venerdì 1 dicembre 2023

Corinne Bailey Rae - Black Rainbows

 

"Black Rainbows is a truly astonishing record, a revelation": Corinne Bailey Rae comes of age on one of 2023's most remarkable, must-hear albums.

While visiting Chicago’s Stony Island Arts Bank during her 2016 US tour, Corinne Bailey Rae experienced a Damascene-like awakening. “I knew when I walked through those doors that my life had changed forever,” she says.

Curated by artist and activist Theaster Gates, the Stony Island Arts Bank preserves African American heritage through black art; books and periodicals, vinyl records, sculptures, ceramics, glass slides, masks and music scores are all on display. As is a collection of what is termed ‘negrobilia’ - 19th and 20th century objects depicting stereotypical/racist images of black and indigenous people.

The archive’s impact on Bailey Rae was immediate, prompting her to readdress her own relationship with her creative output and explore “what the possibilities of my work can be…”

The result: Black Rainbows, her fourth album and a truly astonishing record, with each of its 10 tracks inspired by the artefacts she’d seen there.

Co-produced by Bailey Rae with her longtime collaborator Steve Brown, it’s a real sonic surprise. Flitting from searing punk noise to astral gliding electronica to afro futurist R&B, it’s hard to believe that this is the same artist who created 2016’s The Heart Speaks In Whispers, its sweet soulful nature and mellow vibe recalling Erykah Badu.

Take New York Transit Queen, a tribute to the first of the African American Miss New York Transits, Audrey Smaltz, which sees Bailey Rae go all ebullient girl group/ scuzzy grunge pop, as cheerleader clapping and drumstick clicks count in abrasive guitars and the black glamour pin up is reclaimed and celebrated as sex positive feminist.

Aesthetically it’s how you imagine Bailey Rae’s first band Helen, the mostly female rock group she formed when she was just 15 and inthrall to L7, might have sounded if they’d graduated from the Leeds indie circuit.

Then Erasure, a gut reaction to the negrobilia she saw and its literal erasure of black childhood: over the song’s punk metal thud Bailey Rae seethes and screams: “They put out lit cigarettes/Down your sweet throat/They fed you to the alligators”?” Her anger, rage and horror palpable. It’s like Bailey Rae has been reborn a Dahomey Amazon.

Earthlings brings about yet another left turn: a voluptuary of sonic tributaries, it’s defined by hauntological bleeps and electronic textures, while A Spell, A Prayer, with its mix of ghostly synths and symphonic soul links past, present and future through notions of ancestral pain and epigenetic trans-generational inheritance. Were there moments in slaves’ lives when they experienced a sense of freedom? Bailey Rae wonders. “Finger tip to finger tip, eye to eye, lay your hip against my hip” she sings demurely, suggesting perhaps in desire communion with the divine is found. On Black Rainbows, Bailey Rae comes of age. It really is a revelation.

Pubblicato su loudersound.com, By Alice Clark published September 04, 2023

Forse non dovremmo stupirci, dacché tanti anni fa, prima di debuttare sulle scene, un'ancora adolescente Corinne Bailey Rae militava in gruppi rock e amava far casino con la chitarra elettrica e il mascara sbavato sullle guance. Anche se poi il mondo ha imparato a conoscerla come raffinata interprete soul-jazz, con hit del calibro di "Like A Star" e "Put Your Record On", quell'attitudine da punkette evidentemente non è mai scemata del tutto.

A questo si può aggiungere il lusso dell'indipendenza artistica, visto che Corinne oggi si trova in una posizione invidiabile, non troppo dissimile da quella della collega Tanita Tikaram: un milionario album di debutto alle spalle e un pubblico non troppo numeroso ma fedele, ottime basi per poter campare al riparo dalle pressioni discografiche mentre si escogita, con calma, la prossima mossa.

Lungo una carriera centellinata di uscite, Corinne si è ritagliata il ruolo di cantautrice libera di sperimentare, grazie anche allo studio di registrazione che si è costruita in casa con l'aiuto del marito, il produttore e collaboratore Steve Brown. I suoi lavori sono sempre eseguiti egregiamente, ma anche con questi pacati presupposti casalinghi alle spalle, "Black Rainbows" spiazza l'ascoltatore più ferrato, dimostrando la penna di un'autrice viva e vegeta, a momenti fremente come un cavo elettrico, ondivaga e nevrotica come non si era mai vista prima d'ora.

La figura di Audrey Smaltz, celebre commentatrice di moda afroamericana attiva sin dai tempi della segregazione razziale, dona ispirazione per il roboante singolo di lancio "New York Transit Queen", un power-pop da bordo campo col quale l'autrice fa il tifo alla titubante immagine di se stessa da giovane - da madre di due figlie, oggi, Corinne è ben conscia delle insidie che le sue piccole incontreranno lungo il cammino. Sin dal titolo, infatti, "Black Rainbows" non fa segreto di quesiti identitari, sogni infranti e paure da esorcizzare - un brano su tutti è il sinistro andazzo di "He Will Follow You With His Eyes", elegante lounge falsamente rassicurante che poi dirotta in una sorda filastrocca dadaista ideata per scrollarsi di dosso ogni sguardo non voluto.

Ma Corinne non pecca di retorica; dalla sciancata apertura elettronica di "A Spell, A Prayer" all'intermezzo stile Thundercat della title track, passando per l'urlo di "Erasure", che pare un incrocio tra PJ Harvey e Patti Smith, o anche il curioso esperimento sintetico "Earthlings", a metà strada tra Laurie Anderson e Roy Ayers, "Black Rainbows" ondeggia e calpesta senza mèta ma abbonda di fantasia. L'ascolto ha comunque un centro tavola; è "Put It Down", quasi nove minuti di lucenti riverberi progressivi, accenti digitali e ritmiche in espansione - il suo andamento ipnotico e spiritato ricorda "Sister" di Tracey Thorn, brano altrettanto lungo e coinvolgente sul quale la stessa Corinne appariva come ospite ormai un lustro addietro. 

Lungo l'ascolto figurano almeno due momenti che, pur in antitesi, illuminano il percorso come lucciole. "Red Horse" è un cielo stellato sulla malinconica brughiera dell'ultima Beth Orton, una dedica d'amore al proprio marito arrivato in salvo all'ultimo minuto. "Peach Velvet Sky", invece, viene tessuta col solo pianoforte acustico senza alcun abbellimento, vagando nell'etere con fare inquisitorio, tra scarti armonici jazz e pronti rientri in tema come la prima Tori Amos. Sono i momenti più calmi e melodici, quelli che tematicamente si legano al passato e contribuiscono a rendere "Black Rainbows" meglio digeribile all'ascolto.

Invece Corinne chiude la propria storia con le stesse premesse con le quali l'aveva iniziata: "Before The Throne Of The Invisible God" è una serpeggiante fantasia free jazz, lungo la quale striature di sax e gorghi elettronici disegnano paesaggi cinematografici da exotica cannibale. 

Ex-stella del soul-jazz all'inglese, poi curiosa esploratrice psichedelica con "The Heart Speaks In Whispers", Corinne Bailey Rae è sempre stata un'autrice da seguire, degna antesignana dei percorsi a zig-zag di Lianne La Havas, Laura Mvula e Anaiis. Ma con "Black Rainbows" si ha l'impressione di essere piombati su tutt'altro pianeta; un lavoro catartico ma accartocciato, emozionante ma spigoloso, capace di respingere l'avventore casuale e allo stesso tempo svelare qualcosa di nuovo con ogni ascolto.

Pubblicato su ondarock.it, di Damiano Pandolfini


Un anno difficile di Olivier Nakache, Eric Toledano (2023)

 

È una cosa di cui ho bisogno? È una cosa di cui ho bisogno adesso? Due domande bastano a Toledano e Nakache per strutturare un film alle loro abituali regole di base, l’impegno politico ed un tono da commedia, si tratti di fare luce sui problemi legati all’handicap come avviene in Quasi amici, di questioni inerenti i permessi di soggiorno in Samba, o dell’affresco corale di C’est la vie, che da una festa di matrimonio riesce a mettere in tavola un’allegra lotta di classe. Il tema stavolta è il sovraconsumo ed il Black Friday, con la sua spinta all’acquisto sfrenato e compulsivo, l’obiettivo numero uno di un gruppo di manifestanti del quale fa parte Valentine, una sempre più eclettica Noémie Merlant, che dopo le collaborazioni con Audiard, Garrell, Sciamma e Field, interpreta stavolta il ruolo di un’attivista ecologica. Il sistema capitalistico, che fa della mercificazione l’unica rappresentazione del mondo e trova la complicità delle banche, non fa che accelerare la rincorsa verso il disastro ambientale.

Alle loro battaglie fatte di azioni dimostrative, proteste di piazza, blitz nei convegni o nelle sfilate di moda, fino ai picchetti all’ingresso dei centri commerciali, si intrecciano le storie di Albert e Bruno, entrambi rovinati dai debiti, e che cercano di risollevarsi dalla catastrofe finanziaria con l’aiuto di Henri, volte e voce di Mathieu Amalric. Albert è un addetto all’aeroporto, ma ormai non ha più neanche una casa dove vivere. Bruno è depresso dopo la separazione dalla moglie ed anche lui è finito sul lastrico. L’inerzia iniziale si muove da un incontro fortuito, poi una trama sentimentale, con Valentine trasformata in un pudico oggetto del desiderio, si sviluppa di pari passo con la storia principale. Usando epiteti come Cactus, Pulcino, Lexotan, praticando sessione di abbracci, rinunciando ai regali di Natale o parlando di una patologia contemporanea, l’eco-ansia, vengono affrontati discorsi importanti, che non rischiano mai di diventare noiosi in virtù di un montaggio pieno di ritmo. I due registi francesi anche stavolta non rinunciano al sorriso, a quel fondo di ironia che si rifiuta di finire nella tragedia per non alzare bandiera bianca. Il risultato è ottimo, fa suonare un campanello d’allarme ma resta aggrappato ad una speranza d’amore, alla voglia di guardarsi negli occhi e ballare un valzer prima di scambiarsi un tenero bacio.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 25 Novembre 2023 di Antonio D'Onofrio 

Di questi tempi, la miglior commedia all’italiana la girano i francesi. Presentato Fuori Concorso alla 41ma edizione del Torino Film Festival, Un anno difficile, regia di Olivier Nakache e Éric Toledano, quelli di Quasi Amici – Intouchables, arriva nelle sale italiane il 30 novembre 2023 per I Wonder Pictures. Commedia degli equivoci e degli estremi – con un occhio strizzato alla contemporaneità, i suoi (apocalittici) problemi e una buona dose di satira sociale – giocata su un’ironica consonanza cromatica, quella che serve al film per legare il destino dei protagonisti. Il colore è il verde e la cosa merita una spiegazione.

Verde, perché al verde sono, finanziariamente prosciugati, Pio Marmaï e Jonathan Cohen, iperconsumisti e spendaccioni. Verde, ma sarebbe meglio dire green, come sottolineato dall’azzeccato lancio promozionale, è Noemie Merlant, paladina dell’ambientalismo intransigente. Il film mette a confronto due opposte filosofie, polarizzate ulteriormente dai dibattiti pandemici: consumismo e minimalismo ambientalista. L’idea è di farli scontrare per vedere cosa succede dopo. Cosa succede dopo, è un problema che Un anno difficile affronta mescolando risate e un retrogusto amarognolo che ricorda il modo con cui, dalle nostre parti, si usavano girare le commedie migliori. Noi abbiamo scordato la ricetta, i francesi hanno riempito il vuoto.

Comincia, Un anno difficile, con uno scoppiettante accenno di satira politica, un sottofondo malizioso per una scabrosa verità esistenziale. Una carrellata di messaggi istituzionali a ritroso nel tempo, da Hollande a Pompidou: i Presidenti della Repubblica Francese a reti unificate ricordano ai compatrioti quanto difficile è stato l’anno appena trascorso, o quello che verrà. A quanto pare, suggeriscono Olivier Nakache e Éric Toledano, ci sono sempre e solo anni difficili, perchè una vita costruita sull’accumulazione, sul consumo sfrenato, sul principio del più è meglio, porta solo insoddisfazione. Raccontatelo ad Albert (Pio Marmaï) e Bruno (Jonathan Cohen).

Il primo prende d’assalto i grandi magazzini per il Black Friday con ferocia animalesca, l’altro è sull’orlo del suicidio, sommerso dai debiti e con l’ufficiale giudiziario che gli ha svuotato casa, alla faccia del minimalismo. Quello di Valentine (Noemie Merlant) per esempio. Guida un gruppo ambientalista, soffre di ecoansia – è una cosa seria, la fa sentire contemporaneamente vittima e colpevole per l’emergenza climatica – e a casa non ha molto perché sente di poter vivere così, con il minimo indispensabile. Non si possono immaginare due filosofie più agli antipodi. D’altronde, spiegano i registi, è una delle contraddizioni del nostro tempo.

Si incontrano perché Albert e Bruno – frequentano un gruppo di sostegno per persone oppresse dal sovraindebitamento guidato dal signor Tomasi (Mathieu Amalric) – capitano un giorno, non troppo casualmente, a un meeting dell’associazione di Valentine. Ci finiscono sedotti dalla promessa di cibo e birra gratis. Vogliono solo scroccare, niente di ideologico, ma una cosa tira l’altra. E poi sono entrambi invaghiti della bella Valentine. Il gioco è fatto: i due ambientalisti più improbabili e meno credibili al mondo scelgono finalmente da che parte stare. Alla loro maniera, tra un sotterfugio e l’altro, senza scordare il consumismo e l’impellente bisogno di risolvere la situazione debitoria.

A parlare di commedia all’italiana, con riferimento all’impasto tematico e alle psicologie di Un anno difficile, sono proprio Olivier Nakache e Éric Toledano. Un film francese, dall’anima e il cuore molto italiano. Resta da vedere come e perché. La commedia all’italiana nasce come evoluzione pragmatica del neorealismo. Mantiene una spiccata propensione per l’analisi sociale e un fondo realista ma cambia tono, puntando tutto sull’umorismo. Per due ragioni: è il modo migliore per sfuggire alla censura e poi una scomoda verità, detta ridendo, piace al pubblico più di una scomoda verità, punto. La satira sociale, l’attenzione per la contemporaneità, sono elementi centrali, ma non è su questo versante che si misura “l’italianità” del film.

È altrove, nell’equilibrio instabile di vizi e virtù dei protagonisti maschili. Pio Marmaï e Jonathan Cohen danno vita a due antieroi che non avrebbero sfigurato in un cinico affresco di Dino Risi, il padre nobile tirato in ballo dai registi in conferenza stampa. Albert e Bruno sono personaggi di una simpatica antipatia. Forti, paradossalmente, del calore umano nascosto nelle debolezze, nelle fragilità, nelle piccole meschinità e nel cinismo. Noemie Merlant bilancia l’esterofilia dei partner con una recitazione nervosa e una dolcezza intelligente. Lei, francese negli accenti e nel modo di porsi, è sopra le righe ma con misura. Non minimalista, come la sua Valentine, comunque molto controllata.

Di francese, Un anno difficile ha lo slancio vitale e ottimista del finale, oltre al rifiuto ad approfondire la simpatica cialtroneria di Bruno e Albert; un regista italiano li avrebbe degradati senza ritegno. Commedia ambientalista, la seconda in pochi anni dopo Don’t Look Up, chissà se basterà per aprire un filone. Consumismo e apocalisse ambientale sono qui per restare. Un anno difficile è una commedia degli estremi perché estreme e polarizzate sono le tendenze e i bisogni dei protagonisti. Il mantra del film è la domanda che tutti devono porsi prima di scegliere: ho bisogno della cosa che mi sta di fronte? I consumisti rispondono affermativamente, gli ambientalisti negano. Il limite del film è la difficoltà a liberarsi dell’estremismo delle premesse. Leggermente sopra le righe, con il rischio di apparire caricaturali, i personaggi cedono a volte sul piano del realismo. Eppure, oltre l’imperfezione, Un anno difficile è davvero la più solida e intelligente commedia (francese) all’italiana dell’anno.

Pubblicato su cinematographe.it, da Francesco Costantini, 28 Novembre 2023 

Parte benissimo Un anno difficile, mettendo subito le carte in tavola (e, a conti fatti, giocandosi le migliori): un serrato montaggio di brani dei discorsi di fine anno dei vari presidenti della Repubblica francesi degli ultimi decenni evidenzia che in tutti è contenuto il passaggio che quello passato è stato un anno difficile, o lo sarà quello a venire; immediatamente dopo, l’assalto degli avventori ad un negozio durante il Black Friday è presentato in slow-motion e, soprattutto, accompagnato dalle note de La valse à mille temps di George Brassens, che conferiscono al tutto un passo armonioso e coreograficamente elaborato. Che la coppia di cineasti transalpini formata da Olivier Nakache e Eric Toledano, di grande successo in patria e con un paio di buone performance al botteghino anche da noi, soprattutto con Quasi amici, voglia finalmente affondare il colpo senza trincerarsi dietro un ecumenismo di fondo volto a offendere il meno possibile e ad accontentare tutto e tutti? A nostro avviso no, o non fino in fondo, e se questa scelta continua e inscriverli all’interno di un circuito di cineasti popolari per temi e linguaggio (circuito al quale si è appena iscritta anche Paola Cortellesi con C’è ancora domani, attendendo di vedere se e come varcherà le Alpi), li esclude però dai favori di tanta critica e del pubblico più cinefilo, che stigmatizzano spesso senz’appello i tentativi di smussare le asperità e comporre i contrasti che spesso caratterizzano i finali scritti dalla coppia. A chi scrive piaceva molto C’est la vie – Prendila come viene, un loro film del 2017 che ha già avuto in Italia sia un remake ufficiale (Il giorno più bello, diretto da Andrea Zalone, autore e sodale di Maurizio Crozza) che uno ufficioso (Il grande giorno di Massimo Venier, con Aldo, Giovanni e Giacomo), e che si ispirava a grandi maestri come Blake Edwards nella composizione della costruzione a cascata di gag. Schema ripreso anche in quest’ultimo film, non a caso, nei segmenti più riusciti.

I due protagonisti, Albert (Pio Marmaï) e Bruno (Jonathan Coen), si arrabattano per sbarcare il lunario e sono entrambi entrati in una spirale debitoria fatta di prestiti e crediti al consumo da cui è difficilissimo uscire, tanto che il primo salva il secondo dal suicidio involontariamente, mentre sta cercando di approfittarsi di lui rifilandogli l’ennesimo oggetto inutile, una Tv ad alta definizione conquistata a botte durante il Black Friday e poi reimmessa sul mercato a trecento euro. Tramite Bruno, Albert fa la conoscenza di Henri Tomasi (Mathieu Amalric), un consulente che dispensa consigli per mantenere il bilancio personale e familiare sostenibile, e di Valentine (Noémie Merlant), una ragazza altoborghese completamente consegnatasi alla causa ambientalista e alla lotta al sovraconsumo. Bastano questi cenni per avere un’idea delle dinamiche pronte a scatenarsi tra questi quattro poli principali, ma l’aggiunta di un paio di esempi può rendere il quadro ancora più chiaro: Albert e Bruno si offrono volontari per il ritiro di oggetti e mobilia dalle case dei ricchi “conquistati” da questo nuovo richiamo all’essenzialità e al francescanesimo, e ne approfittano però per rivenderli e uscire dai debiti personali; il consulente Tomasi, prodigo di richiami alla sobrietà, si rivela ben presto essere un giocatore d’azzardo compulsivo. Tutto narrativamente organizzato, dunque, secondo un rodato schema a svelamento in cui ogni personaggio rivela di avere caratteristiche comuni con il suo opposto, e che si trova a fare quel che fa solo perché il Caso lo ha portato in una direzione piuttosto che nell’altra. Questo approccio deterministico è anche condivisibile, e si comprende bene come arrivi ad essere un contenitore perfetto per l’alternarsi di momenti divertenti e intimisti, ma i Nostri somministrano meriti e colpe con un bilancino che ottiene sì l’effetto di scacciare il manicheismo, ma che appare più come una sorta di manuale Cencelli della responsabilità che colpisce e blandisce allo stesso modo ogni categoria. Il grande successo di pubblico si ottiene anche in questo modo e non c’è nulla di male, ma quando il meccanismo appare così scoperto segnalarlo in sede d’analisi diventa obbligatorio.

Purtroppo alla scoppiettante prima parte non segue un andamento altrettanto brillante nella seconda (c’è un evento specifico che segna la frattura tra le due): a temi abilmente lanciati non corrispondono approdi altrettanto validi e le potenzialità di qualche personaggio vengono completamente sprecate. Ci riferiamo principalmente al Tomasi di Amalric, ridotto presto a macchietta stancamente slapstick mentre sembrava incarnare una delle contraddizioni più interessanti, ma anche a Valentine/Cactus, che non acquista mai una soggettività propria che vada oltre il monologhetto che riassume il suo passato, e rimane una funzione narrativa da attivare nei percorsi degli altri. A cosa servono, poi, due brani straordinari come Little Wing di Jimi Hendrix e The End dei Doors in quel contesto, appiccicati su scene che non sembrano richiederne la presenza? A collegare idealmente i movimenti di protesta attuali con quelli sessantottini? Se era questa l’intenzione, l’obiettivo non è stato centrato. Nakache e Toledano continuano, dunque, il loro percorso in modo tutto sommato coerente, e rimangono capaci di orchestrare e scrivere commedie collettive formalmente “esatte”, con più di un momento brillante; parimenti non sembrano avere, però, lo spessore culturale per infondere ai loro copioni approdi tematici dello stesso livello delle premesse. Per lasciare il paragone con gli anni Sessanta da loro stessi evocato, avrebbero bisogno di uno come Terry Southern a rileggere e innervare il copione. Certo, alla stregua del trovare epigoni contemporanei a Hendrix e Morrison, è tutto tranne che facile.

Pubblicato su quinlan.it, 27/11/2023 di Donato D'Elia

giovedì 21 settembre 2023

IL GRANDE CARRO di Philippe Garrel (2023)

Chissà perché, nel vedere l’ultimo film di Philippe Garrel viene in mente il Carro dei tarocchi, l’arcano maggiore numero 7. Sarà per l’assonanza del titolo o per una semplice suggestione dovuta a certi risvolti onirici e profetici della storia. Ma quella carta che simboleggia un’avanzata e una conquista, esprime anche un’idea di conflitto, per i due cavalli che procedono in direzioni divergenti. E sembra stabilire, per questo, una strana consonanza con le vicende raccontate da Garrel. Che parlano di declino e di fine, ma anche della necessità di andare avanti e intraprendere nuove strade. In un incessante tensione tra l’ostinazione a trattenere il passato e la voglia di cambiare, in cerca di un futuro.

Insomma, Garrel parla di eredità. Ideale e spirituale, ovviamente. E usa la parabola di una famiglia di maestri di marionette. Il padre, animato da una passione infaticabile, cede il passo. Rimangono i tre figli a mandar avanti l’attività: Louis, Martha, Lena. Con l’aiuto di Peter, un aspirante pittore che ha lasciato da parte per un momento le velleità, e il supporto della vecchia nonna, con le sue storie e i suoi ricordi. Ma a poco a poco, il vecchio mondo si sfalda. Immancabilmente. Cosa resta di una tradizione, allora? Dell’arte di una vita? È tutto nella discussione tra Martha e Lena sull’opportunità di trovare nuove storie, per svecchiare il solito repertorio dei Pulcinella. Martha vuole conservare i vecchi testi, la misura classica. Lena è convinta che bisogna cambiare, per stare al passo con i tempi e il pubblico. Ed è questo costante cambiamento è l’unico modo per preservare la tradizione. Probabilmente ha ragione lei. Ma è Martha ad avere le visioni premonitrici, è lei che vede il futuro. Ossessionata dalla volontà di custodire il cuore profondo di un’ispirazione.

È evidente che Garrel si sta chiedendo cosa rimarrà del suo modo di far cinema. Cinema come “affare di famiglia”, un modo per svelare la verità più intima, per provare a creare relazioni e comunioni. Non a caso, chiama in gioco i tre figli, Louis, Esther e Lena, quasi come un vecchio Re Lear che vuol decidere a chi affidare il suo regno. Ma non ha certo la paura della fine e l’ansia di stabilire chi sia più degno. No, Garrel non deve difendere nessuna posizione. Per questo non c’è nessuna cupezza nel suo sguardo. Semmai una malinconia tenera, dolorosa, ma non rassegnata. Che, in fondo, è la stessa con cui da sempre racconta la vita per immagini, nel ciclo continuo degli amori che finiscono e che iniziano, delle cose perdute, delle ambizioni che vanno a morire e dei nuovi entusiasmi, dei battiti non rinnovati.

Sì, certo, viene in mente la suggestione de La carrozza d’oro di Renoir: l’antico spettacolo al tramonto, ma anche quella capacità di fare di ogni immagine un sistema aperto di entrate e di uscite. E sebbene non si tratti certo di un commiato, è chiaro che ci troviamo di fronte a un cinema che si scopre ogni volta un po’ più vecchio. Si avvertiva già ne Il sale delle lacrime la sensazione di un passo indietro rispetto alla velocità del mondo. Di un’immagine che si dichiara sorpassata. Senile. Ma che proprio per questo, nel ciclo continuo delle cose, può riscoprirsi infantile, libera di giocare e di smontare le forme. Non c’è praticamente una scena di raccordo. Si procede per quadri, quasi assistessimo alla replica di uno schema narrativo da spettacolo di burattini. E chi sono i primi spettatori di questi teatrini, se non i bambini? Garrel sembra sempre più semplice. Addirittura ingenuo. Ma in questa semplicità c’è un’eleganza infinita, come appare dal pudore con cui vengono risolti tutti i momenti forti. Per cui, al di là di tutto, al di là anche delle sgangheratezze, domina un senso di delicata ironia. E una dolcezza infinita nel guardare i personaggi, i “figli”, seguire ognuno la propria strada. Liberi anche di tradire.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 14 Settembre 2023 di Aldo Spiniello

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L’arte dei burattinai, e dei marionettisti, rappresenta ancora oggi una forma diffusa di bottega artigianale appannaggio di famiglie di artisti, premiate ditte che si trasmettono il sapere da una generazione a un’altra. Ed è una famiglia di burattinai che sceglie Philippe Garrel per raccontare della propria dinastia di cineasti, che parte dal padre attore Maurice, passando per il fratello produttore Thierry, per arrivare ai figli attori Louis, Esther e Léna. Figli che sono riuniti appunto in Le grand chariot (Il grande carro), presentato in concorso alla Berlinale 2023. Trasporre sé e la propria famiglia in una forma di rappresentazione diversa dal cinema come il teatro di figura, tendenzialmente indirizzata a un pubblico di bambini, permette al cineasta quel distacco che non aveva quando metteva in scena il cinema come arte viscerale e totale. Forse alla sua età, Garrel non ha più la macchina da presa al posto del cuore, come in quella famosa battuta di L’enfant secret. E i burattini evitano di spingere a un ulteriore livello quel complicato gioco di rispondenze tra personaggi reali e loro alter ego sullo schermo, che possono o meno combaciare, secondo riflessioni portate avanti in diversi film del cineasta, come Les baisers de secours o Innocenza selvaggia. In questo caso combaciano Louis e Léna, mentre Esther diventa Martha e lo stesso Garrel si fa interpretare da un attore.

Rimane che ogni volta che nel film si mostrano le rappresentazioni di burattini della compagnia, queste sono quasi sempre viste da dietro la barriera scenografica che occulta al pubblico gli animatori dei pupazzi. Così anche quando la compagnia si presta a un lavoro televisivo: le telecamere stanno sempre di dietro. Viene sempre mostrato il trucco, il retroscena come da sempre Garrel ha fatto nel suo cinema, con i suoi personaggi che appartengono alla sua vita. E il gioco di scatole cinesi della rappresentazione, tra vita, cinema e marionette, è comunque suggerito dalle battute, verso la fine, della celebre scena del metateatro dell’Amleto.

Dopo quasi sessant’anni di carriera, tornano compatti i temi cari al regista francese: l’archetipo del nucleo famigliare, che qui è cristallizzato nella bellissima scena in cui tutti assistono la nonna a letto; ci sono poi i temi della morte, della maternità e della separazione, rivisti in tono molto leggero. Si può avere un figlio da chi non si ama, mentre si ama un qualcun altro che farà da padre. Si va al cimitero sbagliato, o ci si dimentica il nome prescelto per il proprio figlio mentre lo si va a registrare all’anagrafe. E, per rispetto all’ateismo del padre, gli si svita via il crocifisso dalla bara prima di seppellirlo. Garrel si toglie quasi subito di scena, per poi ricomparire alla fine, sempre tramite alter ego. Rimane la nonna a rappresentare la dinastia, che affonda le sue radici, come spiega, agli inizi del Novecento. Il grande carro è in definitiva un grande film sulla trasmissione dell’arte e della vita. La nonna passionaria, che inveisce contro la guerra e il popolo fascista, fatica a comprendere il modo di manifestare delle FEMEN cui ha aderito la nipote. Come i vari membri della famiglia Garrel hanno svolto ruoli diversi nel cinema, così può succedere che la vena artistica si manifesti in via diversa da quella famigliare del teatro di burattini, nel teatro vero e proprio, cui si indirizza Louis, o nella pittura. Si può rinnovare la propria arte per rimanere vivi: lo dice una figlia discutendo con l’altra che invece vorrebbe portare avanti la compagnia con il suo repertorio classico. Rinnovarsi per rimanere vivi è in fondo ciò che sta facendo Philippe Garrel, nonché la miglior risposta a chi lo accusa di non essere più quello di una volta.

Pubblicato su quinlan.it 26/02/2023 di Giampiero Raganelli


Jaimie Branch - Fly Or Die Fly Or Die Fly Or Die ((world war))

 

Jaimie Branch’s untimely and tragic death last year robbed jazz of one of its most singular – and promising – talents. It’s therefore difficult not to approach this posthumous album – recorded four months before her passing and completed by her long-standing Fly or Die band and her sister Kate – with a sense of sadness and trepidation, and also regret for what more might have come.

But that's not quite the case here, because this album is a superb addition to a small but brilliant legacy: as a final statement, they don't come much better than this. It's a glorious listen, rather than the melancholy one I expected. Branch was fond of saying that playing the trumpet was akin to "singing your soul" and that is certainly the case here, as ((world war)) contains some of her best-ever playing: fierce, free, expressive and uniquely Branchian. The writing is her best-ever too.

((world war)) is as electrifying as the group’s first three [two studio, one live] LPs, but comes with a wider sonic palette and heightened ambition. The Taylor-St Louis-Ajemian FoD core unit is there, locked in tighter than ever, but synths, exotic percussion, guest horn players and extra vocalists add real richness to the mix. There's also a much heavier feel than on previous outings and Branch's singing – at times weirdly reminiscent of Patty Waters' – takes the spotlight almost as much as her trumpet.

The nine-minute centerpiece ‘baba louie’ starts out as an eclectic stew of Caribbean carnival rhythm and South African-inflected horns, introduces marimba and flute, morphs into an anthemic trumpet solo section, and finally jumps into a dubby groove. Another nine-minute epic, ‘burning grey’, is an impassioned call for vigilance atop a frantic, steamhammering rhythm; and on ‘the mountain’, Branch and Ajemian create a wonderful two-voices-and-bass take on the Meat Puppets’ country-punk classic ‘Comin’ Down’.

On the closer, ‘world war ((reprise))’, she jangles a 1970s Fisher-Price musical toy (the Happy Apple mentioned in the credits) and entreats in an even, intimate tone: "Publicise, televise, capitalise on revolution’s eyes/What the world could be/If only you could see/Their wings are false flags/On our wings, they all rise". It's a message of hope as much as a warning from an artist (and a band) at the top of her game. A remarkable testament.

Pubblicato su www.jazzwise.com

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When an artist dies young, it often feels as though their passing is especially hard to bear. “So full of life,” is a phrase we reach for. However rote, that sentiment is pretty much unavoidable when you hear the surging, posthumous album by trumpetist, band leader and arch-collaborator Jaimie Branch, who died this time last year aged 39. Branch had very nearly finished this third outing under her own name with her Fly Or Die quartet: percussionist Chad Taylor, acoustic bassist Jason Ajemian and cellist-flautist-keyboard player Lester St Louis. Two groundbreaking, energetic studio albums precede it: 2017’s Fly Or Die and 2019’s Fly Or Die II – Bird Dogs of Paradise.


As the band name suggests, there was a breakneck, YOLO verve to everything Branch did that goes double here. Wolf-like howls punctuate these tracks, vying for primacy with scything, bowed strings. Rhythms drive, tumble and sashay. In the liner notes, her band speak of “longer forms, more modulations and more noise”.

Branch had a deep belief that music changes the world on a cellular level and her vivid protest rave-jazz invites you in Branch was first and foremost a jazz trumpeter, trained at the New England Conservatory and boasting the nickname “Breezy”. On this record, she is often in league with trombone, flute and clarinet. But her Bandcamp bio memorably identifies her as “a psychedelic warrior for peace, making music into the void”.

A punk disposition suffuses many of these nine tracks, immolating assumptions around the j-word. Fly Or Die III (for brevity) rocks, rolls and generally throws itself around. Branch plays her trumpet as though leading her band into battle – or, Pied Piper-like, to the afterparty in New Orleans. Often taking the instrument from her lips, she shouts and exhorts, whoops and sings.

A DIY operator at heart, she did all her own artwork. So it’s not really that much of a surprise to find that, in the middle of an ensemble album where marimbas trade off with mbiras (a Zimbabwean thumb piano), there’s an unexpected cover of a Meat Puppets song, The Mountain. The country-punk original (Comin’ Down, released 1994) is transmuted into rootsy Americana by Ajemian’s voice and bowed bass; Branch is on trumpet and backing vocals. Elsewhere, the menu is global: snaking, Ethiopian horn tones trade off with tracks that hint at Branch’s Colombian roots on her mother’s side. Branch is also credited as playing a Happy Apple, a Fisher-Price toy from the 1970s.

Regrettably, Branch was no household name. She was born in Long Island, raised in Chicago and was based in Brooklyn; in later life, she booked venues, worked in record shops, organised jams and cross-pollinated with all sorts of artists, from our own Alabaster DePlume, to TV on the Radio, Talib Kweli and Madlib. Operating in a niche space – where jazz meets everything – and recording for a small label (forward-thinking Chicago imprint International Anthem) she never attained the widescreen recognition of star players such as LA’s Kamasi Washington or London’s Shabaka Hutchings. But Branch shared a front-facing sound and a committed, progressive worldview with the two soloists.

You can hear this engagement on tracks such as Take Over the World, a workout full of urgent vigour, ululations and manipulated sound. Just as compelling is the nine-minute-plus tour de force Burning Grey: there are more yips and yowls, with Branch’s trumpet tearing at the air in a kind of jubilant defiance. “Everything feels broken, crippling or token, you wonder why the world slips away, burning grey,” Branch sings, “Believe me, the future lives inside us, don’t forget to fight, don’t forget the fight, don’t forget, don’t forget!”

It’s a terrible waste that Branch’s death is the prism through which we now view her vivid protest rave-jazz, played with a brio that sweeps you along and invites you in. Branch had, according to her old Bandcamp biography, “a deep belief that music changes the world on a cellular level”. That bio was self-penned. “Despite her shortcomings,” it goes on, “this puts Branch on the side of beauty.” No arguments there.

Pubblicato su www.theguardian.com , Kitty Empire, 19 Aug 2023


martedì 11 luglio 2023

Coma, di Bertrand Bonello (2022)

 Film netto, preciso come un gesto. Bonello riparte dalle parole del suo Yves Saint Laurent, se ne riappropria, spostandone il senso dalla foggia di un abito minimalista eppure superbo a un desiderio, finora irrealizzato, per il proprio cinema. L’immaginario di Bonello non è mai netto né tantomeno preciso. È fatto di traiettorie imprevedibili, di linguaggi, stimoli e suggestioni che sembrano quasi premere ai bordi dell’inquadratura pur di accedervi e conquistarsi uno spazio. Coma non fa eccezione: racchiuso in una toccante lettera alla figlia Anna, che apre e sigilla il film, come il frullatore pubblicizzato dalla misteriosa e mistica influencer Patricia Coma, crea “una zuppa calda con delle verdure crude”, in un magma visivo tanto cerebrale quanto emozionale. Le verdure, va da sé, sono le immagini, quelle che oggi affollano le nostre giornate rendendo impossibile ogni precisione, ogni nettezza. Sul coming of age sospeso, messo in pausa, di un’adolescente in lockdown (Louise Labèque, ritrovata dopo Zombi Child del 2019) si aprono come pop-up le videocall, le chat Zoom con dibattiti su serial killer, i video della youtuber interpretata da Julia Faure e  misteriose riprese senza autore di videocamere di sorveglianza, in un andirivieni tra sogno e veglia, in cui l’immagine, ognuna col proprio diverso formato, finisce per perdere qualsiasi aderenza al reale.

Diventa, anzi, così allucinatoria da farci smarrire insieme alla protagonista: è vero o immaginato l’uomo che assalta l’amica durante la call Zoom, tra Elle di Veroheven e un true crime di Netflix? Le Barbie conducono una vita propria che mescola la soap opera ai tweet più folli di Donald Trump? E la foresta in cui la ragazza finisce per perdersi è un cuore, rivelatore, che tra Dante, Lynch e Philippe Garrel immagazzina incubi di altri autori, mentre la voce di Deleuze ci invita a fare attenzione a non perderci nei sogni degli altri?

Per quanto racchiuso nella cameretta di una teen-ager, Coma non è un film sul lockdown. Al contrario, sembra la pandemia ad essersi appropriata dell’immaginario del cinema di Bonello, da sempre avvezzo agli universi chiusi, cantore – come scrivevamo a proposito di Nocturama – della fine di mondi e sistemi. Ed è allora naturale che in questo nuovo livre d’image, composto dall’autore più godardiano oggi, Bonello riparta proprio dal collasso, per ipertrofia, del Sistema-Immagine. Se Nocturama era un film racchiuso sull’attesa dell’evento, oggi tutto sembra essere accaduto e smaterializzato. Dopo aver sperato, da cineasta, nella Fine, nella Crisi, per tutta la sua filmografia, da Le pornographe a De la guerre a L’apollonide, oggi Bonello si interroga, da padre, sulle macerie rimaste in mano a una generazione che appare già segnata, priva di libero arbitrio, costretta a ripetere sequenze luminose da cui ogni ipotesi di errore è stata rimossa. Eppure, proprio nel suo tirare giù gli idoli, nello strenuo rifiuto del passato, anche cinematografico, quando non sia veicolato a rimettere in circolo idee, sta il lascito artistico e umano che l’autore fa alla propria figlia e a tutti i suoi coetanei. A loro Bonello consegna immagini furenti di distruzione, auspicando una rinascita, come nel brano di Andrea Lazlo De Simone scelto per accompagnare le solitarie danze della giovane protagonista. Da domani inizierà una nuova immensità.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 10 Luglio 2023 di Fabiana Proietti 

 Rappresentare e raccontare al cinema un presente legato alla pandemia è qualcosa di estremamente complesso. Probabilmente la banalità visiva del lockdown, che da un giorno all’altro ha azzerato ogni tipo di stimolo e variazione di scenario, ha reso questo momento storico paradossalmente irrappresentabile. Eppure è una situazione con cui il cinema sta facendo e dovrà fare i conti nel prossimo periodo. In questo senso Coma di Bertrand Bonello offre uno sguardo decisamente personale e intimo che rappresenta uno straordinario tentativo di catturare e al contempo distruggere e superare i limiti narrativi e visivi che il lockdown ha imposto. Il film è (letteralmente) una lettera piena d’amore, fiducia e speranza, che il regista francese ha voluto scrivere a sua figlia, diventata maggiorenne poco prima dell’esplosione della crisi sanitaria globale e quindi reclusa in casa nel momento in cui avrebbe dovuto iniziare a vivere la propria vita per la prima volta. Bonello mette in scena questo momento di pausa disintegrando la monotonia delle quattro mura sfruttando ogni singolo pretesto per creare dal nulla immagini, narrazioni e distorsioni visive. E così immerge la protagonista del film e lo spettatore in una sorta di flusso in continua evoluzione, fatto di videochiamate, inserti animati in stop-motion, tutorial di influencer, materiali di repertorio e incubi dal sapore lynchano.

Le immagini in cui la figlia del regista si ritrova immersa sono per lei spesso illeggibili, difficilmente interpretabili e potenzialmente pericolose; sono delle ossessioni, dei sogni che si fanno incubi. Sono il riflesso del trauma personale di un’adolescente e di un intera popolazione. Eppure al contempo quelle immagini rappresentano l’unica possibile via di fuga da un presente opprimente e privo di vita; il pretesto per liberarsi dalla monotonia e trovare rifugio in narrazioni sempre nuove e stimolanti. In questo Coma palesa l’assoluta dipendenza che abbiamo nei confronti dell’immagine (cinematografica e non), senza la quale sembra praticamente impossibile sopravvivere oggi. Ma a questo si deve aggiungere l’automatismo quasi inconsapevole e incontrollato con cui ogni stimolo visivo diventa una rielaborazione personale della realtà: una dipendenza nella quale è facile rimanere intrappolati ma di cui è anche impossibile fare a meno.

Così anche una lettera d’amore per un’adolescente appena maggiorenne diventa un racconto universale che si adatta facilmente all’esperienza che ogni individuo ha vissuto in quel momento storico. In tutto questo aleggia chiaramente una continua sensazione di imminente fine del mondo, che però è contrastata dalla speranza di un futuro in cui le nuove generazioni sapranno padroneggiare le immagini, e quindi la vita, con più fortuna.

Pubblicato su cineforum.it, 10 luglio 2023 di Francesco Ruzzier


venerdì 9 giugno 2023

Master Gardener, di Paul Schrader (2022)

Narvel Roth è il meticoloso orticoltore di Gracewood Gardens, una bellissima tenuta di proprietà della ricca vedova, la signora Haverhill. Quando ordina a Roth di assumere la tormentata pronipote Maya come sua apprendista, la sua vita viene gettata nel caos ed emergono oscuri segreti dal suo passato.

Uno dei piaceri più comuni nella fruizione del cinema, e dell’audiovisivo in generale (pensiamo alla serialità), è la riconoscibilità di un canovaccio noto, di uno schema narrativo, che lo spettatore ama ritrovare, sempre rinnovato, in ogni sua nuova visione. Questo tipo di appagamento si può facilmente rinvenire nel cinema di Paul Schrader, appassionato cinefilo, abile sceneggiatore, arguto autore di un cinema che non dimentica mai di omaggiare i propri maestri (Bergman, Bresson, Ford, Dreyer) e di offrire una sempre nuova declinazione dei temi che più gli stanno a cuore: colpa, espiazione, redenzione. In questa triade essenziale, Schrader identifica il motore di ogni sua sceneggiatura e della narrazione tout court: non principia nessuna storia senza una colpa del passato, non si sviluppa alcun racconto senza il desiderio di espiare e non c’è scopo altro che la redenzione.

Presentato fuori concorso a Venezia 79 (Settembre 2022), dove l’autore ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, Master Gardner rappresenta il terzo capitolo di un’ideale trilogia incentrata su personaggi virili solitari, tormentati e “in cerca” – searchers fordiani – che comprende i precedenti First Reformed e Il collezionista di carte. Ma se il protagonista del primo film bramava un suo calvario personale, il giocatore andava incontro a una redenzione nel sangue, il protagonista di Master Gardner desidera invece una vera e propria, terrena, rigenerazione.

Narvel Roth (Joel Edgerton) è il “maestro giardiniere” dei Gracewood Gardens, di proprietà della ricca possidente Signora Haverhill (Sigourney Weaver), che come ogni anno intende far partecipare il suo giardino a un prestigioso concorso. Sentendosi vicina al trapasso, la donna vuole riappacificarsi con la pronipote Maya (Quintessa Swindell), ragazza ventenne per metà afroamericana, rimasta sola dopo la morte della madre. La giovane viene dunque assunta come apprendista e affidata alle cure e agli insegnamenti di Narvel che, oltre ad occuparsi del giardino, offre saltuariamente le sue prestazioni sessuali a Lady Haverhill. Tra maestro e discepola sboccia però l’amore, e si genera così una pericolosa triangolazione di giochi di potere, che vede nel vertice decisionale l’algida proprietaria terriera. Ma a far tribolare davvero i due amanti sono le loro colpe pregresse. Lei deve liberarsi di un ex fidanzato spacciatore, e il suo corpo deve rigenerarsi dalla tossicodipendenza. Lui, invece, ha un passato di militanza in un gruppo di neonazisti, passato che porta ben inciso sulla pelle, sotto forma di indelebili tatuaggi, cicatrici perenni che non si rimarginano.

Accompagnato, come il precedente Il collezionista di carte, dalla voice over del protagonista, che ci riporta le parole vergate nel suo diario personale, Master Gardener innesta il suo racconto di sagaci e brillanti metafore legate al tema dell’orticultura. A partire dall’iniziale illustrazione delle tre tipologie di giardino: c’è quello che chiamiamo all’italiana, che impone alla natura le regole umane della geometria, poi quello che vuole apparire spontaneo, ma dove in realtà tutto è regolamentato, e infine c’è il “giardino selvaggio” dove in ogni caso è un’utopia pensare che non vi sia intervento umano. Inoltre, Narvel, come anche il protagonista di Il collezionista di carte è ossessionato dal controllo e pensa che organizzare e coltivare il giardino significhi credere nel futuro, e che le cose accadranno secondo le regole. Ma se ci si può illudere di dettare un indirizzo alla natura (certo, Werner Herzog non sarebbe d’accordo, ma siamo qui in tutt’altra poetica autoriale), ben altra questione è governare le intenzioni e le azioni degli esseri umani, le cui ragioni profonde possono essere talvolta imperscrutabili. Non ci sono rastrelli, pale o setacci che tengano, quando si tratta di estirpare “la malerba” da una persona. O forse sì, basta prendere in mano la situazione e innescare un cambiamento. E il cambiamento si innesca qui, come nei migliori noir e western del cinema classico, con un colpo di pistola. È da lì che prendono inizialmente vita i flash sul passato di Nervel, ed è sempre da lì che ha inizio poi il suo salvataggio di Maya, nuova reincarnazione di quei personaggi femminili tanto amati da Schrader in quanto discendenti dalla Debbie di Sentieri selvaggi (John Ford, 1956), pensiamo alla giovane prostituta interpretata da Jodie Foster in Taxi Driver di Martin Scorsese (di cui Schrader ha firmato lo script) o alla figlia perduta nel sottomondo degli snuff movies da George C. Scott in Hardcore (1979).

Proprio come avviene per i protagonisti dei tre film su citati – e come rivela esplicitamente la seconda parte di Master Gardener, quasi tutta on the road – quello di Nervel è un viaggio, salvifico, certo, ma anche prevalentemente orizzontale, come ben sottolineano le scelte stilistiche di Schrader, maestro di regia e non solo di scrittura. Prediligendo movimenti di macchina di avvicinamento e allontanamento ai luoghi e ai personaggi, l’autore rinuncia infatti alla verticalità (non a caso non vediamo mai il “disegno” complessivo del giardino) che trovavamo, coerentemente, in First Reformed, perché qui l’obiettivo non è la trascendenza, questa è una storia terrena, come ben dimostra la scena in cui il protagonista annusa il terriccio da coltura, provando per esso una sorta di venerazione olfattiva.

No, non è Dio che cerca Nervel, ma una redenzione molto terragna, attraverso l’amore reciproco, una rigenerazione fisica dunque: di Maya, prevalentemente, che deve disintossicarsi, ma anche del giardino violato e, in senso lato, dell’America stessa e delle sue origini, tutte da riscrivere.

Rude e sentimentale, proprio come il suo protagonista, ma anche denso di speranza, Master Gardener è dunque una fulgida, commuovente parabola di rifondazione, un western dunque, dove i due amanti protagonisti incarnano i pionieri di un nuovo mondo/giardino da far rifiorire, i semi di un rinnovato Eden americano: interraziale, popolare e non wasp, rigenerato e selvaggio.

Pubblicato su quinlan.it 05/09/2022 di Daria Pomponio

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Ci sono giardini “formali”, “informali” e “selvaggi”. I primi sottomettono la natura a uno schema fisso inseguendo una perfetta simmetria; i secondi ridiscutono tale prospettiva integrandola romanticamente con i processi naturali; i terzi tendono invece ad azzerare ogni alterazione artificiale liberando definitivamente lo sguardo. In quest’articolata riflessione teorica che il giardiniere Narvel Roth (Joel Edgerton) ci presenta a inizio film, però, una sola certezza appare incontrovertibile: “è impossibile schematizzare la natura”.

Ci risiamo allora. Il cinema di Paul Schrader, da quasi cinquant’anni, ragiona su questi stessi scarti di senso. Muovendosi con rara etica dello sguardo tra forme codificate e rotture improvvise, carceri immanenti ed evasioni trascendenti. Il grandissimo sceneggiatore/regista americano, infatti, ha codificato nel corso dei decenni un archivio di regole ossessivamente ripetute concependo il cinema come una sorta di rituale (del resto, “i soggetti sono solo dei pretesti“, dice il maestro Bresson) aperto a ogni piccola variazione su tema. Ed è proprio intorno a queste deviazioni dallo spartito che puntualmente noi spettatori ci interroghiamo trasformando lo stile cinematografico in una forma di vita. Le immagini in sentimenti.

E arriviamo a Master Gardener. Dopo i terribili traumi della guerra in Iraq che direttamente o indirettamente influenzavano i protagonisti di First Reformed e Il collezionista di carte, questa volta è il suprematismo bianco di estrema destra il fantasma latente con cui fare i conti. Anni prima, infatti, Narvel ha fatto parte di una violentissima organizzazione paramilitare neonazista. Sino a quando una crisi familiare e spirituale lo ha convinto a denunciare molti dei suoi compagni aderendo a un programma di protezione testimoni e divenendo infine un bravissimo orticoltore. E quale giardino è stato destinato a coltivare? Quello di Norma Haverhill (Sigourney Weaver), una ricca possidente reclusa nella sua enorme villa che da giovane si dilettava addirittura a fare l’attrice. Molti segni, sin dal nome proprio, ci porterebbero lontano… addirittura a pensare alla Norma Desmond di Viale del tramonto. Con il “giardino di Norma” che diventerebbe idealmente il giardino del cinema: uno spazio tutto potenziale dove i fiori (sin dai magnifici titoli di testa) appaiono come immagini eteree e senza sfondo capaci da sole di far balenare il desiderio di una catarsi.

Veniamo al punto. La floricoltura per Narvel, proprio come il cinema per Schrader, è un lento percorso di cura da abbracciare con lancinante sincerità e senza nessun compromesso. L’unico modo per sedare i propri demoni interiori e tentare di dare una forma al caos del nostro mondo. Quindi le regole autoimposte e la disciplina (“lo studio dello storia“) sono custodite nuovamente in un diario come interfaccia spirituale per il protagonista e come segno transtestuale per noi spettatori. Ma questo ancora non basta! I traumi del passato non possono essere cancellati solo dai rituali o dall’ascesi, proprio come gli osceni tatuaggi che Narvel decide volontariamente di lasciare sulla sua pelle perché ancora pressanti nel fuori campo della sua vita. Ci vuole pertanto il coraggio di accedere a una nuova dimensione carnale e spirituale attraverso l’incontro con l’altro da sé. Quindi attraverso un sublime momento rivelatore che apra crepe di vita nella superfice delle cose. Ed eccoci all’irruzione di Maya (Quintessa Swindell), la venticinquenne nipote di Norma: una ragazza che ha un rapporto difficile con la famiglia, un padre afroamericano assente e vari problemi di tossicodipendenza. L’incontro rivoluzionario e inatteso con con l’amore metterà definitivamente alla prova il nuovo sistema di valori di Narvel e la sua commovente fede nella rinascita.

Fermiamoci qui. Perché pur muovendosi con ostinata fiducia nelle riconoscibilissime costanti narrative ed estetiche del cinema di Schrader, Master Gardener riesce ancora a farci percepire istanze, sentimenti e desideri dei personaggi come fosse la prima volta. Lasciandoci sulle soglie di un finale ossessivamente ripetuto, eppure sempre bellissimo e travolgente per tensione etica e potenza emotiva. Un film posto oltre ogni attualità e per questo intimamente contemporaneo. Oltre ogni presa di posizione ideologica e per questo immensamente politico. Oltre oltre cinefilia compiaciuta e per questo cinefilo nel senso più puro e alto del termine. Insomma, il cinema continua a essere per Schrader quel fertile giardino capace di far germogliare semi ciclicamente uguali in frutti dotati di un’irriducibile singolarità. Quella della nostra di vita.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 4 Settembre 2022 di Pietro Masciullo


venerdì 19 maggio 2023

Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo


Tutto l’amore che c’è. E l’ombra di una sconfitta, che si allunga sull’uomo ma salva la persona. Quanta dolcezza c’è in Gli ultimi giorni dell’umanità! Quanta paura e quanto desiderio. Quanto bisogno di lasciarsi scavalcare dalla vita per sprofondare nel gioco essenziale (e forse anche esiziale: l’apocalisse che ci salverà…) del vedere. Il catalogo della magnifica ossessione ghezziana è un tuffo nel vuoto che si spinge nell’infinita tensione del visibile e la scopre accucciata ad un passo da sé, proprio lì dove sta la vita che si vive. L’arco (narrativo?) si tende tra l’intimità dell’homemovie e l’assolutezza del guardare/vedere troppo, ovvero più nulla: tra il gioco ossessivo del filmare e filmarsi di enrico ghezzi e la visione panica, infinita dell’uomo dagli occhi a X-Ray Milland cormaniano. Il frammento dicotomizzato, notomizzato, armonizzato del blob fuoriorario ormai ha lasciato il campo al senso dell’esistere accanto alle immagini filmate: i gradi di separazione tra l’aura decaduta della citazione detournata e l’Aura (Ghezzi) che si offre con – bellissima! – dolcezza statuaria (emmeriana: Con aura senz’aura…) ai confini del visibile, dai confini della vita col/del papà (anzi “babbo”) autore… Magnifica ossessione filmica: filmare la vita come non fosse un film (quando sappiamo bene che la vita è film, anzi vorrebbe essere film/cinema insieme a noi), ma fosse un perenne risveglio, un continuo filmare il primo sguardo sul giorno, la prima luce che ci assale. Naufraghi di un ritorno (il veleggiare dell’incipit, il precipitare della navicella verso la terra) che nutre la nostalgia di un andare mancato, di un perdersi nell’orizzonte a vista d’occhio…

Che è un po’ la stupenda presunzione di questo assoluto zibaldone del visibile ghezziano, l’altro versante di questi Ultimi giorni dell’umanità in cui riecheggiano le tante “immagini ossessione” della sua prassi critica… Un po’ una chiamata a raccolta di schegge (mai) viste incise ormai nell’archivio condiviso che si erge come un affronto dinnanzi alla vecchia, teorica “introvabilità del testo filmico”: anni e anni di citazioni, ascolti, backstage, il gioco infinito con il farsi della nostra passione e del nostro sapere cinematografico… Il diario di una compagnia che ha condiviso l’utopia dell’essere attraverso il cinema. Perché, come dice Jean-Marie Straub, non si può imparare a vedere un film, lo si può vedere e basta…E infine l’ombra: della magnifica sconfitta, del precipitare nella e della Storia, emergere inconscio di una purezza della resa impossibile alla presenza assoluta degli eventi, al destino che si compie prima che tutto sia compiuto. L’Etna che erutta in un gioco straubiano negato (Schwarze Sünde), la materia nera della storia, dei fascismi, delle guerre, degli orrori riassunti nel grido annichilito del frammento ronconiano del testo di Karl Kraus. Un’ombra incontenibile e dolce nella sua materialità magmatica, l’infinito epilogo di un prologo che sta lì come un atto di fede nell’eternità della caduta: Gli ultimi giorni dell’umanità di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo.

pubblicato su duels.it , diMassimo Causo  Maggio 19, 2023 

giovedì 13 aprile 2023

Fire! Orchestra - Echoes (2023)

 


The story of supersized jazz orchestras is not pretty. The scene was set by the bleaching deracination of Paul Whiteman and the elephantine bombast of Stan Kenton, bandleaders whose craving for approval by the music establishment fatally compromised their art. Good taste came later with leaders such as Carla Bley and London's Keith Tippett, who proved that, in the right hands, swing and nuance could co-exist with size and power.

Since around 2010, there have been some exciting developments in Scandinavia, too. One of these was Norwegian drummer Gard Nilssen's shortlived Supersonic Orchestra. With only sixteen members, the ensemble did not literally qualify as supersized, but within that sixteen were three double bassists and three drummers. Scaled up, the lineup would have numbered close to a hundred and, meanwhile, when required, the impact of the triple-strength bass and drums sections alone was akin to that of a lightning bolt. Supersonic, which was bankrolled by the Molde International Jazz Festival in 2019, only released one album, If You Listen Carefully the Music Is Yours (Odin, 2020), and it is a widescreen technicolour epic.

Another Scandinavian outfit of note is Fire! Orchestra, a mainly Swedish affair formed around 2000 by reeds player and baritone saxophone Jedi Mats Gustafsson, bassist Johan Berthling and drummer Andreas Werliin. Echoes, the orchestra's seventh album, has a 43-piece lineup (almost as many as Tippett's Centipede).

Fire! has a reputation for high-decibel, shamanic free-jazz designed to shave your ass. But it is in reality a nuanced affair that also counts melodicism, groove and subtlety among its charms. It is these last three qualities which define the 2CD / 3LP, 110-minute Echoes. Sure, there are a few moments of full on, turned up to eleven, Sun Ra Arkestra-esque space chords. But they are infrequent and mostly crop up on the second CD during the fifth and sixth of the seven "Echoes" around which the album is built. Each of the seven is anchored to a loping bass and drums groove, meaning that no matter how out things (occasionally) get, one always knows where one is, and that is among friends on a metaphorical dancefloor.

Check out opener "Echoes: I See Your Eye Part 1" on the YouTube clip below. The sense of space is immense, created by a string quartet (whose two violins and two cellos are recorded so as to sound more like a chamber orchestra), an irresistible, roomy groove, and Gustafsson's rough-hewn baritone saxophone. (The track resonates strongly with baritone saxophonist Alessandro Meroli's quasi-orchestral score for an imagined movie, Notturni, released in 2020 on Italian label Space Echo). Not everybody is on mic on this or most of the other tracks on the album. Sometimes, as in the second and fourth "Echoes," they sound like they might be. At other times, particularly in the interludes between the "Echoes," smaller breakout groups are featured: hand drums and African chordophones, a string quartet, electronica.

Echoes delivers an unbroken arc of adventure, wonder and fun.

Pubblicato su www.allaboutjazz.com  di Chris May , March 31, 2023

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Quella dei tre Fire! Mats Gustaffson (sax), Johan Berthling (basso) e Andreas Werliin (batteria), titolari della sigla e inequivocabili perni anche della formazione allargata denominata giustamente Orchestra, sembra sempre una sfida con se stessi, uno spostare l’asticella sempre oltre i propri limiti e insieme un superamento continuo di quegli stessi limiti alla ricerca perenne di una musica realisticamente senza confini.

 Nel caso specifico di questa esperienza e di questo disco, la durata e la line-up credo rappresentino un record per i pur fluviali scandinavi: quasi due ore di musica prodotta con un ensemble di ben 43 musicisti (più mr. Jim O’Rourke dietro la consolle a “supervisionare” tutto) con una ampiezza della tavolozza a disposizione che predispone sin da subito l’ascoltatore a un tale accumulo di input e suggestioni da cui è difficile staccarsi.

Architrave dell’intero lavoro è la title track, divisa (forse sarebbe meglio destrutturata) e rifratta in ben sette distinti movimenti dai 7 ai 15 minuti, mentre alle restanti tracce, tutte di durata sensibilmente inferiore, sembra lasciato quasi lo scomodo ruolo di intermezzi, anche se libertà, eterogeneità e afflato iper-sperimentale (dalle contaminazioni jazz-elettroniche ai dialoghi quasi astratti tra strumenti) li fanno valere più di semplici raccordi.

Un rigore geometrico o matematico questo della struttura dell’album che mal si addice al senso di libertà che pervade il lavoro, perché la sua spina dorsale, appunto, ben definita nelle volute, variazioni, aggiunte, smarcamenti via via impresse a Echoes, risiede nell’atteggiamento free dell’ensemble, sempre pronto a tratteggiare umori e suggestioni ruotanti intorno a una idea quanto meno mobile, dinamica, aperta, appunto, di jazz.

Basterebbero le due Echoes iniziali, I See Your Eye pt. 1 e Forest Without Shadows a definire il quarto passo dell’Ochestra, tante e tali sono le direttrici, le traiettorie, gli approcci che il mastodontico ensemble pone in scena, con la prima a crescere suadente e lenta, aggrovigliante come fosse un boa constrictor gentile e affabile guidato dalla incessante batteria di Berthling e ondivaga nel suo esplodere e acquietarsi, allargare l’orizzonte sonoro e improvvisamente richiamare al dettaglio; e la seconda a screziare quella idea di suono con un taglio percussivo più afro su cui i fiati e gli archi vanno e vengono, ora orchestrali, ora minimali, a un certo punto gravi e quello dopo gioiosi e in fuga liberatoria.

Se non siete ancora (o già) appagati, arriva la terza Echoes. To Gather It All. Once a non fare prigionieri grazie al featuring vocale di Mariam Wallentin, che sussurra e guida un pezzo genericamente soul-jazz tanto notturno quanto suadente nel suo accumulo strumentale via via in crescendo al punto che, quando intorno alla metà prendono il sopravvento i fiati, vengono in mente ossimori come una sorta di Morphine big brass band fissata con gli ensemble aperti di jazz avventuroso dei ‘60/’70, tradizione a cui l’Orchestra si rifà dichiaratamente.

Si sarà capito che di carne sul fuoco ce n’è a dismisura; che l’afflato è spregiudicatamente avventuroso e i risultati più che eccitanti e vari, muovendosi tra momenti di eccitazione free e più placide introspezioni, tra fraseggi quasi afrobeat o spiritual e distese ambient-jazz; che l’Orchestra rappresenta la summa di tre musicisti in stato di grazia con una visione davvero totalizzante e insieme aperta della nozione di jazz e che, infine, Echoes rappresenta probabilmente uno dei vertici della “rinascita” jazz che stiamo a vario titolo e a varie longitudini ammirando da un buon decennio in qua.

Pubblicato su sentireascoltare.com di STEFANO PIFFERI ,  13 APRILE 2023

As Bestas di Rodrigo Sorogoyen (2022)

 

Parte come uno conflitto tra popoli diversi. Francesi da una parte, spagnoli da una parte. La separazione in As Bestas diventa ancora più netta rispetto al precedente film di Rodrigo Sorogoyen, Madre, che era ambientato a Vieux-Boucau-les-Bains, comune francese della Nuova Aquitania. L’estraneità, il disagio di non far parte del luogo viene ulteriormente accentuata nel sesto lungometraggio del cineasta spagnolo che di svolge a Bierzo, un piccolo villaggio nella campagna della Galizia. Antoine (Denis Ménochet) e Olga (Marina Foïs) si sono trasferiti lì da tempo, praticano un’agricoltura ecoresponsabile e si occupano della ristrutturazione di case abbandonate per incrementare il ripopolamento e il turismo sul territorio. Attorno a loro però si crea un clima ostile soprattutto da quando hanno deciso di ostacolare un progetto che prevede l’installazione di altre pale eoliche. A rendergli la vita impossibile sono soprattutto due fratelli, i loro vicini di casa.

La guerra è aperta in As Bestas, proprio come nell’esplosiva serie poliziesca Antidisturbios, e comincia già dall’incrocio delle tre lingue: spagnolo, francese, galiziano. Il cavallo bloccato all’inizio del film in ralenti è già un segno premonitore di quello che accadrà. L’inospitalità del luogo richiama la ricerca della violenza come legge personale delle relazioni umane per non farsi sopraffare del cinema di Peckinpah e il paragone più facile va a Cane di paglia. Ma Sorogoyen, rispetto al cineasta statunitense non accumula le situazioni fino a farle esplodere. Lascia piccoli segnali, ma mette già in una situazione di continuo pericolo. Ad Antoine ed Olga può accadere di tutto in qualsiasi momento. Ci sono tentativi di avvicinamento e appianamento dei conflitti e poi una sempre maggiore distanza. È un cinema d’impatto immediato, scritto benissimo (la sceneggiatura, come in tutti gli altri film, è sempre dello stesso regista in coppia con Isabel Peña) in cui vengono a galla gli istinti primordiali come nella caccia al serial killer di Che Dio ci perdoni o nella figura del politico caduto in disgrazia di Il regno. As Bestas crea una tensione pazzesca in un pezzo di territorio, dal bar frequentato da Antoine e i due fratelli allo spazio che divide le abitazioni dei vicini. Una scena di notte, con l’automobile che blocca la strada, conferma tutta la potenza del cinema del regista che non cerca mai inutili soluzioni visionarie o improvvise accelerazioni. Al contrario, tende spesso a ritardare lo scontro fisico. In quel momento lascia la coppia francese con la paura addosso, così come con la figlia della coppia in tutte le sequenze in cui cammina da sola con il cane e incrocia uno dei due fratelli. Non c’è il fiume ma la natura impassibile che diventa una trappola (il bosco) ha più di un eco che rimanda a Boorman in Un tranquillo weekend di paura. In più prosegue il discorso sul concetto di legalità che ha spesso attraversato il suo cinema. In As Bestas la polizia non lascia Antoine ed Olga da soli ma non può intervenire. Una piccola telecamera diventa così l’unica arma possibile.

La follia non è mai esplicitata. Resta lì nel limbo, nei silenzi, nelle facce stranianti, nelle tracce di una malattia sotterranea. Sorogoyen mantiene altissima la temperatura emotiva, sempre surriscaldata proprio perché non spinge mai il piede sull’acceleratore. Anzi rallenta e fa respirare la scena dove è proprio il fatto che non succede niente ad alimentare ulteriormente il crescente nervosismo. Nella seconda parte, anche con le immagini del paesaggio innevato, l’atmosfera si immobilizza senza mai distendersi e Marina Foïs si prende il film, anzi no, glielo affida Sorogoyen, con il suo personaggio spesso in silenzio dove aspetta la prima mossa dell’altro personaggio per agire o reagire. Il litigio in cucina con la figlia è un grandissimo momento di As Bestas e una grande lezione di recitazione. Non sono solo i dialoghi. Ogni singola parola è una lama appuntita. Tutte feriscono. L’ultima uccide?

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 12 Aprile 2023 di Simone Emiliani

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Con As bestas Rodrigo Sorogoyen indaga ancora l’animo umano, la sua progressiva discesa verso la follia più inarrestabile, con i barbarici istinti primordiali che affiorano dal subconscio. Thriller tesissimo, sempre sul punto di esplodere, As bestas è la conferma del grande talento del regista spagnolo. Tra le première di Cannes, ma avrebbe meritato il concorso.

I francesi Antoine e Olga si sono trasferiti da alcuni anni in un paesino della Galizia, con lo scopo di praticare agricoltura eco-sostenibile e di ristrutturare le vecchie case abbandonate in modo da favorire il ripopolamento della zona, che soffre di una diaspora dovuta alla povertà e al fatto che le giovani generazioni non vogliono seguire le precedenti nel lavoro della terra, o nella pastorizia. La maggior parte della popolazione locale ha accolto bene i due francesi, i cui ortaggi sono anche particolarmente apprezzati (“quelli di Antoine sono i migliori pomodori in circolazione”, dice una signora a Olga durante il mercatino settimanale di frutta e verdura). Fanno eccezione due fratelli, Xan e Lorenzo – quest’ultimo rimasto offeso allo sviluppo cerebrale in seguito a un incidente, ma un tempo pare fosse un ragazzo bellissimo –, che non perdono occasione per provocare Antoine, in particolar modo quando l’uomo si presenta all’unico bar del paese per bersi un bicchiere di vino rosso. Il motivo è presto detto: Antoine e Olga si sono fieramente opposti al progetto di installare nell’area delle pale eoliche, che avrebbe portato agli abitanti un indennizzo economico perché costretti ad abbandonare definitivamente il villaggio. È questa la base portante attorno alla quale ruotano le vicende di As bestas, quarantenne regista spagnolo giunto al sesto lungometraggio e divenuto nel giro di un pugno di film e serie (tra queste ultime in particolar modo la recente Antidisturbios) uno dei nomi più amati dai cinefili europei: titoli come Che Dio ci perdoni, Il regno, e Madre testimoniano quanto siano giustificate le speranze di aver “scoperto” un autore in grado di rinnovare l’immaginario cinematografico continentale. Anche per questo è apparsa in qualche modo irrituale la collocazione che As bestas ha trovato al Festival di Cannes, inserito tra le Première quando avrebbe meritato a detta di tutti di prendere parte al concorso principale: perfino il delegato generale del festival Thierry Frémaux, presentando il film in sala, è parso giustificarsi asserendo che la produzione avesse sottoposto tardi l’opera al comitato di selezione, quando il concorso era già praticamente chiuso. Che ciò sia o meno vero è indiscutibile come la visione di As bestas resterà come uno dei momenti topici dell’edizione 2022 della kermesse francese.

Sorogoyen apre il suo film riprendendo degli “aloitadores” che catturano e domano dei cavalli selvaggi potendo contare esclusivamente sulle loro mani nude: una volta sottomesso al cavallo viene rasata la criniera e apposto un marchio. La ripresa è al ralenti, da un lato per rimandare a una dimensione epica, dall’altro per sottolineare l’irrealtà del momento in cui l’uomo crede di poter dominare e gestire la natura, solo ricorrendo alla propria forza bruta. Senza aver ancora mostrato i suoi personaggi il regista spagnolo ha già delineato di fronte agli occhi dello spettatore ciò che accadrà in scena, vale a dire la progressiva follia umana che retrocede alla bestialità più ancestrale per paura e desiderio: paura dell’altro, e desiderio di sottomissione, di conquista. Le montagne brulle della Galizia, le fattorie quasi irraggiungibili, le mandrie al pascolo, la quasi totale mancanza di tecnologia, tutto riconduce alla wilderness del western, e d’altro canto As bestas è la rappresentazione crudele, perfino spietata, di un duello senza fine, ma che potrebbe esplodere in qualsiasi momento e deflagrare con tutta la sua dirompente violenza, vale a dire quello che oppone il corpulento ma ben disposto Antoine ai fratelli Xan e Lorenzo. Il primo è lo straniero, che è venuto a spezzare l’ordine naturale delle cose, i secondi sono il frutto della terra – non a caso Xan è un nome tipico galiziano, Lorenzo il nome di uno dei santi più venerati e amati in Spagna –, anche se non i “migliori”. Sorogoyen è bravissimo a gestire una tensione latente ma sempre percepibile, e ogni inquadratura sembra sul punto di conflagrare, come se l’immagine non potesse essere contenuta all’interno di un quadro: in tal senso appare quantomai puntuale ed evocativa la splendida locandina approntata per il film, e che rimanda idealmente a un punto chiave della narrazione, dove non a caso il movimento di macchina è uno zoom in avanti che chiude sempre di più le possibilità allo sguardo, rendendo impossibili vie di fuga o d’aria di ogni tipo.

Se è impossibile, durante la visione di As bestas, non far correre la mente in direzione del Peckinpah di Cane di paglia o del Boorman di Un tranquillo weekend di paura, film in cui la natura aspra e barbarica dei luoghi penetra in profondità nell’animo dei personaggi, fino a guidarli alla disfatta che è anche trionfo – trionfo dell’immagine come unica rappresentazione legittima della violenza –, si possono trovare punti di contatto anche con Il vento fa il suo giro, il film con cui esordì alla regia Giorgio Diritti e che resta tutt’oggi il parto migliore e più convincente del cineasta bolognese. Ma la vera forza di As bestas sta nella capacità di Sorogoyen di non lasciarsi andare al medesimo istinto bestiale che affligge i suoi personaggi: mentre la slavina avanza la regia non diventa rapsodica ma continua a trattenere in sé quella violenza, rifiutandosi di mostrarla o di farla montare in modo definitivo e irreparabile (e infatti i video con cui Antoine documenta i dispetti sempre più feroci cui è vittima restano quasi del tutto invisibili, e la polizia non interviene mai in modo concretamente risolutore). Si resta così continuamente in una situazione sospesa, senza fiato, angosciati da un thriller che rinnega i punti cardine del genere per annichilire lo spettatore, sfiancandolo esattamente come si fa con i cavalli selvaggi. Poi, senza entrare nel dettaglio della trama, c’è un improvviso cambio di ritmo, di prospettiva, di aria. E Sorogoyen pone al centro dello sguardo un personaggio rimasto fino a quel momento nelle retrovie, per dimostrare come esistesse un fuori campo. Esiste sempre un fuori campo, qualcosa che è distante dal quadro e non si riesce a mettere a fuoco, o forse non lo si vuole farlo. In quel campo sempre più ristretto invece permane la violenza, che non può far altro che sclerotizzarsi, fino alle estreme conseguenze. Lezione di regia e di narrazione, As bestas è la definitiva consacrazione di un regista sorprendente.  L’intero cast è straordinario, ma merita un plauso particolare Denis Menochet, a dir poco superlativo nel ruolo di Antoine.

Pubblicato su quinlan.it 28/05/2022 di Raffaele Meale

giovedì 30 marzo 2023

The Necks – Travel (2023)

 

As an enigmatic band out of Australia over the last three decades with a large cult following, The Necks have consistently made some of the most alluring but most hard to pin down instrumental music. Thirty-four years after their first release, they are going as strong as ever.

Travel represents their nineteenth studio album, but it’s a studio album that comes closest to being a ‘live’ album because these tracks come closest to reflecting unadulterated live tracking of improvisations in the studio, with only some mild subsequent edits. And this time it’s four, twenty-minute-ish tracks, a departure from the usual single, hour-long tracks. As such Travel is also a double-disc affair, also unusual for this band.

Getting four distinct performances is an abundance of new material from guys accustomed to offering them up one at a time, even if we were actually treated to three of them on the prior album, whose title seemed to highlight that fact.

But the band’s blueprint for organic minimalism remains the same, and improvisation is at the heart of that formula. Maybe ironically, because they can recycle the same approach to making a record over and over and yield different results each time. Travel — aside from the extended length — is an entity separate from other Necks albums, just as the other records in their canon stand alone.

Anyone seeking to settle the argument of whether or not The Necks is ‘jazz’ won’t get that resolved with Travel. Sure, Chris Abrahams does his jazzy flourishes on the piano, Lloyd Swanton lays down his insistent vamps on a standup bass and drummer Tony Buck always has a faint swing in his gait. But the resulting music doesn’t really follow the widely-accepted rules of jazz, because jazz moves fast; these lads are in no rush.

For the opener “Signal,” Swanton’s acoustic bass line — as is often the case — declares the riff that will stay with us for the next twenty minutes, but the steadiness is merely the foundation in barely-perceptible variations by Abrahams using the organ to set sonic washes and piano to insert that improvisational jazz element. His minutely subtle buildups gradually regulates that bass to the background but by that time it’s ingrained in your brain, anyway.

With “Forming,” Swanton is dancing on the single chord, and Buck is paint brushing so much of the audial imagery with toms, cymbal splashes and percussion, as Swanton saws his double bass to discreetly alter the procession.

Buck’s profile is even higher on “Imprinting,” where he constructs an insistently funky, almost jungle rhythm situated right in the middle while Swanton plays in that pocket on the left channel and Abrahams leaves precious notes on the right.

A churchly organ establishes the sacred mood for “Bloodstream,” and Swanton’s saws organically establishes a drone right alongside it. Buck’s rolling snare enters minutes later to complete the picture, punctuating with tom-tom and cymbal hits whenever a slight mood alteration is called for.

It probably goes without saying that if you like The Necks previous records, you’re going to like Travel, too, guaranteed. It’s a familiar sound but the songs will still take you on an engaging journey where you’re not sure beforehand where they wind up.

Travel is releasing on February 24, 2023 via Northern Spy Records. Bandcamp

Pubblicato su somethingelsereviews.com 2023/02/18

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“Travels” celebra trentaquattro anni di costante ostinazione stilistica, oltreché di reinvenzione del legame che intercorre tra avant-garde, jazz e minimalismo.

Quattro tracce per  un album che consolida il rapporto con la Northern spy , quattro brani che corrispondono alle facciate del doppio vinile (una scelta della band, non un’esigenza commerciale), quattro folgorazioni creative che narrano una delle migliori prove discografiche del gruppo.

“Travels” è il loro “Koln Concert” (in senso figurato non stilistico), un disco che nasce live in studio, per poi nutrirsi di strati sonori di organo hammond e mantra chitarristici dall’intrigante natura slowhand.

A Lloyd Swanton è offerto il ruolo di maestro di cerimonie e supporto costante della prima facciata, venti minuti e cinquanta secondi per “Signal”, un brano che si dipana su di un minimale e magnetico riff di contrabbasso, sensuale come una jam di Miles Davis e rituale come un brano di Sun Ra, tinto da poche note di piano, alle quali si avvicendano cosmiche arie d’organo ed il vellutato fragore del rullante, che intercettano il ritmo base, prima che la chitarra ed il piano accennino esotismi world che ora rafforzano il ruolo del contrabbasso, ora l’addomesticano ai dettami free delle jam-session; a dettare ulteriormente tempi e ritmo v’è il flusso costante della batteria, che nell’apparente immobilismo tecnico nasconde un furore dinamico che dona ulteriore slancio emotivo.

I primi ardori di “Forming” (venti minuti e tredici secondi) sono pochi accordi di piano in libertà armonica, elevati ad onirica visione afro-jazz dal fruscio dei piatti e delle percussioni, una musicalità sospesa e notturna simile ad una partitura orchestrale, affine per creatività e ricercatezza, ad alcune delle pagine più nobili della musica jazz e sperimentale degli anni 70, una delle vette assolute della band australiana.

L’organo hammond, il brusio metallico del frastagliato corpo ritmico, l’adulterato timbro del basso, note di piano apparentemente disordinate, il sofferto vagare della chitarra elettrica, danno alfine corpo all’esoterica jam blues-jazz-etno-ambient di “Imprinting”, diciassette minuti e quattordici secondi di divagazioni di stili e linguaggi, che tracciano un immaginario ponte tra John Coltrane, Miles Davis, i Can e Jon Hassell.

Ennesima saga musicale anche per l’ultimo insieme di “Bloodstream” - diciotto minuti e trentotto secondi - poche cicliche note duplicate all’infinito, messe in fila da un organo a canne dall’incedere sacrale, da accordi di piano più generosi, e da un’evoluzione di canoni funk, di jazz modale e accenni rock grevi, che si frantumano e si rigenerano.

Ancora una volta i Necks onorano l’approccio originario e creativo che da “Sex” fino ad oggi ha reso la loro musica identificabile e peculiare, “Travels” è l’ennesima magia che si ripete, a prima vista non dissimile da quanto elaborato in passato, eppur discordante ed originale, settantasei minuti e cinquantacinque secondi di una musica radicata nel jazz e nell’avanguardia sperimentale, altresì libera da vincoli di genere, un piccolo capolavoro che si candida già da ora tra i migliori album dell’anno.

Pubblicato su ondarock.it 02/03/2023 di Gianfranco Marmoro