mercoledì 10 dicembre 2014

2014 | 4102

The Wolf of Wall Street (M. Scorsese)
Black coal, thin ice (Diao Yinan) 
Rosi Braidotti - Il postu­mano (Derive e Approdi)
Beck - Morning phase
True Detective (stagione 1)
Vijay Iyer - Mutations 
Solo gli amanti sopravvivono (Jim Jarmusch)  
Giulio Questi - Uomini e comandanti (Einaudi) 

John J. Sullivan - Americani (Sellerio)
Nada - Occupo poco spazio
Moodymann - Moodymann
Nymphomaniac vol. I & II (L. Von Trier)
David Means - Il punto (Einaudi)
Under the skin (Jonathan Glazer)
Penny dreadful (stagione 1)
The War On Drugs - Lost in the dream
Rachel Kushner - I lanciafiamme (Ponte alle Grazie)

Fargo (FX - stagione 1)
Lone Survivor (Peter Berg)
Welcome to New York (Abel Ferrara)
Sun Kil Moon - Benji   
Lucia Biagi - Punto di fuga (ediz. Diabolo) 
Mommy (Xavier Dolan)
Peter Blauner - Slow zero riot (Il Saggiatore - rist.)
La gelosia (Philippe Garrel) 
 
Ø (Mika Vaino) - Konstellaatio 
Fire! Orchestra - Enter
Dave Holland & Prism (Kevin Eubanks, Craig Taborn and Eric Harland) live in Genova, 2014
Bernard Malamud - L'uomo di Kiev (Minimum Fax - rist.)
Tobias Wolff - La nostra storia ricomincia (Einaudi) 
Kazuo Koike - Lady Snowblood (rist. BD ediz.)
Anime Nere (Gioacchino Criaco) 
The Look of Silence (Joshua Oppenheimer )
Thomas Piketty - Il capitale nel XXI secolo (Bompiani)
 
Gala Drop - II
Giancarlo Balduzzi - Il diario di Disco Club memorie di un dischivendolo (autoprodotto)
The Knick (cinemax - stag. 1)
Boyhood (R. Linklater) 
Sils Maria (Olivier Assayas)
Due giorni, una notte (Jean-Pierre + Luc Dardenne)
Transparent (amazon/netflix - stag. 1)
The Babadook (Jennifer Kent)
L'amore bugiardo - Gone Girl (David Fincher)
 
runners Dallas Buyer's Club (Jean Marc Valleè) / George Saunders - Pastoralia (minimum fax) / Hiroshima Mon Amour (Alain Resnais - ver. restaurata) / Actress - Ghettoville / Her (Spike Jonze) /  Gomorra-La serie (stag. 1) /  Richard Dawson - Nothing important  /  Dubravka Ugresic - Cultura karaoke (nottetempo) / Swans - To be kind / The Leftovers (Hbo - stag. 1) / Jack White - Lazzaretto / La preda perfetta (Scott Frank) / Battiato+Pinaxa - Joe Patti's Experimental Group / David Cronenberg - Divorati (bompiani) / Guardiani della Galassia (James Gunn) / Il regno d'inverno (Nuri Bilge Ceylan) / Nuvole e mani - Il cinema animato di Simone Massi (minimum fax) /  Jennifer Eagan - La fortezza (minimum fax) / Giorgio Fontana - Morte di un uomo felice (sellerio) / Ariel Pink - Pom pom / Lucinda Williams - Down Where The Spirit Meet The Bone
neither fish nor flesh (?) Nebraska (Alexander Payne) / C'era una volta a New York (James Gray) / A proposito di Davis (Coen bros.) / Donna Tartt - Il cardellino (Rizzoli) / Damon Albarn - Everyday robots / Il capitale umano (P. Virzi) / American Hustle (David O.Russell) / 12 anno schiavo (Steve McQueen) / Grand Budapest Hotel (Wes Anderson) / Maps to the stars (D. Cronenberg) / One on One (Kim Ki Duk) / Mud (Jeff Nichols) / Frances Ha (N. Baumbach) / Aphex Twin - Syro / Pasolini (A. Ferrara) / Il giovane favoloso (M. Martone) / Thomas Pynchon - La cresta dell'onda (Einaudi) / Interstellar (C. Nolan) / Il sale della terra (Wenders/Salgado) / Fka Twigs - LP1


martedì 29 luglio 2014

martedì 4 marzo 2014

l'OSCARto

Ho sempre atteso la notte degli Oscar con la stessa trepidazione con cui attendo l'influenza aviaria o l'ennesima edizione del grande fratello. Sinceramente non mi importa nulla di premi che, anche nel passato recente, sono andati prevalentemente a blockbuster - anche di qualità, ci mancherebbe - come Il signore degli anelli piuttosto che enormi puttanate come Il paziente inglese. Farsi influenzare dalla statuetta dorata per decidere, o meno, se andare a godere della proiezione sul grande schermo di un film piuttosto che un altro, è come lo spettatore casuale che va in una multisala e decide in base al titolo, all'orario, al flyer. Lo detesto (lasciatemi estremizzare il concetto, please) nello stesso modo in cui detesto coloro che acquistano un libro a partire dalla copertina; utilizzassero almeno questa formula leggendone il retro, di copertina.

E a chi frega di queste disquisizioni ? A me, ovviamente. E fortunatamente alla maggior parte di persone che frequento e con cui mi diverto a parlare, anche, di Cinema. Si, il Cinema con la C maiuscola, non quello da pseudointellettuali, o da tuttologi, altre due categorie che detesto, ma quello che interessa un pubblico appassionato, o che, almeno, ci si avvicina. Per intenderci, quelli che sono andati a vedere La grande bellezza, sperando di dare ancora una chance a Sorrentino, prima dei Golden Globe, Bafta e nafta vari. I premi come gli Oscar non servono più a un cazzo, o meglio, possono essere utili, nel migliore dei casi, come cassa di risonanza per una distribuzione internazionale, o ai miei tanto cari pseudointellettuali con la barba curata o con il capo vintage che possono vantarsi con l'amica/o di aver visto il film che ha trionfato anche a Venezia o Cannes. I festival veri, come Berlino, Locarno, quelli se li filano in pochi, per non dire che molti ne ignorano addirittura l'esistenza.
La cerimonia degli Oscar per gli americani è quel momento di cultura popolare quale può essere da noi il festival di Sanremo, una paccottiglia di  finto buonismo esasperato, ma che tanto fa sembrare il popolo unito, sotto l'egida della propria bandiera. Hollywood e gli Oscar, of course, negli anni '70 erano tutt'altro. Il periodo storico era tutt'altro, si respirava l'aria del Watergate, dei Weather Underground, delle Black Panters, la protesta contro la guerra in Vietnam. Sintetizzando, c'era una coscienza storica, politica, sociale, matrici che oggi - e di certo non sono io a dirlo - sembrano dissolte. Quelle matrici che connotavano moltissimi film della mecca del cinema, dando vita ad un genere che, nemmeno troppo artificiosamente, venne definito di "impegno civile". Negli anni '70 venivano premiati Il braccio violento della legge, Il padrino o candidate opere scomode come Arancia Meccanica, Quinto Potere, Taxi Driver; gli anni '80 e '90 ne vedevano la scomparsa dalle tabelle degli Oscar a favore di incredibili orrori come A spasso con Daisy, Voglia di tenerezza o divertissment come E.T..  Le candidature de Il Grande Freddo, Il Servo di Scena, o le vittorie di un capolavoro come Gli Spietati di C. Eastwood occorrevano per dare quell'aurea autoriale che Hollywood incominciò a non ritenere più remunerativa. Immaginandomi coloro che storceranno il naso, pensando alle vittorie - nel nuovo millenio - dei Coen (Non è un paese per vecchi), Scorsese (The Departed), degli ottimi The Artist o The Hurt Locker di K. Bigelow, continuo a pensare che queste inutili statuine servono a corroborare un'industria che negli anni ha cacciato a pedate in culo Artisti di razza come Friedkin, Schrader o non ha mai visto assegnare un premio alla miglior regia a mostri sacri come Kubrick o Orson Welles...si, va bene, lo hanno dato a John Houston, a Coppola, a Mendes, ma la sostanza non cambia.

I film "stranieri" e gli Oscar costituiscono un paragrafo, se vogliamo, ancora più inquientante. Andatevi a leggere i nomi dei vincitori dei '60 o dei '70, e troverete uno stuolo di Autori: Fellini, il grandissimo e quasi dimenticato Elio Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La decima vittima), Bunuel, Truffaut, Kurosawa. Dopodiché, come per il cinema americano legato a doppio filo con i tragici anni '80 reganiani, eccoci servito Il pranzo di Babette, Pelle alla conquista del mondo fino ad arrivare ai nostrani Salvatores, il bluff Tornatore, l'orripilante Benigni di quel perfido inganno de La vita è bella, per arrivare alla Grande Bellezza del maradoniano Paolo, fresco vincitore per il miglior film straniero. Ma avete ben chiaro cosa piace, dell'Italia al pubblico stelle e striscie ? Attenzione, non del cinema italiano, ma dell'Italia. Piace quella detestabile, anzi quelle detestabili commistioni tra il caciarone e il personaggio piezz'e core,  l'affamato e il truffaldino, il Sud e la macchietta che ride anche ad Auschwitz, e il Sud non è di certo quello neorealista di De Sica, ma quello volutamente straccione del detestabile Tornatore. 

C'è più di un'attinenza tra ciò che è accaduto alla cultura americana e a quella del nostro benamato stivale negli ultimi 30 anni, credo sia sufficente rileggersi i nomi sopracitati. Resto convinto che l'Italia abbia smesso di generare Autori facilmente esportabili come Antonioni o Fellini, dotati di un linguaggio e un talento unico, e che ci sia, purtroppo, bisogno delle orride scaltrezze de La vita è bella o Nuovo cinema paradiso per dare visibilità al nostro cinema. Quello che mi chiedo è che cosa abbiano visto  le giurie, e per ultima l'Academy, nel personaggio di Jep come cazzo si chiama de La grande bellezza e nella regia di Sorrentino. Gli evidenti rimandi a Fellini o a Bunuel ? Una Roma splendidamente fotografata, ma in stile spot villaggio Valtour ? Sono convinto, invece, abbiano visto i soliti italiani caciaroni, sboccati, arrampicatori sociali, gli sguardi tristi, le feste che negli ultimi 20 anni hanno consacrato il bunga bunga come italian lifestyle della borghesia e della politica, gli italiani sbefeggiatori e malinconici, le tavole colme di buon vino e ottimo cibo. Non una grande bellezza, ma una grande abbuffata di luoghi comuni. E la colpa, forse, non è nemmeno di Sorrentino, autore ormai perso nell'ambizione, di un film non riuscito (sulla modernità ?)  o riuscito a piccolissimi tratti - giudizio puramente personale -  in cui l'unica vera bellezza, sembra essere quella meno percepita, quella della memoria, dell'amore adolescenziale di Servillo/Jep, quello del miracolo o del treno che passa solo una volta.

Tornando con il mirino  puntato sulle statuette 2014, le scelte sono state, ancora una volta, dettate dal mainstream. Il premio per il miglior film al peggior Steve McQueen - dopo due fulmini a ciel sereno come Hunger e Shame (entrambi con Fassebender) - di 12 years a slave, dove oltre al tema del peccato originale della schiavitù, che aveva già toccato i cuori degli spettatori americani nel 2013 con lo spielbeghiano Lincoln, sembra ricomparire quello del sogno americano. Il bravo Matthew McConaughey del riuscito Dallas Buyer's Club (ancora meglio nei panni del poliziotto tormentato e ateo del serial HBO True Detective), perchè autore di quelle prove fisiche che tanto piacciono all'Academy, come quelle dell'altro candidato C. Bale di American Hustle. E' pur vero che il cinema è anche spettacolo e divertimento, e che Cate Blanchett è la magnifica interprete di un brutto W. Allen, che Gravity è un buon esempio di intrattenimento, ma quello che risalta ancora una volta sono le esclusioni. A nessuno è mai passato in mente di far vincere il miglior documentario a The Act of Killing, ma solo di candidarlo perchè era impossibile non farlo, o di  candidare  Il Passato di Farhadi, uno dei registi più importanti dell'ultimo decennio, tra i film stranieri.

Non c'è colpa, forse solo mancanza di gusto del pubblico, o ancora peggio di interesse, di cultura, perchè il cinema è Cultura, ma a pochi sembra interessare. Sembra ci sia voglia di stare a prendere il boccone che viene lanciato dall'alto, come un scarto del pranzo destinato al gatto o al cane. Forse è questa la cosa peggiore, si aspetta quello che ci viene propinato, la voglia della ricerca sembra essere scomparsa, come l'amore di Jep. Gambardella. Sono andato a leggermi il cognome.
 

lunedì 20 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese


Un’apnea di quasi tre ore, dal quale si ritorna a respirare incredibilmente a pieni polmoni, tre ore di grande Cinema, frenetico, dialoghi tra il surreale e il real-grottesco, un’orgia di immagini superlative per il biopic di Jordan Belfort. La miglior accoppiata Scorsese/DiCaprio di sempre, sguardo in camera  del protagonista per tentare di spiegare le complesse e illegali operazioni finanziarie che hanno fatto di Belfort uno dei più ricchi broker/truffatori di Wall Street. Un ritratto perfetto di lucida follia, avidità, arroganza, menefreghismo, puttane, tangenti, cocaina e droghe di ogni genere, elementi che fanno da cornice al vero soggetto del racconto, il denaro.
La vera storia di Belfort, non può non essere paragonata a quella del gangster interpretato da Ray Liotta in quell’altro, magnifico, racconto di dissolutezza morale che era “Goodfellas” (il già citato sguardo in camera). Entrambi i film raccontano storie epicamente trasversali della ricerca frenetica e priva di scrupoli della ricchezza e del successo, utilizzando i mezzi più amorali, rapidi e micidiali, dove i titoli azionari sostituiscono le pistole, ottenendo lo stesso disgustoso risultato.
Adattato dalle memorie del protagonista (tradotto recentissimamente in italiano), “The Wolf of Wall Street” racconta l’ascesa e le peripezie del principiante broker 22enne che diventa uno dei più potenti personaggi dell'economia americana. Armato di un eloquio straordinario, contornatosi di un cerchio di amici apparentemente stupidi ma leali, di una strategia illegale, ma sorprendente, che gli permette di guadagnare enormi commissioni sui peggiori titoli del mercato, Wolfie arriva al suo apice negli anni '90, contornato da miliardi che gli consentono una vita sempre all’eccesso. Ovviamente il governo federale comincia a curiosare in giro ed indagare sul castello di carte magistralmente costruito da Belfort, che tenterà, a tutti i costi, di non far infrangere il proprio sogno orgiastico.
Il 71enne Scorsese, come nel già citato “Goodfellas”, o il De Niro del capolavoro “Casinò”, imprime al protagonista quell’aurea affascinante,  potente e magnetica tipica dei peggiori figli di puttana, nelle cui mani ruotano denaro e vite prive di alcuna importanza; quando DiCaprio/Belfort si gira e parla direttamente in camera diventa facile dimenticare che si sta guardando un film, tanta è la mimetizzazione dell'attore con il suo ritratto cinematografico. Se la performance di DiCaprio vale il prezzo del biglietto, diventa impossibile sottovalutare l’eccezionale cast di supporto, dove si incontrano personaggi sempre sopra le righe, e per questo quanto mai reali (puttane, ville brianzole?) che lasciano un ricordo indelebile sul protagonista e il pubblico. Matthew McConaughey (mentore cocainome del giovane Jordan), l’attore regista Rob Reiner (lo sboccatissimo padre di Wolfie) sono fantastici, ma se c'è qualcuno che arriva molto vicino a rubare riflettori a di DiCaprio, è Jonah Hill - poco conosciuto in Italia, se non per i film con Seth Rogen – nella parte dell’arrapatissimo socio/amico di Jordan.
Tre, impercettibili, ore scandite da un ritmo di immagini forsennate e ad alta frequenza, come l’esperienza psicotropa dei protagonisti. Da non perdere, e goderne la visione assolutamente in lingua originale.