giovedì 29 giugno 2017

Civiltà Perduta (The Lost City of Z) di James Gray

http://www.sentieriselvaggi.it/civilta-perduta-di-james-gray/

Non è uno di noi, ma non è nemmeno dei loro: che ne facciamo di lui?”, si chiede il capo indio al cospetto dell’esploratore Fawcett, forse il personaggio tra tutti quelli dipinti da James Gray nella sua manciata di film che più abissalmente esplicita il problema centrale del desiderio di appartenenza alla base della poetica del cineasta – se si potesse essere un indiano, subito pronto, esordiva Kafka: se si potesse esserlo, diventare cittadino di Z pur proveniendo da A, allora che fine farebbero le tue radici, le tracce che ti sei lasciato dietro, ad aspettarti? Vanishing Act. Appartenenza, per forza di cose, vuol dire sangue del proprio sangue, paternità: si, esatto, un altro grande film di padri, figli e fratelli, di dedizione e di scelte d’amore. Gray mette l’avventura tra parentesi, andando incontro all’ambizione disumana di inquadrare l’infilmabile, mapparlo, disegnarne i contorni precisi e la strada, perchè più dell’ossessione per l’impresa straordinaria, la spedizione fino alla fine del mondo, quello che importa è poter rivisitare il desiderio che ti tiene sveglio di notte, tornare ancora e ancora (a Manderley) a quella visione originaria e purissima. Trasformare il cinema e il luogo del classico in una dimensione dentro cui precipitare ciclicamente come al cospetto di una parete dipinta e preda di un attacco di sindrome di Stendhal.
Ecco, James Gray soffre con ogni evidenza di sindrome di Stendhal nei confronti del cinema, e quando hai una malattia, perdere i sensi e la coscienza non diventa più un istante straordinario, da raccontare con i toni epici e gonfi dell’intrattenimento di genere seppur virato d’autorialità, ma le traveggole entrano a far parte della tua quotidianità, elementi dell’ordine delle cose. Il miracolo più grande di Civiltà perduta, già accennato nel precedente The Immigrant che racchiudeva tutta la storia di New York vista da sotto un ponticello anonimo di Central Park, è questa andatura stranissima, questo racconto sospeso di un’irrequietezza con cui fare i conti per tutta una vita: non un eroe titanico che compie un’impresa straordinaria, ma un padre di famiglia (“ho moglie e figli”, non fa che ripetere Fawcett alla sua squadra, davanti ai pericoli della giungla) che crede nell’esercizio ritornante della propria missione, un viaggio in Amazzonia e poi un altro, e poi un altro ancora, e in mezzo la guerra, la trincea, il fronte.
Sienna Miller, personaggio abbacinante di moglie e madre, non si sorprende più di tanto quando suo figlio dichiara la decisione di seguire il padre per un’ultima spedizione alla ricerca della città d’oro narrata dai conquistadores: capisce subito che si tratta di un vincolo di famiglia, sacro e inviolabile, impossibile da spezzare.
Non siamo destinati a morire, afferma Fawcett, ed è una possessione che finisce per investire tutte le persone che ama, come gli è stato predetto da una cartomante durante la guerra, in una delle sequenze-chiave, che svelano come per Gray il sogno, il miraggio siano totalmente interiori. La città non può essere visualizzata neanche dal cinema, sullo schermo non appare mai se non intravista alle spalle del protagonista e della fattucchiera, e poi nello specchio in cui si perde la donna amata, portale d’entrata per la versione leggendaria della Storia, quella che appartiene a suo marito e alla sua famiglia, nell’ennesimo finale di fantasmi, nuovamente da mozzare il fiato nella precisa tradizione dell’autore.
Le armi e le potenzialità del cinema allora per Gray sopravvivono davvero come interruzione, digressione, lato oscuro della luna (matter of fact it’s all dark), isola non trovata ma bella piu’ di tutte, che aumenta familiarità e riconoscibilità proprio rimettendo in circolo canoni, immaginari, stili e riferimenti (d’accordo Coppola, ma l’apertura è innegabilmente ciminiana, e in ogni caso la cocciutaggine del progetto, totalmente impossibile da veicolare sul mercato, ancora una volta accomuna Gray a questi due autori-suicida di film che non sembrano volersi mai chiudere, assumere una forma definitiva: anche di Civiltà perduta percepisci in ogni istante la possibilità di mille montaggi alternativi, director’s cut con scene diverse, tagliate aggiunte o allungate…). Con l’intento lucidissimo di riaffermare “siamo gia’ stati qui”, qualcuno ci è già passato. 
Amare il cinema di James Gray significa perciò condividere con lui e con i suoi personaggi la luce incommensurabile e indescrivibile che ti colpisce ogni volta che ti rendi di nuovo conto che l’entrata per un giro alla ricerca della Citta’ di Z è sempre aperta, ancora li, davanti (e dentro) ai nostri occhi. Farsi divorare dal sogno, per essere liberati dalla condanna.
di Sergio Sozzo, pubblicato su sentieriselvaggi.it il 22/06/2017

venerdì 14 aprile 2017

Personal Shopper (2016) di Olivier Assayas










 

http://quinlan.it/2016/05/17/personal-shopper/

Maureen, ventisettenne, ha un lavoro che detesta: è una personal shopper, si occupa del guardaroba di una celebrità dei media. Non ha trovato nulla di meglio per potersi permettere un affitto a Parigi. E aspetta. Aspetta un segno dallo spirito del fratello gemello, Lewis, morto pochi mesi prima. Fino a quel momento, la sua vita resterà sospesa.
C’è un’immagine materiale che prende vita sullo schermo all’inizio di Personal Shopper, ed è quella della giovane e bella Maureen, medium che per riuscire a permettersi l’onerosa Parigi accetta di lavorare come personal shopper per una celebrità; l’immagine è quella di Maureen che, rimasta sola nella grande magione oramai disabitata in cui viveva il fratello gemello morto per crisi cardiaca pochi mesi prima, si aggira per le stanze. L’intero set sembra svanire nel buio e nell’ombra, solo Maureen resta sempre al centro dell’inquadratura, unico elemento vivo della scena, unico elemento mobile a parte la macchina da presa, che la segue con la steadycam. Basta la prima sequenza ad Assayas per informare lo spettatore: in una storia in cui si cerca disperatamente un contatto con l’immateriale e l’ectoplasmatico, Kristen Stewart è il punto di riferimento dello spettatore. Rimarrà l’unico: Parigi appare come un guscio di lumaca, vuoto ma ancora rumoroso, quasi fastidioso; il treno che la porterà a Londra (per fare shopping, ovviamente) non è da meno, così come sono privi di anima gli alberghi in cui uno sconosciuto che la tampina al cellulare – dimostrando di saper non poche cose su di lei – la invita a raggiungerlo. Maureen cerca il “suo” fantasma, quello di un gemello morto per uno scompenso cardiovascolare che minaccia anche la qualità della vita della ragazza; lui gli aveva promesso che se ci fosse stato un qualcosa dopo la morte sarebbe tornato indietro per darle un segno della sua presenza.
Alla ricerca di questo segno Maureen si imbatte in spiriti privi di pace e violenti, e in persone fisiche forse altrettanto prive di pace. Chi è che la perseguita al telefono?

Le uniche forme tangibili che Assayas mette a disposizione della sua protagonista sono gli abiti, le borse e le scarpe che deve quotidianamente andare ad acquistare nelle più rinomate boutique per assecondare il “vizio” della sua datrice di lavoro. Non c’è relazione umana “reale” nella vita di Maureen: via skype quella con il fidanzato – forse – Gary, che si trova per lavoro in Oman, attraverso whatsup quella con colui (o colei) che le manda messaggi, e che è l’unico a riuscire a cogliere l’aspetto dominante della ragazza. Ha paura dei fantasmi, Maureen, e li teme perché in realtà li desidera; e li desidera perché sono proibiti (inatti alla vita). Lo stesso motivo per cui la ragazza continua a lavorare per Kyra: non per una soddisfazione economica – che potrebbe probabilmente trovare anche altrove –, ma per la paura di poter desiderare qualcosa che le è proibito, come gli abiti dei grandi stilisti che, da principio riluttante e poi senza più troppe remore, prova prima di avallarne l’acquisto.
È il suo essere ancora carne e sangue a rappresentare lo scarto rispetto al mondo che la circonda. Lei è tangibile, è ancora davvero un medium: Kyra, che è parte dei media, è ancora sola apparenza, immagine sfuggente di un desiderio inappagabile, e inappagato. Quello di apparire ed essere a una volta sola. Con Personal Shopper Olivier Assayas propone un passaggio ulteriore al proprio cinema, trasportando la questione del campo/fuori campo e della “sparizione” in territori direttamente collegabili al genere. Tra il thriller e l’horror, Personal Shopper prosegue lo studio del cinema come ultima arma possibile per trovare un punto di contatto tra l’umano e ciò che non è visibile agli occhi – fossero acnhe solo quelli degli spettatori.

Ma, soprattutto, Assayas compone un poema oscuro e a tratti barbarico per il corpo della Stewart, in moto(rino) e immobile, nudo e vestito, centro di quell’inquadratura che non teme l’horror vacui ma si aggrappa in ogni caso all’unico elemento vivo, inseguendolo e a volte superandolo. Lo sguardo della camera brama Maureen così come lei brama quei vestiti che non le appartengono; lo sguardo della camera teme Maureen così come lei teme quegli antri dalle grandi stanze in cui si agitano spettri reali e immaginari; lo sguardo della camera spia Maureen così come lei cerca di trovare una verità in quei messaggi che arrivano, sempre più personali e inquietanti.
Accolto da bordate di fischi alle proiezioni stampa di Cannes (i fantasmi sulla Croisette portano con loro sempre fastidiosi risolini autocompiaciuti; basti pensare al bellissimo La frontière de l’aube di Philippe Garrel), Personal Shopper è un’opera teorica eppur carnale, umana e fantasmatica. Insieme a Paterson di Jim Jarmusch, fino a questo momento il titolo migliore del concorso del 2016.




 

giovedì 6 aprile 2017

Big Little Lies - I segreti degli altri (HBO serial)

http://ilmucchio.it/articoli/cinema-tv/big-little-lies/
di Beatrice Mele, Il Mucchio  ilmucchio.it










Tutti i bambini vanno a scuola, vero; tutti gli adulti hanno un telefono connesso ad Internet, piuttosto vero; tutti i genitori sono in un gruppo whatsapp “di classe” probabilmente silenziato con mamme e papà che non vedono l’ora di tornare ad ignorare, verissimo. Costretti a frequentazioni più o meno impegnative, dalla riunione con le insegnanti alla condivisione dell’attesa del suono della campanella fino alle feste unadietrol’altra, ai 30/40enni con prole di oggi piace definirsi spettatori di altrui manie in un contesto scuola-famiglia pieno di originali/problematiche/disfunzionali personalità, le stesse che Big Little Lies, patinata miniserie HBO in onda su Sky Atlantic, mette in scena cogliendo l’attimo: in questa storia, un romanzo scritto e ambientato in Australia da Liane Moriarty e per l’occasione trapiantato a Monterey in California, è facile riconoscere gli altri, meno se stessi.
C’è Madelaine (Reese Witherspoon), madre in controllo equa-solidale-riformista che sembra soffrire la nuova relazione dell’ex marito, c’è Celeste (Nicole Kidman) – bella lei, belli il marito, i gemellini e la villa fronte mare – così perfetta da non essere credibile, c’è Jane (Shailene Woodley), madre-single appena arrivata in città, nuova e dunque misteriosa. C’è poi il chiacchiericcio di chi guarda e dall’esterno giudica.
Tra case da urlo e scogliere a picco sull’oceano, i sette episodi diretti da Jean-Marc Vallée (Dallas Buyers Club) e introdotti da Cold Little Heart di Michael Kiwanuka ribadiscono che anche i ricchi piangono e si premurano di mettere in chiaro che l’infelicità è un sistema complesso che richiede presenza: della vittima, del suo aguzzino – i cui ruoli capita sfumino l’uno nell’altro – e del coro che spia, così ben descritto, ad esempio, in Libertà di Franzen.
Big Little Lies avvia i motori quando il piccolo Ziggy viene accusato di aver messo le mani al collo di una sua compagna. Un gesto aggressivo, forse frainteso, forse mai avvenuto, che lo confina all’angolo e che rimesta nelle paure irrisolte degli adulti intorno. Un incipit che, con le dovute differenze – lì era un uomo a strattonare un bambino – ricorda il riuscito The Slap, nella sua versione australiana, dove dinamiche relazionali solo apparentemente sane venivano via via smascherate.
La violenza, tanto più prepotente nella disparità di fisicità tra i due sessi, è inequivocabilmente un tema sensibile della serie che prevede come The Affair un omicidio di cui fino alla fine si sa pochissimo e che non porta nulla in più all’appeal della storia (ma chiuderà il cerchio in maniera fin troppo tonda).
Più intrigante, seppure non inedito, è l’accento su ciò che spesso si nasconde nell’intimità della famiglia, con la penetrazione come mezzo attraverso il quale l’uomo si rivale di una posizione defilata, con segreti taciuti anche agli amici più cari e condivisi con difficoltà solo con una psicoterapeuta; ma più interessante ancora è il rapporto tra genitori e figli, con i secondi visti come possibilità attraverso cui riscattarsi da torti e frustazioni e con i primi sempre più fragili nella loro capacità di essere figure di riferimento.
Così quando Madelaine organizza un evento alternativo per boicottare il compleanno faraonico della bambina che ha accusato Ziggy, la madre della festeggiata (Laura Dern) le giura vendetta sia per il “trauma” procurato alla figlia sia per lo sgarbo da lei patito. In quel frangente, così come in altri, ogni azione è esagerata, messa in atto come dimostrazione di una supremazia nella popolarità e nella leadership, mentre dei bambini non resta che qualche inquadratura di sfuggita.
Big Little Lies sembra dire che l’infanzia è una faccenda da adulti, il loro Risiko personale dove i più piccoli possono finire a letto in anticipo per permettere ai grandi di seguire una serie tv che parla di loro, ma in cui riconosceranno solo gli altri.

Pubblicato su Il Mucchio n. 753 – Aprile 2017

lunedì 23 gennaio 2017

Riflessioni su Paterson di J. Jarmusch


Mentre lo guardavo pensavo fosse una storia minimalista, fatta di piccole cose, silenzi, sospensioni.
A ripensarci invece lo trovo un film di peso e che dice grosse cose.
Importanti.
Poetico, sicuramente, ma anche in qualche modo assertivo.
Forse più per le cose che non mostra e che non dice. Quelle cui siamo abituati, quelle che pensiamo debbano esserci e invece non ci sono. 
I protagonisti sono due giovani. Non sognano il successo, non cercano di entrare in un’idea di felicità non loro. Sono sé stessi, vivono in modo semplice, stanno bene, non recitano ruoli.
Sono onesti, sinceri, condividano la vita, non se la raccontano.
Sognano e vivono, guidano il bus e scrivono poesie, decorano la casa e  aspettano un chitarra.
Dormono abbracciati, ma non devono esibire le loro scopate. La televisione è sempre spenta. La casa è semplice, in un posto anonimo, ma si veste della luce della sera e del mattino non meno di altri luoghi.
Nulla è altisonante o ridondante per paura del silenzio. Il silenzio va bene.
In tutto questo non c’è l’ambizione, la carriera, il peso del sistema, i soldi come misura della propria affermazione,  l’immagine di sé come un prodotto da vendere,  l’uso di un linguaggio forte ma vuoto, l’idea di sconfitta e di successo legata a questi falsi valori, il male di non essere perfetti.
Non tutte quelle cose che pare debbano esserci sempre, nei film come nella vita.
Posso dire che tutto questo è un discorso dannatamente politico?
Non la politica cui siamo abituati, non il teatrino dei contrapposti battibecchi in cui spesso anche noi cadiamo.
Ma la politica che facciamo ogni momento con le nostre vite.
Ecco un film poetico, ma anche politico. Anticapitalista, più di tante parole che ho sentito negli anni.

Edoardo Badano

lunedì 9 gennaio 2017

2016 (★)

Carol (Todd Haynes)
David Bowie - Blackstar
American Crime (ABC - st. 2)
Mistress America (Noah Baumbach)
Fuocoammare (Gianfranco Rosi)
Il Club (Pablo Larrain)
Under The Sun (Vitalij Manskij)
Tortoise - The Catastrophist
Weekend (Andrew Haigh)
Vijay Iyer & Wadada Leo Smith - A Cosmic Rhythm With Each Stroke
Al di là delle montagne (Zhang-Ke Jia)
The Invitation (Karyn Kusama)
                                 
Paul Mason - Postcapitalismo (Il Saggiatore)
Vinyl (HBO - st.1)
Daniel Clowes - Patience (Bao Publishing) 
The Witch (Robert Eggers)
Laurence anyways (Xavier Dolan)
Kim Gordon - Girl in a band (Minimum Fax)
Tutti vogliono qualcosa (Richard Linklater) 
V.A. - Boombox/Early Indipendent Hip Hop 1979-82
The Night Of (HBO)
Kent Aruf - Crepuscolo (NNE)
The Assassin (Hou Hsiao-hsien)
Halt and Catch Fire (AMC - st. 3)
Nick Cave - Skeleton Tree 
Barry Miles - Io sono Burroughs (Il Saggiatore)
Neruda (Pablo Larrain)
A Tribe Called Quest - We got it from here
Elle (Paul Verhoeven)
Percival Everett - In un palmo d'acqua (Nutrimenti)
Spira Mirabilis (Martina Parenti, Massimo D'Anolfi) 
Rectify (SundanceTv, 4 st.)
Jeff Parker - The New Breed 

last but not least:
Billions (Showtime-st.1)
Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti) 
Jules Feiffer - Kill my mother (Rizzoli Lizard) 
Beyoncè - Lemonade
Giordano Meacci - Il cinghiale che uccise Liberty Valance (Minimum Fax)
Un padre una figlia (Cristian Mungiu)
Frantz (François Ozon)
Indivisibili (E. De Angelis)
Bill Evans - Some Other Time, The Lost Session
Selene Pascarella - Tabloid Inferno (Ed. Alegre)
Train to Busan (Yeon Sang-ho)
Don DeLillo - Zero K (Einaudi)
Paolo Conte - Amazing Game 
E' solo la fine del mondo (X. Dolan)