France de Meurs è l’inviata-immagine di una delle principali
reti televisive all-news 24 ore su 24 della Francia, comparendo dai dibattiti
politici in studio fino nei reportage dalle zone di guerra in giro per il
mondo. Nulla sembra in grado di contrastare la sua ascesa, finché un incidente
stradale non sarà l’innesco di una serie di disastri professionali e personali.
In un’intervista rilasciata per Quinlan a Giampiero Raganelli nel 2018 a Locarno, dov’era premiato con il Pardo d’Onore e presentava al pubblico ticinese la serie Coincoin et les Z’inhumains, seguito ideale di P’tit Quinquin, Dumont dichiarò: «Il giornalismo in televisione è cinema, è sempre montato, mixato con suoni, dunque la televisione è tutta una fiction. La gente pensa che sia vera ma è cinema». France si sviluppa interamente attorno a questa riflessione, riassumibile in tre punti distinti: Il giornalismo in televisione è cinema, La televisione è tutta fiction e La gente pensa che sia vera. Anche i clamorosi reportage portati a termine da “Madame France” sono veri, ma la giornalista li crea e cura in ogni minimo dettaglio: l’inquadratura a riprendere il jihadista, gli immigrati posizionati sul barcone che tenta la traversata del Mediterraneo, e via discorrendo. Tutto è vero, perché tale è la condizione in cui si trovano le persone, ma è costruito, strutturato su una grammatica del racconto per immagini che è paritetica a quella cinematografica. Prima ancora di essere una giornalista France de Meurs è una regista, il linguaggio dei suoi servizi televisivi è quello del cinema, la sua è una messa in scena totale, e totalmente consapevole. Anche solo la prammatica della costruzione delle interviste, con la sua finzione del tempo contemporaneo, basterebbe a sottolineare questo aspetto, ma per l’appunto France, nel tentativo di costruire la sua personale immagine da santificare – e quindi da odiare, che la sacralizzazione contiene già al proprio interno il germe della blasfemia che la distruggerà, e si torna nuovamente a ragionare su Jeanne d’Arc – edifica pezzo per pezzo ogni singolo dettaglio della sua “cronaca”. La prassi, in una società in cui l’immagine pura non è più pensabile, non è più nemmeno ipotizzabile.
Questa dura reprimenda nei confronti del sistema-Francia Dumont la mette in scena ricorrendo spesso al bozzetto, a quella deformazione del “vero” che è diventato film dopo film uno dei punti nevralgici della sua idea di rappresentazione della finzione. Si presta al gioco una superba Seydoux, che dimostra di sapersi muovere nei campi più disparati dell’interpretazione, e si deve necessariamente prestare al gioco anche il pubblico, perché Dumont gioca con il basso culturale utilizzandolo come elemento primario della scena. Il vero è oramai ridotto a un miserabile orpello? E allora il cinema deve avere il coraggio di spingersi ancora un passo oltre, superando di nuovo le miserie del televisivo. L’irruzione della tragedia nella quotidianità della farsa non può che essere un “incidente”, e così il regista ne mette in scena due: il primo ha il compito di mandare in crisi l’apparato filosofico della protagonista, di fronte alla quale viene svelato in maniera definitiva il volto più putrido della società – il volto degli ultimi della classe, ovviamente –, mentre il secondo serve a mandare in crisi l’immagine stessa costruita fino a quel momento. Un incidente che viene diretto da Dumont come se stesse mettendo in scena un puro action da botteghino: se si deve giocare alle regole del sistema tanto vale farlo fino in fondo, scavare fino a trovare il nucleo al centro della Terra.
Perché l’immagine del cinema può ancora permettersi, nonostante tutto, il lusso di spingersi nella rappresentazione del vero là dove alla televisione e alla cronaca non è ancora concesso (ma forse è solo questione di tempo): la televisione può fingere la vita e renderla credibile, ma non è ancora in grado di raggelare la morte, fissando negli occhi colui che sta per dipartire. Questa riflessione teorica, questa guerra che il regista-Dumont scatena contro la regista-France (e quindi con la realtà che è costretta nuovamente a vedersela con la finzione) è anche uno degli aspetti più dinamitardi di un’opera così stratificata da poter essere letta con estrema semplicità senza accorgersi dei vari livelli sui quali si muove. France prova a scappare dalla televisione del dolore – dolore eletto a sistema dell’immagine, e quindi edulcorato – per provare finalmente, in maniera fisica e senza reti di protezione, il dolore reale. Ma questo lusso non le è forse concesso. Quel dolore lo assume su di sé la regia di Dumont, così apertamente fuori dal sistema da mandare a gambe all’aria tutto il cinema borghese progressista medio di Francia, un Paese non poi così eccellente come suggeriva un secolo or sono Charles Péguy, e in cui l’immensa violenza che passa indisturbata tra la folla si fa finta che non esista. Fingendo di essere veri, e quindi ancora vivi.
Di Raffaele Meale, pubblicato su quinlan.it il 17/07/2121