martedì 24 maggio 2022

Crimes of the Future di David CRONENBERG (2022)


“Body’s Reality”. La scritta su una tv su sfondo nero sposta il cinema di Cronenberg dalla definizione – sempre parziale – di body horror a quella di ‘body beaty’. Perché Crimes of the Future è un cinema sulla bellezza che racchiude l’attrazione, la sessualità, la metamorfosi, la carne, gli organi. Anche la mostruosità diventa forma di seduzione: l’esibizione con il viso e gli occhi cuciti, il volto e il corpo in cui sono cosparse dappertutto le orecchie.

 “Body’s Reality”. Si, potrebbe ripartire tutto dalla tv, come quella via cavo di Videodrome da cui non vengono però captati i segnali inquietanti che precipitano nell’incubo. Si entra invece sotto la pelle di un cinema dove non ci sono solo più ‘demoni’ (?) (la madre del bambino ucciso) ma soprattutto di divinità – unica sintesi possibile biologica-tecnologica dove la vita la morte, l’organico e l’inorganico sono solo tappe passeggere di un corpo che non si decompone ma muta – possono davvero essere immortali nel cinema del regista canadese.

Crimes of the Future, un progetto pensato da più di 20 anni subito dopo eXistenZ, è la sintesi più radicale (oggi) del cinema di Cronenberg. La figura avvolta in un mantello di Viggo Mortensen rimanda a fantasy/horror lontani, dalle origini del cinema a quelli del futuro. Il suo personaggio Saul Tenser, celebre artista performer, è un incrocio tra Dracula e la mosca cronenberghiana. L’estensione tecnologica del proprio corpo mostra ancora come nella filmografia del cineasta la creazione e l’invenzione, Dr. Frankenstein e il mostro, il soggetto e l’oggetto stesso della propria identità sono la stessa cosa. Saul, nelle proprie performances, crea delle opere d’arte che escono direttamente dal proprio corpo. Come Andy Warhol, oggi Cronenberg è l’unico cineasta di cui si può dire che loro stessi sono la propria opera. Warhol lo faceva fisicamente. Cronenberg si serve invece delle sue tante identità, ancora della moltiplicazione dei suoi corpi che hanno attraversato oltre 50 anni di cinema.

Nei suoi spettacoli Saul si fa assistere dalla sua partner, Caprice (Lèa Seydoux), altro volto ma ideale doppio, gemella come i due Jeremy Irons in Inseparabili. La loro attività attira Timlin (Kristen Stewart) e Tippet (Don McKellar), investigatori del Registro Nazionali degli Organi e del padre del bambino ucciso (Scott Speedman).

Come tutto Cronenberg anche Crimes of the Future va assorbito, metabolizzato. Pezzo per pezzo, inquadratura per inquadratura. La sua bellezza non è estetica ma prima di tutto fisica. Nelle cicatrici, nell’elenco degli organi che Saul offre durante la sua performance, c’è il limite ultimo di uno spettacolo (artistico, cinematografico, pittorico) che prende forma sotto i nostri occhi. Il bello non esplode in tutta la sua forza devastante mélo come in M Butterfly ma proprio nell’esibizione. Gli spettacoli di Saul e Caprice hanno lo stesso impatto della simulazione delle corse clandestine di Crash. Sono ancora le divinità che offrono i loro doni (del cinema). Corpo/macchina, chirurgia/sesso. Potrebbe essere un film (quasi) muto accompagnato soltanto dalla voce-off, proprio come il suo Crimes of the Future del 1970, che ha lo stesso titolo di quel film ma non è un remake. Se il suo cinema precedente è stato anticipatore, oggi Cronenberg parlaciò che siamo diventati: la fluidità, l’abbattimento della separazione del genere, la coesistenza con l’ambiente nella nave rovesciata dell’inizio e come sfondo durante il film (ancora di una performance?) e soprattutto del bambino che mangia la plastica.

È così denso Crimes of the Future, così  indispensabile che dovrebbe essere visto come l’Empire State Building di Andy Warhol. Ogni immagine fermata. Non analizzata ma contemplata, goduta come puro piacere estetico e sensoriale, accesa nel suo erotismo come pura estasi come in uno dei baci più belli degli ultimi anni tra Kristen Stewart e Viggo Mortensen. La passione è solo uno stadio, la sessualità è anche nel piacere singolo di mostrarsi. “Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo” diceva Norma Desmond in Viale del tramonto. Crimes of the Future è film e corpo. Anzi più corpi, come quelli straordinari di Léa Seydoux e Kristen Stewart che possono aveer abitato da sempre il cinema di Cronenberg. Quindi può scendere quella scala come nel finale del film di Billy Wilder. E restare immortale. Proprio come Crimes of the Future, che sarà uno dei film fondamentali dei prossimi 100 anni.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it 24 Maggio 2022 di Simone Emiliani

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Screen – Un film intenzionale ma non sterile, inquietante ma troppo realistico per impaurire realmente, sebbene si possa dire che tenta di fondere le paure del body horror con i cambiamenti climatici.

Telegraph – L’interpretazione migliore è quella di Sedoux. Ma al contrario di Crash di Cronenberg, che sconvolse Cannes nel 1996, non c’è nulla che sconvolga in Crimes of the Future – requisito necessario per qualsiasi vero film scandaloso da festival.

TheWrap – Nei momenti più memorabili, Cronenberg crea immagini visceralmente indipenditabili che spaventano, sì, ma provocano anche con idee grandi e scioccanti su noi stessi: la mostruosità della malattia, il forse inevitabile ibrido tra corporeo e meccanico, la determinazione di sé.

THR – Il film offre più misteri di quanti ne risolva. Tuttavia, le incredibili interpretazioni di Viggo Mortensen e Léa Seydoux come artisti performativi le cui tele sono gli organi interni trascineranno i curiosi al cinema.

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CRIMES OF THE FUTURE (1970)

1997. A seguito di una piaga catastrofica derivante da prodotti cosmetici che ha ucciso l’intera popolazione di donne sessualmente mature, il direttore della clinica dermatologica House of Skin, Adrian Tripod, sta cercando il suo mentore, il dermatologo pazzo Antoine Rouge scomparso in circostanze misteriose dopo aver contratto la malattia che porta il suo nome. Nel suo vagare, Tripod incontra quel che è rimasto di un’umanità lacerata, persone e gruppi di uomini che stanno cercando di adattarsi a un mondo post-femminile. Si unisce a una serie di organizzazioni, fra le quali una società di Import-Export metafisico e un misterioso Gruppo Oceanico Podologico, fino a quando non si imbatterà in un gruppo di pedofili che tiene in braccio una bambina di 5 anni… [sinossi]

Ogni virus ha i suoi tempi e i suoi stadi di incubazione. Deve svilupparsi, attecchire, crescere, diffondersi, contagiare, diventare una piaga. Ma prima ancora deve perfezionarsi, evolversi, trovare la sua forma compiuta, procedendo per tentativi e per selezione naturale fino a vincere la sua personale lotta per la vita. Perché un virus è un parassita che ha bisogno delle cellule di un altro organismo per potersi riattivare, ma è al contempo una forma vivente autonoma, con il proprio codice genetico, con la propria capacità di riprodursi, con la propria materialità e con la propria (nano)corporalità. Con la propria ferocia patogena, con le proprie implicazioni fisiche, psicologiche e filosofiche, con i propri effetti sempre più devastanti. E con, appunto, la necessità di un tempo di latenza e gestazione prima di poter giungere alla sua definitiva maturazione e compiutezza. Un tempo nel quale il virus sperimenta nuove forme e strategie d’attacco, un tempo nel quale l’infezione supera difficoltà e si mette alla prova fra le difese immunitarie da aggirare e gli antibiotici a cui imparare a sopravvivere. Un tempo nel quale il morbo non è ancora del tutto maturo, ma già lascia intravvedere tutto il suo potenziale ancora in fieri, tutta la veemenza che saprà avere nelle sue successive manifestazioni, e nel frattempo si allena, si perfeziona, mette sul piatto la propria essenza primigenia e cerca le direzioni nelle quali spingerla.

Specialmente quando l’agente patogeno in questione è quel virus mutaforma che scorre sotto le immagini e dentro le ossessioni di David Cronenberg, quel virus sul quale si impernia e nel quale si identifica tutto il suo cinema, quel virus che in un certo senso è il suo cinema, l’elemento fondante, il linguaggio e il campo di ricerca, la forma e la sostanza, la domanda e la risposta, l’origine e il punto di arrivo. E se il cinema di Cronenberg è assimilabile a un virus, allora la sua opera seconda Crimes of the future ne è l’ultimo stadio d’incubazione, è quell’ultimo gradino espressivo che era necessario affrontare perché l’infezione potesse farsi trovare pronta a diventare pandemia, trovando con i (pochi ma fondamentali) denari di una produzione quella che sarà la sua prima forma compiuta ma mai definitiva ne Il demone sotto la pelle (1975).

Perché no, al pari del precedente Stereo e a differenza dei lavori successivi Crimes of the future, se preso da solo, non è ancora un film pienamente compiuto e maturo. È un lavoro autoprodotto a costi risibili, totalmente indipendente e già consapevole del talento e dell’immaginario del suo autore, profondamente coraggioso nei suoi temi spinosi e lucidamente intrigante ed enigmatico nell’affrontarli, orgogliosamente underground nelle sue forme sperimentali e forte dei propri limiti, a partire dalla trasformazione in puro linguaggio della necessità di girare ancora una volta senza audio in presa diretta a causa del forte rumore prodotto dalla Bolex. Eppure, fra i tanti spunti di interesse, le sequenze risultano ancora troppo separate fra un incontro e l’altro del protagonista, mentre alla drammaturgia e al ritmo narrativo, spesso dilatati, ancora mancava quella piena calibratura che giungerà solo dal lavoro seguente.

È arduo provare a immaginare quale possa essere stata l’accoglienza riservata a un UFO cinematografico come Crimes of the future nel 1970, al momento della prima presentazione. Certo, c’erano già state quelle ossessioni cinematografiche di psico(pato)logia, solitudine, sconfitta e apocalisse ereditate dalle letture compulsive di Ballard che Cronenberg covava sin dai primi cortometraggi Transfer (1966) e From the Drain (1967), e c’era già stata una loro prima evoluzione distopica e musiva nell’immaterialità (erotica) della telepatia con il primo lungo Stereo (1969) – del quale sin da subito e come vedremo più avanti, per la voce fuori campo che cuce le fila narrative fra i silenzi delle riprese mute, per le location, per le atmosfere, per i personaggi e per le soluzioni di messa in scena, questo lavoro si configura(va) non solo come la seconda parte di un dittico sperimentale a cavallo fra la fantascienza e l’horror, ma quasi come una sorta di secondo tempo a colori dello stesso film.

Il reale valore di Crimes of the future però, emerso con tutto il suo vigore nel corso degli anni, può essere capito appieno solo oggi, alla luce di quelli che sono stati i lavori successivi dell’autore nativo di Toronto. Per quanto il fiuto di un recensore del tempo potesse sfiorare la chiaroveggenza, nessuno tranne, forse, lo stesso Cronenberg poteva ancora sapere quanto Crimes of the future, con le sue innegabili intuizioni pronte a emergere da un’altrettanto innegabile immaturità narrativa, sarebbe stato in seguito leggibile come una sorta di manifesto di tutto il suo cinema, come un chiaro e deciso intento programmatico, come una sorta di compendio di tutto ciò che sarà nei successivi 40 anni, da Il demone sotto la pelle a Scanners, Rabid a Brood, da La Mosca a Crash, da M. Butterfly a Spider, anticipati con precisione e coerenza impressionanti. Molto più semplice è tentare un approccio analitico fra le righe di Crimes of the future adesso, a posteriori, dopo che la carriera dell’allora ventisettenne David Cronenberg ha portato a definitiva maturazione tutti quei temi che, seppur in forma ancora acerba, già al tempo costituivano tutto l’immaginario, lo sguardo e la poetica dell’autore canadese.

 

Ci sono la mutazione, la distopia, la carne, la morte, la sparizione, il contagio. C’è l’aberrazione, c’è fobia, c’è l’attrazione sessuale. C’è la malattia, c’è la depravazione, c’è l’ossessione perversa. Ci sono le gerarchie sociali e le associazioni segrete, c’è la fascinazione nei confronti dei maestri e delle guide carismatiche, ci sono i feticismi, le cospirazioni e i riti esoterici, c’è il lato frustrato del desiderio e c’è una pedofilia (in)utile e obbligata, destinata a non essere mai consumata. E soprattutto, alla base, ci sono i brandelli di un mondo mondo post-femminile sui quali si innesta una metafora distopica che è al contempo sociale, esistenziale e metafisica, fatta di identità sessuale e di necessità di adattarsi per sopravvivere, di incroci impossibili fra discipline ormai prive di senso, di consapevolezza della fine interrotta solo da immorali illusioni.

È questo il (micro/macro)cosmo tormentato nel quale Adrian Tripod (il sodale e iconico Ronald Mlodzik, che mantiene la stessa centralità che aveva in Stereo guadagnando questa volta un nome e un ruolo definito), a detta della sua stessa voce narrante direttore della clinica dermatologica House of Skin, girovaga alla ricerca del «dermatologo pazzo» Antoine Rouge, suo mentore scomparso nel nulla dopo avere contratto, primo uomo dopo che la pandemia da lui stesso scoperta ha sterminato ogni donna sessualmente matura, la malattia che porta il suo nome. Il segno definitivo della malattia, provocata dai cosmetici e in seguito diventata una propagazione infettiva inarrestabile, è la spuma di Rouge, una sostanza spumosa e biancastra destinata a essere espulsa dalle orecchie dei malati e irresistibilmente invitante per chi, sano, si ritrova a mangiarla avidamente. È l’attrazione nei confronti della morte, del contagio, del dolore, ed esattamente all’opposto del sostanziale mostro fecale che sarà il virus di Il demone sotto la pelle la spuma si presenta languida, saporita, sensuale, morbida. Innocua quando il paziente è ancora in vita, ma letale da subito dopo la sua morte con la necessità di una cremazione il più possibile rapida.

Ma Tripod, che vede morire lentamente e agonizzando l’ultima paziente mentre i medici, fra smalti sulle unghie e crescente intimità cercano di ritrovare – un po’ come antesignani di M. Butterfly – una femminilità ormai impossibile, non sa se Antoine Rouge sia effettivamente vivo o morto. Vaga alla ricerca di un suo segno, di una sua presenza, della sensazione della sua esistenza, o meglio ancora della sua essenza. Lo vuole “sentire”, così come sente il freddo della montatura e delle lenti sulla lingua quando si ritrova a leccare gli occhiali quasi come se fosse il primo germe di quella commistione fra carne e lamiera che toccherà con Crash l’apice della sua sensualità malata, e nel frattempo incontra altri uomini che tentano disperatamente di sopravvivere, di non arrendersi, di adeguarsi a qualsiasi costo. O che rinunciano apertamente a farlo. C’è chi crea e colleziona organi nuovi e malformati all’Istituto per le Nuove Malattie Veneree, a metà strada fra una parodia della nascita e il rapporto con la carne dall’edonismo alla metafisica della malattia come atto creativo, c’è chi cerca di tornare al brodo primordiale di pinne natatorie e tentacoli per curare le crisi psicologiche con il Gruppo Oceanico Podologico impossibile rottura del confine fra due scienze difficilmente collegabili, c’è chi si rotola nei prati fra vecchie fotografie e dita dei piedi sindattili, c’è chi attende il proprio destino in silenzio, c’è chi sviluppa feticismi di ogni tipo nei confronti degli oggetti per non arrendersi alla realtà, c’è chi si limita a danzare senza proferire parola e soprattutto c’è chi, in un impossibile Import-Export metafisico, cerca di far coincidere idea e carne.

 

Ma a questo punto è necessario fare un piccolo passo indietro. È necessario tornare a Stereo, il precedente grado di incubazione del virus/cinema di David Cronenberg. A quel virus già latente nella società e nella psiche, nella carne e nella mutazione, nella scienza e nella macchina, nella realtà e nella distopia, nell’eros e nel feticcio. A quel virus da smascherare e analizzare, da dissezionare e da temere, e al contempo dal quale lasciarsi apertamente sedurre come unica possibile liberazione. Dove in Stereo, a intervallare il coro di voci narranti, il silenzio era accompagnato dal solo (amplificato) fruscio dello scorrere della pellicola, in Crimes of the Future Cronenberg aggiunge all’unico commento del protagonista uno straordinario lavoro sul rumore, sorta di sinfonia industrial fatta di effetti audio e di vecchi cancelli, di vetri rotti e di cigolii ferrosi, di percussioni e di nacchere irregolari, di motoseghe e di campionatori, di pop corn che esplodono e di corde saltate, di robotici motori e di (non) brusche interruzioni. Ma anche di inaspettati suoni naturali, fra i latrati dei cani e il bubolare dei gufi. Quasi come fosse la parziale sonorizzazione noise di un film muto, il cui effetto è straniante quanto stordente, fisico, meccanico, contagioso.

E nel frattempo il regista, insieme agli stock di pellicola in bianco e nero, abbandona anche i vertiginosi ralenti e i repentini cambi di punto di vista che costituivano i raccordi di montaggio più audaci di Stereo per cercare una narrazione che iniziasse a essere più compiuta e definita, mentre con il passaggio al colore le scelte cromatiche diventano inevitabilmente una parte fondamentale dell’aspetto visivo. Quelle che erano la telepatia e le percezioni extra-fisiche destinate a divenire corpo e malizia mutano forma, si trasformano in quel bilico fra attrazione anche squisitamente erotica e repulsione pronta a sconfinare nella paura che, giusto un anno prima di quel 1997 messo futuristicamente e distopicamente in scena nel ’70, troveranno nelle cicatrici, nei ferri e negli incidenti automobilistici di Crash il loro definitivo punto di sintesi. Alla fin fine, il bollore carnale provocato dalla spuma di Rouge e dalla malattia nient’altro è che il gradino successivo del sublime filosofico e letterario. È una fascinazione irresistibile nei confronti dell’orrore, dell’escrescenza, della mutazione, della secrezione, del contagio, del dolore, della morte. È il virus, è il corpo estraneo, o forse è la macchina, dall’automobile dei tamponamenti come deflagrazione della sensualità e del desiderio a quel dispositivo che porterà alla fusione fra l’uomo e La mosca, all’ibrido, al mostro. O forse, ancora, è più semplicemente l’evoluzione, costante stimolo e modificazione genetica come storia dalla quale non si può fare a meno di partire e a cui non si può che tornare.

Fatto di stranianti inquadrature dal basso, vertiginosi campi lunghi, architetture futuristiche, tempeste di colori a squarciare il buio delle riunioni più segrete, granulosi controcampi e lunghi inseguimenti a mano, Crimes of the future mette in scena gelosie e promiscuità, seduzioni e secrezioni, mutazioni e feticismi, piedi mutanti che si fanno palmati e carte stereoscopiche, oscure teorie filosofiche e contaminazioni epide(r)miche, cospiratori pedofili e bambine ricreate dopo l’annientamento della donna ma non/mai del femminile. Le tappe del vagare di Tripod sono uomini e vestiti, ginnastica sacerdotale e perversione sessuale nelle immagini, espansione dei gruppi depravati al di fuori delle leggi e rapporti maestri/allievi, nuove guide spirituali e immersioni psicologiche nell’«acquario» delle sensazioni, dapprima cutanee e poi sempre più profonde, intime, ancestrali. Perverse, come le immagini alla costante ricerca di una nuova sessualità, e come gli uomini alla costante ricerca di una nuova tecnica riproduttiva. Quegli uomini che non si fidano più nemmeno delle proprie gambe, che temono la solitudine, che vivono delle proprie frustrazioni, e che sfidano apertamente la natura per tentare di tornare a uno status quo malato, perverso, fatto di desiderio ma ormai privo di qualsiasi capacità d’amore. E ancora scosso da squilibri e lotte sociali, da egoismi e complotti, da paure e ossessioni sempre più perverse, perché non si può sfuggire alla propria natura.

Tanto che Tripod inizierà a parlare di se stesso in terza persona, come per iniziare a prendere una distanza da ciò che non potrà fare a meno di diventare. Verrà ammesso nel centro di ricerca ginecologica, in cui idea e carne tornano a coincidere nelle forme di una nuova umanità o per lo meno nell’illusione di una nuova umanità, e l’Import-Export metafisico della bambina si fa fisicità pura, rapimento, altra sparizione mentre arriva la polizia impotente, e poi ancora una volta idea, simbolo, disegno infantile. Assenza e nuova presenza, lontano, proprio dove era sparito Rouge, proprio dove diventa chiaro anche a Tripod che il suo mentore non tornerà mai più. Una radice spunta come un’antenna cerebrale dal naso del portiere dell’albergo, ma non è questa la mutazione che farà sopravvivere l’essere umano, l’unica atroce speranza è la bambina. Che puntualmente, con la voluttuosa spuma che Tripod perfettamente conosce, dimostra di aver contratto la malattia di Rouge. E l’idea di una nuova umanità svanisce amara nella dolcezza nell’inevitabile boccone di panna. O in una lacrima. Il virus di David Cronenberg aveva appena iniziato a propagare il suo contagio, stava crescendo, si stava perfezionando. Lo aspettava un viaggio lungo e straordinario, fatto di corpi, menti, pulsioni, mutazioni. Un’epidemia di capolavori per sempre infetti.

Pubblicato su quinlan.it 08/05/2018 by Marco Romagna



 

 

 

lunedì 23 maggio 2022

ESTERNO NOTTE di Marco Bellocchio (2022)

Arrivato splendidamente a superare gli ottant’anni, Marco Bellocchio sembra aver deciso di voler fare solo film “grandi”, film (o serie TV) che affrontino di petto la storia del nostro paese in un modo così chiaro e diretto come forse non aveva fatto mai. Già con Il traditore – presentato a Cannes 2019 – aveva lasciato intendere che è necessario interrogarci sugli ultimi quarant’anni di vicende italiche se vogliamo provare a ritrovare la nostra identità, dobbiamo interrogarci su ciò che ci è successo per provare a evitare di commettere ancora errori o, per meglio dire, orrori.

Più che a Buongiorno, notte ci pare infatti che la serie TV Esterno notte – mostrata a Cannes 75 nella versione integrale in sei episodi, mentre nelle sale italiane uscirà in due parti e in TV sarà in programmazione in autunno – si ricolleghi direttamente proprio a Il traditore, in cui la vicenda di Buscetta serviva ad ampliare lo sguardo fino a un racconto sull’irrimedibile tentazione mafiosa delle nostre istituzioni. Qui, in Esterno notte, la “scusa”, per così dire, è quella del rapimento di Aldo Moro, che serve da apripista per una serie di riflessioni tutte ruotanti intorno al conflitto tra dubbio e fermezza. E la tentazione è quella del potere, dell’idea virile della vittoria a tutti i costi, del narcisismo del potere fine a se stesso. È questa l’accusa che Bellocchio lancia a quella classe dirigente, quella che – dalla DC al PCI – non fece nulla per evitare che Moro venisse ucciso dalle BR, quella che – tra le file della DC in particolare – magari arrivò a pensare che, tolto di mezzo Moro, diventava finalmente possibile ipotizzare di fare un salto di carriera.

Quando, infatti, verso la fine di Esterno notte, in una ricostruzione fittizia delle immagini di repertorio, Bellocchio ipotizza che al funerale degli uomini della scorta via sia anche la moglie di Moro, Eleonora, insieme a tutta la famiglia, ad un certo punto uno dei figli di lei si alza e urla rivolto alle autorità: «Questa è la vostra guerra, non la nostra!» E allora lì il discorso si fa chiaro: Cossiga (protagonista del secondo episodio), il papa (terzo episodio), i brigatisti Morucci e Faranda (quarto), la moglie Eleonora e quasi tutta la famiglia (quinto) sono in qualche modo le vittime dell’ottusità del potere, della guerra che non conosce obiezioni, di quel pensiero unico che si impose presto e che stabilì che Moro doveva morire. Un discorso, questo, che è sempre di attualità e che non si fa fatica a collegare a quanto sta succedendo in questi mesi con la guerra in Ucraina, dove il minimo dubbio viene tacciato di disfattismo. E, allora, il dubbio non era proprio quello del Buscetta/Favino ne Il traditore? Non era in fin dei conti quello che lo “salvava” e gli faceva riscoprire l’umanità?

È per questo che l’episodio decisivo in tal senso è proprio il quarto, quello con i brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, che ad un certo punto si interrogano e si domandano: «Ma non sarebbe meglio non uccidere Moro? Perché ucciderlo? Il gesto veramente rivoluzionario non sarebbe forse liberarlo?». I due, magnificamente interpretati da Daniela Marra e Gabriel Montesi, superano per complessità e stratificazione persino il personaggio interpretato da Maya Sansa in Buongiorno, notte, già troppo roso dal dubbio dell’idea rivoluzionaria per apparire totalmente credibile. Qui i due non sono pentiti – o, almeno, non lo sono ancora – eppure credono che Moro vada liberato. Si scontrano e discutono tra loro a proposito della rivoluzione con parole credibili e non come un ciclostilato d’epoca come troppo spesso è successo nel nostro cinema quando si è tentato di raccontare la lotta armata. In questo episodio, insomma, Bellocchio è riuscito a raccontare dal di dentro i dubbi rivoluzionari di alcuni dei militanti delle Brigate Rosse come forse mai era capitato nel nostro cinema, ha finalmente spezzato un tabù che durava da decenni.

Ma non poteva fare un film solo su questo, ci è venuto a un tratto da pensare? Oppure non poteva fare un film solo su Cossiga, il cui personaggio giganteggia nel secondo episodio come quello di un uomo che si lascia autodistruggere dal potere e dai sensi di colpa? Poteva sì, ma sarebbe stato troppo e troppo poco. Se l’avesse fatto, infatti, non sarebbe riuscito a costruire questo mosaico complessissimo, questa apoteosi del romanzesco, non sarebbe riuscito a raccontare appieno questo multi-universo che è stata l’Italia della fine degli anni Settanta.

Certo, qualche dubbio c’è (a partire dai titoli di testa che fanno eccessivamente il verso alle serie TV americane), qualche lungaggine da qualche parte l’abbiamo trovata, e crediamo che sia dettata soprattutto da questa forma di serialità che impone una durata uguale per ogni singolo episodio, un tributo che – ci sembra – Bellocchio paghi soprattutto nella prima puntata, troppo “scolastica” nel suo essere storica, troppo divulgativa e, a tratti, troppo grottesca alla Petri di Todo modo senza riuscire ad arrivare a quell’altezza smisurata. Ma, come dire, si tratta di dazi in qualche modo inevitabili a fronte di un disegno di portata immenso che da Moro ci porta fino all’oggi. Si tratta di piccole e perdonabili concessioni allo spettatore televisivo che preludono e, in qualche modo, consentono le virate più personali e più visionarie, come ad esempio nella sequenza in cui Moro mostra alla moglie e ai figli la cappella di famiglia a Torrita Tiberina. Lì il leader democristiano sembra già volersi seppellire, sembra già puntare agli allori post-mortem, vuole già pensare ai posteri. Ed è anche per questo che lui in Esterno notte resta, al pari di Andreotti, il personaggio più enigmatico, più enigmatico di quanto non lo fosse in Buongiorno, notte. Intanto per via della recitazione di Gifuni, che tende molto a imitare quella del Moro interpretato da Volonté; quindi una recitazione mimetica, anche se più posata, comunque completamente diversa da quella di Herlitzka in Buongiorno, notte, tutta puntata a sottolineare l’umanità del personaggio. Qui invece Moro appare per certi versi “disumano”, a suo modo “mostruoso”, schiavo anch’egli di quel potere che i personaggi “positivi” di Esterno notte invece rifiutano. Non è un caso che la moglie – interpretata da Margherita Buy, la migliore del cast insieme ai già citati Marra e Montesi, e insieme a Fausto Russo Alesi nei panni di Cossiga – a un certo punto dica al prete che suo marito è tanto preso dal suo ruolo di statista da preferire chiudersi nello studio per scrivere un discorso agli italiani piuttosto che starsene in famiglia. Per certi aspetti, il Moro qui ritratto da Bellocchio è già icona, è già statua, è già la maschera di se stesso. E questo forse accade anche perché Bellocchio è stato attento a non ripetersi, è stato attentissimo a non rifare quel che aveva già fatto in Buongiorno, notte, e anzi ha puntato a migliorarsi, per lunghi tratti riuscendoci.

Il caso più lampante in tal senso viene dall’utilizzo che viene fatto delle immagini di repertorio: nel primo episodio questo uso lascia all’inizio un po’ perplessi in quanto si passa da riprese reali a riprese invecchiate artificialmente, in cui è sin troppo chiara la falsificazione. Ma in quel momento non si può ancora sapere quel che succderà dopo. Infatti, in fin dei conti, il primo episodio funziona da contestualizzazione sotto ogni aspetto: non solo narrativo, ma anche visivo. E così Bellocchio, di episodio in episodio, piazza qua e là il ritorno al repertorio: lo fa ovviamente con la celeberrima edizione straordinaria di Bruno Vespa in cui si annunciava il rapimento di Moro, ma lo fa anche con le riprese del lago di Duchessa, quando un finto comunicato delle BR spinse le autorità ad andare a scavare nel ghiaccio per vedere se il corpo di Moro si trovasse davvero lì. E quelle riprese del lago di Duchessa ritornano continuamente, ossessivamente, tre o quattro volte, e ogni volta vengono lette in una nuova chiave, e ogni volta ci appaiono più assurde e più visionarie. Lo fa poi con i funerali di stato di Aldo Moro, spiegando quello che non spiegava – e a cui alludeva – in Buongiorno, notte, e cioè che quei funerali si fecero in assenza del corpo del leader della DC. Ma il vero “colpo” lo assesta quando reinventa l’archivio, lo riscrive a suo piacimento, in funzione di ciò che vuole raccontare, e l’episodio più eclatante in tal senso avviene proprio nel momento già citato del funerale della scorta di Moro. Lì – e in un altro paio di momenti che però è meglio non svelare – Bellocchio ci dà la sua personalissima rilettura della Storia, che è anche ovviamente Storia del cinema e dello sguardo: il falso si può fare, e anzi si deve fare, basta che sia brechtianamente dichiarato e che serva per capire meglio le dinamiche storiche. E anche qui Esterno notte dialoga a distanza ravvicinata con Il traditore, con il modo in cui ad esempio veniva usato l’anatema della vedova di Vito Schifani della scorta di Falcone quando proruppe nel tragico: «Ma tanto loro non cambiano!», un anatema che poi andava ad assillare in loop i mafiosi in carcere.

Abbiamo cominciato con il dire che Bellocchio si sta imponendo di fare grandi film, grandi affreschi storici. E meno male, viene da concludere. Perché, oltre a Martone, non c’è nessun altro nel cinema italiano contemporaneo che sia in grado di farlo, nessun altro che abbia la volontà, la voglia e la capacità di scavare a fondo nei nostri misteri e nelle nostre ambiguità, in quei fatti e in quegli snodi che in fin dei conti formano la nostra identità.

Pubblicato su quinlan.it, 05/20/2022 di Alessandro Aniballi

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I rumori fuori dalle finestre raccontano di una città in stadio di assedio, di una guerra che infuria per le strade di Roma, nel corso dei primi due vertiginosi episodi della serie di Marco Bellocchio “intorno” al caso Moro: sirene di ambulanze e macchine della polizia, slogan e urla che riecheggiano dagli scontri di repressione dei cortei. Il gioco con il repertorio non è solo quello sempre inarrivabile che ritroviamo nel Bellocchio contemporaneo, con le immagini sgranate dell’archivio catodico che dialogano come fessure infradimensionali con lo spaziotempo del set, esondando dai finestrini delle automobili, dagli schermi, dalle vedute fuori dai balconi. No, stavolta a contribuire ad un senso di fine del mondo imminente c’è anche la sensazione costante di una società ad un passo dall’esplodere fragorosamente, innanzitutto come detrito sonoro sullo sfondo delle “stanze dei bottoni” che la serie attraversa – Cossiga come J. Edgar Hoover fa installare un centro avanguardistico di intercettazioni telefoniche ma i macchinari captano soprattutto deliri di persone costrette alla solitudine, o le teorie astruse di visionari convinti di vedere Moro in sogno.

Anche in giro per la città regna il caos, le coppie si bucano sugli autobus davanti agli anziani passeggeri che evocano il regime, e mentre il nugolo di brigatisti decide il da farsi, intorno a loro è tutto uno scippo di borsette coi motorini. Nell’episodio forse più abissale, quello dedicato al Cossiga di Fausto Russo Alesi che si guarda ripetutamente le mani macchiate come Macbeth ed è convinto che Moro stia fissando proprio lui dalla celebre foto mandata ai giornali dalla cella di prigionia, il politico corre a perdifiato per i corridoi, non dorme mai ma si rintana continuamente in uno stanzino insonorizzato e buio, ma sembra comunque il personaggio meno esagitato tra i generali che invocano lo stato di guerra, i medium, e gli esperti in ostaggi mandati “dagli americani”. Sembra tutta una grande messinscena, come le decine di false piste e depistaggi, e infatti ad un certo punto qualcuno scambierà una rappresentazione teatrale scolastica instant sul rapimento, per un rifugio del vero Moro.

È vero, produttivamente Esterno Notte rappresenta un nuovo picco per la stagione d’oro della serialità italiana, attraversata com’è da altissimi momenti di cinema abbacinante in cui Bellocchio trasla la vicenda istituzionale in allucinazioni ancestrali, cadaveri lungo il fiume e via crucis della classe dirigente. Nel folto gruppo di sceneggiatori c’è un po’ tutta la squadra di 1992, sempre più il vero prodotto-spartiacque della produzione “politica” nazionale (che ha figliato non solo Il traditore ma anche Hammamet, per dire), anche per le invenzioni di montaggio di Francesca Calvelli, altro trait d’union decisivo per il true crime all’italiana. E però Bellocchio tra le righe sembra suggerire che, insomma, non è poi tutta questa novità l’autorialità al confine tra i due formati, Moro/Gifuni parla del Pinocchio tv di Comencini ai suoi studenti e la radio annuncia Cristo si è fermato a Eboli di Rosi in due versioni, cinematografica e televisiva.

La radio, ancora una volta un indizio che arriva da una fonte sonora: com’è noto, la serie segue una narrazione legata a singoli personaggi, e non una progressione cronologica di puntata in puntata. Ecco, due dei momenti più struggenti sono probabilmente due telefonate, a rafforzare ancora la sensazione di un impianto in cui le voci (in sparute occasioni anche quelle dei pensieri dei protagonisti) assumono un’importanza primaria. Nel bellissimo episodio dedicato a Eleonora Moro/Margherita Buy, una brevissima telefonata dove la donna, coriacea e spesso sferzante con le continue visite ufficiali che riceve a casa, chiama la moglie del capo della scorta all’indomani dell’attentato omicida; e un momento di umanissima indecisione di Paolo VI/Toni Servillo quando deve scrivere il celebre discorso rivolto ai brigatisti, e si fa consigliare per telefono in piena notte da Padre Curioni/Paolo Pierobon.

In questa smolecolarizzazione continua di icone di cui la Storia ha tramandato la versione infrangibile, e qui invece vanno a pezzi, questa ricerca per l’appunto di un corpo che non si trova più gira intorno all’immagine ritornante (e ancora una volta di repertorio) del finto ritrovamento sui fondali ghiacciati del lago della Duchessa. Il comunicato delle BR che indicava il luogo col cadavere di Moro era falso, ma la squadra di sommozzatori che con grande dispiego di forze si immerge sotto la neve e le lastre ghiacciate rivela per Bellocchio la condizione di inafferrabilità dello spettro di Moro. Proprio come già nel celebre finale di Buongiorno, notte, Aldo Moro forse si agita ancora subito sotto la superficie ingannatrice delle cose, oppure è ancora incastrato, sospeso nelle profondità della Storia come le voci di questa serie, mentre ci si affanna con grandi mezzi a cercarlo esattamente dove non potrebbe mai davvero trovarsi.

Pubblicato su sentieriselvaggi.it, 18 Maggio 2022 di Sergio Sozzo