William Tell (!) è un giocatore di carte professionista.
Viaggia per le highways d’America, gira per i casinò, tra le luci ipnotiche di
Atlantic City o di qualche altra città “folle” e vince a blackjack senza dare
troppo nell’occhio. Ogni tanto una puntata ai tavoli da poker e il gioco è
fatto. Nessun rischio inutile, nessun’ambizione da grande colpo. Una vita
solitaria, da monaco praticamente. Nessun contatto, nessun legame. Dorme nei
motel, dopo aver accuratamente coperto tutti i mobili per creare, così,
l’ambiente più asettico e silenzioso possibile. Del resto, William ha passato
otto anni in un carcere militare. Era, infatti, tra gli aguzzini di Bagram e
Abu Grahib, perfettamente addestrato alla follia degli “interrogatori
potenziati”, assuefatto alla droga della tortura e del sopruso. Scoppiato lo
scandalo delle violenze dei soldati americani nei confronti dei prigionieri afghani,
non ha avuto possibilità di cavarsela, a differenza di molti superiori
istruttori, mercenari praticamente intoccabili. Ma in William non sembra
esserci recriminazione o residuo d’odio. In carcere si è abituato a una vita a
orologeria, si è dedicato alla lettura e ha imparato a contare le carte. Eppure
il passato è un mostro da cui è impossibile fuggire, un debito accumulato nelle
pieghe più profonde dell’anima. Da pagare, in un modo o nell’altro, ben oltre
le pene istituite. Finché non riappare lo spettro del maggiore John Gordo (un
Willem Dafoe che, come sempre, pare covare il diavolo dietro il sorriso). E un
doppio incontro, con il giovane Cirk e con la giocatrice La Linda. Tutto
prende, improvvisamente, un’altra forma.
Dopo l’Ernst Toller di First Reformed, Paul Schrader fa
appello, di nuovo, a un nome “storico” (o meglio leggendario) per raccontare un
altro personaggio ascetico, in cerca di una via di salvezza. Ma qui non si
tratta di un’aspirazione cristologica alla redenzione collettiva, quanto di
un’espiazione tutta personale, la necessità di una purificazione. E alla tesa,
macerante sofferenza del corpo di Ethan Hawke, risponde l’apparente
impassibilità di Oscar Isaac, che sembra quasi farsi opaco, imperscrutabile nei
pensieri e nelle intenzioni. William si muove in maniera anonima in un mondo di
apparenze scintillanti ma altrettanto grigie, rinchiuso in una specie di
prigione volontaria, in un circolo (o un circo) di ripetizioni, annotazioni,
conteggi e calcoli di probabilità. “È tutto bello, ma è una vita monotona”, gli
dice Cirk. Ma sotto quella monotonia, avverti la tensione lacerante dello
spirito, il sangue appena raggrumato di una ferita non cicatrizzata. E,
soprattutto, senti l’infinita possibilità di una differenza, di una svolta
inattesa ma forse predestinata, di una scelta differente. Ognuno ha la sua
storia da raccontare, in fondo. Ed è una storia in cui l’avventura interiore è
sempre infinitamente più complessa di quella esteriore.
Per Paul Schrader, ancora una volta, la strada morale è
tortuosa e imprevedibile. Ma la sua scrittura si muove tra i dilemmi con la
nitidezza di una parabola, segna il percorso con la forza inarrestabile del
paradosso, mistero di ogni fede. E se il suo sguardo gioca su linee di tensione
thriller, punteggiate dalla musica ossessiva di Giancarlo Vulcano, Robert Levon
Been, se arriva a impazzire nella prospettiva deformata delle scene di tortura,
alla fine ritrova, sempre, la sua
cristallina linearità. Fino a farsi lieve in una passeggiata di straordinaria
dolcezza, in due mani che si toccano. E in un finale ancora una volta
bressoniano (o forse, ormai bisognerebbe dire schraderiano). Un finale in cui
il dramma sembra non esserci più. Di puro amore. La salvezza non si controlla.
Segue vie ignote. Ma la senti quando la vita riprende a scorrere.
pubblicato su sentieriselvaggi.it , 2 Settembre 2021 di Aldo
Spiniello