il film una sorta di bignami della cinematografia di Sorrentino. Un macro-universo con i suoi antieroi sfasati e solitari, depressi e annoiati,  incollati alla sua idea di film on the road, per le strade di quell’America “profonda” che non riesce ad avere, però, lo stesso sguardo intimo, la stessa capacità descrittiva di quei paesaggi fatti di motel, pompe di benzina, figure sfuggenti incontrate in lande desolate, di un altro cineasta europeo come Wim Wenders (il capolavoro “Paris, Texas” (1984), ma anche  film minori quali “La terra dell'abbondanza”, 2004 e “Non bussare alla mia porta”, 2005 ).
Come in “Paris, Texas” , interpretato proprio da un fantastico Harry Dean Stanton, ci troviamo di fronte all’ennesimo viaggio di formazione e maturazione che scatta attraverso la sofferenza, la ri-scoperta delle proprie radici, ma nel film di Sorrentino tutto è pervaso da una sceneggiatura fin troppo didascalica, a partire dai personaggi stessi, che si muovono su binari spesso esasperati fino alle finzione se non al ridicolo. La noia, che Sean Penn/Cheyenne vive tra partite di squash con la moglie nella piscina vuota (ennesimo paradigma ?), o cercando un fidanzato a una ragazzina con cui gira per i centri commerciali, sembra essere la stessa sensazione di impotenza che accompagna anche il divo Stephen Dorff/Johnny, protagonista del pessimo “Somewhere” di Sofia Coppola, che guida solitario la sua Ferrari o trascorre le giornate giocando alla playstation con l’amico del cuore. Per entrambi i protagonisti sarà l’evento “esterno” che, cadendo nelle loro vite all’improvviso, riuscirà a scuoterne le coscienze, coscienze di personaggi ricchi e persi nel successo, presente e passato, in cui non hanno trovato una valida ragione per sbloccarsi dalla loro personale casa dei giochi e da un comportamento divistico/fanciullesco, se non grazie ad un evento traumatico. Sinceramente, trovo questa tipologia di personaggi vanitosi ed irritanti, priva di quel valore simbolico della “scoperta” e della “rinascita” dell’Io che sia il regista napoletano che la Coppola hanno tentato invano di dipingere.
Quella rinascita che in “Paris, Texas” Wenders, affida alla sofferenza ed al cammino, difficile e silenzioso di un uomo comune, scolpendo nella memoria dello spettatore un viaggio interiore fatto di fatica e di sofferenza interiore, ben più reale di quello compiuto da Cheyenne o Johnny.

giovedì 3 novembre 2011

"PUSHER" La Trilogia di Nicolas Winding Refn, Palma d'Oro alla regia all'ultimo festival di Cannes

Vincitore per la miglior regia all’ultimo festival di Cannes, “Drive” del danese Nicolas Winding Refn, oltre ad essere il suo primo film hollywoodiano, è l’opera che lo ha definitivamente sdoganato da autore acclamato dalle ristrette visioni festivaliere a il vasto pubblico, grazie  ai quanto mai errati paragoni con Tarantino, piuttosto che per il suo personale talento. Tralasciando le valide e precedenti prove di “Bronson” del 2008 e il violento fantasy, visivamente folgorante, “Valhalla Risin” (2009), la trilogia di “Pusher”, facilmente reperibile anche in dvd, è l'opera che meglio identifica il talento di Refn.

Dopo studi, e relativa espulsione dalla American Academy of Dramatic Arts, al ritorno in patria il ventiseinne Refn inizia a mettere mano a quella che si sarebbe successivamente tramutata in una trilogia, anche se girata a distanza di qualche anno tra una pellicola e l’altra. “Pusher – L’inizo” è del 1996, storia di piccoli, perduti violenti ladri, boss di quartiere e spacciatori del folto sottobosco criminale di Copenaghen, mostrata sempre e solo negli squallidi sobborghi suburbani, restando come sfondo grigio e indistinto, come la New York del primo Scorsese (Mean Streets) o di Abel Ferrara, e ispirata espressamente da un regista nostrano come Sergio Sollima e il suo film “Città violenta”.
Una storia in cui personaggi, perduti in un continuo vagare di sopravvivenza giornaliera, tra piccoli spacci e tentati crimini più grandi di loro, vengono didascalicamente presentati all’inizio della pellicola. Un incipit quasi teatrale (quel teatro immaginario e dell’assurdo, ma così presente e vivo
come in “Bronson”) presente anche nelle pellicole successive;personaggi da cui siamo costantemente attorniati, senza prestare la minima attenzione alle loro vite .Vite  condotte come se facessero parte della vena folkloristica delle nostre città , dei nostri quartieri, che a volte guardiamo perfino con ironia, senza mai “leggere” con profondità cosa si nasconde dietro quella che definiamo comunemente una vita al limite. Con un approccio solo apparentemente basico, il film non vive solo  di una sterile "poetica" della violenza, anche grazie ai continui movimenti della camera a mano di Refn, dove brutalità e  picchi di violenza vengono quasi occultati, perché la ferocia non ha bisogno di essere mostrata, ma trasuda nel girovagare del sempre più inguaiato Frank. Spacciatore che non riuscirà a far fronte ai suoi debiti, grazie anche agli scorretti, quanto ingenui interventi dell’amico Tonny, uno sbruffone semi demente con il tatuaggio “respect” sulla testa rasata (quasi simbolo di un destino che lo vedrà interprete del secondo film), e Milo, piccolo boss e trafficante turco pervaso da minacciosa cordialità, personaggio che ritornerà anch’esso nei due film successivi.
Una discesa senza speranza, che sembra invece per un attimo illuminare il destino di Tonny, protagonista di “Pusher 2 - Sangue sulle mie mani (2004)”, che uscito di prigione dopo l’ennesima condanna, nel tentativo di riconquistare il rispetto (il suo tatuaggio, la sua richiesta non urlata ma che diventa urgenza di vita) del padre, boss violento e privo di alcun istinto paterno, attraverso furti, minacce e pestaggi, sarà costretto  verso un destino plumbeo e vuoto come il bus notturno su cui fuggirà portando con se il figlio, di cui era venuto a conoscenza avvicinandosi all’ex fidanzata prostituta e cocainomane. L’aria di desolazione e degradazione di una fetta di umanità disperata, spinta dagli eccessi, dalla droga, dalla mancanza di rispetto subita e perpetrata a tutto e per tutti, donne o bambini che siano, è quella che pervade anche l’unica scena finale in cui Tonny cercherà di lasciarsi alle spalle il suo passato, sembra a voler aprire un velo di speranza. Speranza che Refn sembra poi volutamente fare perdere nei titoli di coda, neri come il destino che sembra avvolgere il protagonista ed i personaggi, i finti amici, gli ipocriti parenti coprotagonisti del film.
“Pusher 3 – I Am The Angel of Death (2006)” torna ad avere come protagonista principale Milo, nel giorno del matrimonio della figlia, che sfruttando i sensi di colpa del padre, arriverà perfino a ricattarlo per usurpare lei stessa, il decadente, imbrattato di sangue, piccolo trono di Milo. Trono del quartiere di cui il trafficante non ha più il controllo incontrastato, poco per volta estromesso dalle nuove leve criminali di immigrati che gli ha dichiarato guerra. E’ il racconto più lucido, violento e nero, e forse anche il capolavoro, dell’intera trilogia di una Copenaghen assunta a simbolo di una
umanità, che trova il suo luogo di sopravvivenza e ineluttabile caduta in luoghi a noi vicini, nei quali è anche facile vedere Scampia o le periferie di tante città italiane, così come delle metropoli statunitensi, solo geograficamente distanti, ma che rappresentano, in fondo, lo stesso spazio, lo
stesso teatro, sul quale i personaggi si muovono come burattini retti da fili di un destino che sembra scritto in caratteri rosso sangue.
“Drive”, pur raggiungendo  livelli registici inespressi nella trilogia di “Pusher”, grazie anche ad un alto budget e l’eccellente maschera di Ryan Gosling, non riesce a replicarne l’impatto emotivo e territoriale di Pusher, avendo però  il merito di riscoprire opere che altrimenti non avrebbero avuto la visibilità meritata. Punto.

mercoledì 2 novembre 2011

Principianti - l'esile filo di Raymond

A vent'anni dalla prematura scomparsa esce in versione originale l’opera di Raymond Carver formata da diciassette racconti editati all'inizio degli anni ottanta sotto il titolo "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore". A differenza delle precedenti versioni, corrette per non dire amputate da Gordon Lish, suo agente letterario e assertore di un minimalismo ai limiti della castrazione letteraria, il nuovo testo ci mette di fronte all’originale gamma poetica di Carver.

Grazie a un linguaggio ellittico, non superficiale, di accenni, descrizioni appena abbozzate, Carver ci introduce nella vita quotidiana dell’altra America, quella dello spreco, del proletariato, dei sogni infranti; quell’America i cui protagonisti sono accerchiati da mille paure e insicurezze, dal bisogno di essere amati, dall’ansia di trovare una redenzione alle proprie colpe e di riuscire a iniziare un percorso di assoluzione, di salvezza. Così i personaggi di Carver vivono tutti una sensazione di vuoto e di perdita sia individuale che collettiva che si presenta in modo diverso ma con un comune denominatore che è quello dell'attesa di qualcosa che è in procinto di accadere e che può considerarsi già catastrofe.

Al disperato urlo di solitudine che echeggia in ogni pagina si unisce una claustrofobica atmosfera di deja vu , dentro cui per esempio si muove una coppia all'interno di uno spazio domestico che ha sempre, nella sua narrazione, una parte attiva e che ci fornisce attraverso la sua descrizione la storia e ci indica, con i suoi oggetti, la successione nel tempo delle vicende. Gli oggetti che popolano l'esterno o l'interno della casa non sono infatti semplici suppellettili quotidiani ma possiedono una particolare potenzialità che serve a completare il disagio interiore dei personaggi, come il frigorifero che improvvisamente si rompe, il televisore che sveglia in modo brusco il protagonista o il telefono che squilla in un momento inopportuno, per non parlare delle bottiglie di alcol che circolano e si inseriscono in ogni contesto come un sommesso e continuo accompagnamento musicale.

Mai fino ad ora mi era capitato di percepire come nei racconti di Carver la presenza imponente di una coscienza “universale” che alita sul corpo dei personaggi, li incalza, li opprime, li sottopone a giudizio e quasi sempre li trova colpevoli. Si termina un racconto con l’amaro in bocca, con lo scritto che lascia sul campo i dispiaceri di una vita inespressa o relegata ai margini. Non si può non domandarsi se il dolore non sia la sola cosa al mondo che la gente possegga davvero, se lo stato d’animo prevalente non sia quello del rimpianto e della malinconia per qualcosa che è passato o non è mai esistito.
Carver dipinge con pochi colori una tela che non vedrà mai il suo pieno compimento, un astratto disegno che lascia intravedere come il tragico tentativo di dare un senso alla vita sia anche l’unico appiglio a cui attaccarsi.